Civile

Distribuzione selettiva, il Tribunale di Milano definisce il "prodotto di lusso"

L'esistenza di una rete di distribuzione selettiva può essere ricompresa tra i "motivi legittimi" ostativi all'esaurimento (ex. art. 5 C.P.I.), a condizione che il prodotto commercializzato sia un articolo di lusso o di prestigio

di Francesca La Rocca Sena*


La distribuzione selettiva è un sistema di distribuzione a cui gli imprenditori ricorrono sempre più spesso per tutelare la rivendita dei propri prodotti. Essa è definita dal Regolamento UE n. 330/2010 come "sistema di distribuzione nel quale il fornitore si impegna a vendere i beni o i servizi oggetto del contratto, direttamente o indirettamente, solo a distributori selezionati sulla base di criteri specificati e nel quale questi distributori si impegnano a non vendere tali beni o servizi a rivenditori non autorizzati nel territorio che il fornitore ha riservato a tale sistema".

Tale sistema di distribuzione deve essere attentamente costruito, poiché in astratto potrebbe essere idoneo a limitare la concorrenza sul mercato ed essere pertanto ritenuto in contrasto con l'art. 101 par. 1 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE) , che prevede espressamente il divieto di stipulare accordi tra imprese che abbiano quale oggetto o effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza.

La giurisprudenza comunitaria ha però affermato che a determinate condizioni la distribuzione selettiva può essere considerata una modalità di vendita legittima ai sensi dell'art. 101 par. 3 TFUE, nel caso in cui sia limitata a particolari tipologie di prodotti, quali quelli di elevato livello tecnico per i quali l'acquirente necessita di una specifica assistenza, o per i prodotti di lusso e di prestigio, purché i limiti imposti alla libera concorrenza generati da tale modalità di vendita non vadano oltre il necessario, siano stabiliti con criteri oggettivi d'indole qualitativa ed applicati in maniera non discriminatoria a tutti gli aspiranti rivenditori ( Corte di Giustizia UE, 6 dicembre 2017, C-230/16, Coty Germany GmbH ).

Sono invece, ad esempio, vietate clausole quali quelle volte ad imporre i prezzi di vendita, a definire i territori di distribuzione e i clienti finali.

Con specifico riferimento agli accordi inerenti alla vendita via internet da parte dei distributori autorizzati, il Reg. n. 330/2010 UE e, in particolare, il paragrafo 52 delle Linee Guida della Commissione del 19 maggio 2010 (volte ad interpretare tale regolamento) specificano che ai distributori non può essere vietata la vendita online tramite un proprio sito internet.

Tale principio è stato ribadito dalla Corte di Giustizia nel caso P. F. D. - Cosmétique SAS, che ha espressamente affermato che "l'obiettivo di preservare l'immagine di prestigio del marchio non può rappresentare un obiettivo legittimo per restringere la concorrenza" e non può dunque giustificare una clausola che vieti in assoluto la vendita via internet di prodotti". ( Corte di Giustizia UE, 13 ottobre 2011, C-439/09 ).

In ogni caso, seppure un impedimento assoluto alla vendita online costituisce una grave restrizione della concorrenza, è pacificamente ritenuta lecita l'imposizione ai distributori del rispetto di alcuni standard qualitativi del sito, basati su criteri oggettivi e non discriminatori, volti a garantire l'allure del proprio marchio, quali, ad esempio, l'adozione di una grafica del sito di qualità; la predisposizione di uno spazio virtuale esclusivo dedicato ai propri marchi e prodotti, senza riferimenti pubblicitari a prodotti differenti; la richiesta che il sito contempli la vendita di altri prodotti di lusso di concorrenti di pari prestigio.

Sempre più spesso però i prodotti oggetto di contratti di distribuzione selettiva vengono offerti in vendita e commercializzati online da parte di soggetti estranei alla rete di distribuzione selettiva ed in particolare dai c.d. marketplace. Questa situazione ha dato vita a una serie di controversie giudiziarie dove i titolari dei marchi a givano nei confronti di distributori non autorizzati, lamentando la contraffazione dei propri marchi, la lesione del loro prestigio e della loro notorietà.

In tale contesto, i Tribunali aditi hanno, di volta in volta, verificato l'effettiva sussistenza di motivi legittimi che avrebbero potuto portare al venir meno dell' operatività del principio dell'esaurimento del marchio di cui all' art. 5 del Codice della proprietà industriale (c.p.i) , in relazione alle modalità ed alle forme di commercializzazione online dei prodotti da parte di marketplace.

Secondo il principio dell'esaurimento, il titolare del marchio, dopo aver apposto il segno sul prodotto ed aver messo in commercio il prodotto medesimo o avendo consentito (attraverso un contratto di licenza) che altri apponesse il segno e commercializzasse il prodotto, non può opporsi all'ulteriore circolazione del prodotto stesso.

La giurisprudenza ha affermato che, sebbene i rapporti contrattuali alla base del sistema di distribuzione selettiva non siano opponibili al rivenditore non autorizzato, in quanto ne è terzo ed estraneo, l'esistenza di una rete di distribuzione selettiva può essere ricompresa tra i "motivi legittimi" ostativi all'esaurimento, a condizione che il prodotto commercializzato sia un articolo di lusso o di prestigio che legittimi la scelta di adottare un sistema di distribuzione selettiva e che sussista un pregiudizio effettivo all'immagine di lusso o prestigio del marchio per effetto della commercializzazione effettuata da terzi estranei alla rete di distribuzione selettiva.

Pertanto, in presenza di tali condizioni, il titolare del marchio può esperire un'azione di contraffazione per opporsi alla rivendita dei propri prodotti da parte di soggetti esterni alla propria rete di distribuzione, anche quando abbiano acquistato i prodotti da licenziatari o rivenditori autorizzati. Ciò non significa che gli obblighi previsti dal sistema di distribuzione selettiva siano estesi ai terzi ad esso estranei, ma che dovrà verificarsi se le concrete modalità di commercializzazione attuate da detti terzi siano idonee a preservare le legittime esigenze dei titolari del marchio di tali particolari categorie di prodotti.

Fondamentale, quindi, per il titolare del marchio che agisce in tale situazione, è provare che i prodotti oggetto di lite siano qualificabili come articoli di lusso.

Il Tribunale di Milano ha recentemente definito il concetto di lusso, specificando gli indici da cui si può dedurre che i prodotti appartengano a tale categoria.

Il Tribunale ha affermato che un prodotto "può essere definito di lusso non solo in ragione delle sue caratteristiche materiali, ma anche dello stile e dell'immagine di prestigio che lo accompagnano" ed ha ritenuto idonei a classificare un prodotto come prodotto di lusso i seguenti indici: "la ricerca di materiali di alta qualità per il prodotto; la cura del packaging; la presentazione al pubblico promossa a livello pubblicitario da personalità dello spettacolo; l'ampio accreditamento nel settore di riferimento, desumibile dai numerosi premi conseguiti; il consolidato riconoscimento da parte della stampa specialistica" ( Trib. Milano, ord., 19 ottobre 2020; confermata da Trib. Milano, ord. 3 dicembre 2020).

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*A cura dell'Avv. Francesca La Rocca Sena - Studio Legale Sena & Partners

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