Civile

Svalutazione partecipate estere anche nei paesi black list

Francesco Machina Grifeo

Sì alla svalutazione delle partecipazioni delle società controllate anche se ubicate in paesi extra Ue e privi di accordi con l'Italia, sempreché si fornisca adeguata documentazione delle componenti negative di reddito. La Corte di cassazione, sentenza 8715 di ieri, affermando un principio di diritto, ha così accolto (con rinvio) il ricorso della società di costruzioni Salini Spa (poi Salini Impregilo, infine da qualche giorno We Build) contro l'Agenzia delle entrate per la riforma della decisione con cui la Ctr Lombardia aveva invece confermato la validità degli avvisi di accertamento Ires per gli anni 2004-2005. Al centro del contenzioso le svalutazioni, per un totale di 12mln di euro, delle partecipazioni in tre società controllate: la "Impregilo y Asociados Panama Sa", con sede a Panama (- 9,6mln euro), la Impresit Bakolor Plc, con sede in Nigeria (- 1,96mln euro), e la PGH Ltd sempre in Nigeria (- 372mila euro).

Con una interpretazione "meramente letterale" della legge, scrive la Quinta Sezione tributaria, il giudice di appello ha ritenuto che "poiché non vi sono accordi tra l'Italia ed i Paesi di residenza delle tre società partecipate (Paesi extra UE), non è consentita la riduzione del valore delle partecipazioni estere da parte di Impregilo, nonostante quest'ultima abbia prodotto i bilanci certificati di ciascuna società, che dimostrerebbero l'effettiva attività economica delle stesse e le perdite concretamente subite negli esercizi relativi al 2004 ed al 2005".

Per la Cassazione, però, anche in assenza di accordi sulla "trasparenza" delle informazioni relative alle partecipazioni societarie estere e "pur potendosi presumere che i dati contabili provenienti siano inattendibili", "non può non consentirsi al contribuente di fornire la prova contraria". Del resto, rilevano i giudici, "la disciplina dei costi relativi alle spese sostenute con società con sede in Paesi in inseriti in black list, mutata nel tempo più volte, ha sempre consentito alle società italiane di fornire la prova contraria all'amministrazione finanziaria, dimostrando alternativamente l'effettiva sussistenza dell'attività commerciale della società estera, oppure della sussistenza di un concreto interesse a svolgere attività commerciale con società di quel determinato paese".

I giudici hanno così accolto il ricorso con rinvio alla Ctr che nel decidere applicherà il seguente principio di diritto: "L'articolo 61 comma 3 bis del Dpr 917/1986, laddove prevede che le svalutazioni di partecipazioni estere, per perdite subite, di società con sede in Stati non appartenenti alla Unione europea sono deducibili dalle società residenti in Italia, sempre che siano in vigore accordi che consentano all'Amministrazione finanziaria di acquisire le informazioni necessarie per l'accertamento delle condizioni ivi previste, va inteso, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, ispirata ai parametri di cui agli artt. 3 e 53 della Costituzione, nel senso che è, comunque, sempre consentito al contribuente residente di fornire la prova contraria in ordine alla sussistenza della esistenza di tali componenti negativi di reddito, come del resto accade per la deducibilità dei costi da spese contratte con società site in Stati inclusi nelle black list, ex art. 110 Dpr 917/1986, per il regime Pex (Participation exemption), ex art. 87 Tuir, per le CFC (Controlled Foreign Companies), ex art, 167 Tuir, ed in ogni ipotesi di elusione ai sensi dell'art. 10-bis legge 212/2000".

Corte di cassazione - Sentenza 11 maggio 2020 n. 8715

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