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Alitalia, i pagamenti in favore di Accenture non sono revocabili se per prassi avvenivano in ritardo

Con l'ordinanza n. 27939 i giudici fanno il punto sull'interpretazione dell'articolo 67, comma 3, lettera a) della legge fallimentare

di Andrea Alberto Moramarco

In materia di revocatoria fallimentare, non sono revocabili i pagamenti, pur avvenuti oltre i tempi contrattualmente previsti, che siano stati eseguiti ed accettati con le medesime modalità già in precedenza, venendo a costituire una prassi per la quale non possono più ritenersi pagamenti eseguiti in ritardo. Ad affermarlo è la Cassazione con l’ordinanza n. 27939/2020 fornendo l’interpretazione dell’articolo 67 comma 3 lettera a) della Legge Fallimentare.

Il caso

La disputa all’origine della vicenda riguarda Alitalia, come noto società in amministrazione straordinaria, e la società di consulenza Accenture, con la quale la compagnia di bandiera aveva in essere un contratto per servizi informatici, che prevedeva un pagamento rateale mensile per le prestazioni eseguite. In seguito alle vicende che hanno coinvolto la compagnia aerea nel 2008, si poneva la questione della revocatoria fallimentare, ex articolo 67 comma 2 della Legge fallimentare, per pagamenti complessivi – precedenti rispetto al Dl 80/2008 - pari a poco più di 900 mila euro. La Corte d’appello nel 2019, ribaltando il verdetto di primo grado del 2014, riteneva che tali pagamenti dovevano essere revocati, in quanto non eseguiti nei “termini d’uso”: questi avvenivano mediamente con 4 mesi di ritardo, mentre il contratto prevedeva un termine di 30 giorni, «dovendo aversi riguardo all’accordo tra le parti, non alla prassi concreta consolidatasi nel corso del rapporto».

La questione

La parola passava così ai giudici di legittimità, interrogati dalla società di consulenza circa la corretta interpretazione da attribuire all’articolo 67 comma 3 lettera a) della Legge Fallimentare e, in particolare, alla nozione di “termini d’uso” ivi prevista, che avrebbe dovuto «riferirsi alle modalità di pagamento invalse nel rapporto tra le parti» e non invece alla prassi economica del settore, o ancor meno ai patti contrattuali, così come previsto dalla Corte territoriale.

“Termine d’uso” va riferito al singolo rapporto

La Suprema corte ritiene fondata tale doglianza e spiega come la disposizione invocata debba applicarsi alla fattispecie. Ebbene, il Collegio ricorda che tra i pagamenti sottratti all’azione revocatoria vi sono quelli “effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso”. Tale disposizione intende riferirsi al rapporto diretto tra le parti, non solo in relazione ai tempi di pagamento ma anche in relazione alle modalità complessive di pagamento. Deve aversi cioè riguardo a ciò che era consuetudine tra le parti, relativamente a quello specifico rapporto contrattuale. Pertanto, se sussiste un comportamento reiterato dei contraenti, che risulti da una prassi consolidata, esso integra i “termini d’uso” che, in base all’articolo 67, comma 3, lettera a) della Legge Fallimentare, determina l’esclusione dalla revocatoria fallimentare.

La Suprema corte si concentra poi sul significato che il termine “uso” può assumere in ambito contrattuale e commerciale, escludendo il riferimento alle previsioni contrattuali e alle pratiche eseguite su un dato territorio e in un dato settore economico. Esso deve riferirsi al singolo rapporto contrattuale, così come viene attuato dalle parti. Quanto poi alle modalità di pagamento, non basta che uno o due pagamenti siano effettuati in ritardo, ma è necessario che sussista una condotta reiterata di tal tipo precedente ai pagamenti contestati.

Il ritardo reiterato esclude la revocabilità

In definitiva, sostiene la Suprema corte, non sono revocabili quei pagamenti avvenuti oltre i tempi contrattualmente previsti, che sono stati di fatto eseguiti e accettati in termini diversi, al punto che non possano più ritenersi pagamenti eseguiti “in ritardo”, ossia inesatti adempimenti, ma siano divenuti per prassi, proprio al contrario, esatti adempimenti». Pertanto, la Corte d’appello ha errato nel riferirsi unicamente alla disciplina negoziale. I giudici di merito dovranno perciò verificare se, in base ai mezzi di prova offerti, tra le due società si fosse instaurata una «prassi in via di fatto, modificativa degli accordi a suo tempo conclusi, tale da permettere l’adempimento della prestazione pecuniaria in tempi diversi e più lunghi».

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