Civile

L'impresa familiare dopo la Legge 20 maggio 2016, n. 76

I presupposti soggettivi. - La natura giuridica dell'impresa familiare. - Impresa familiare e unito civilmente - Impresa familiare e conviventi. - Le vicende estintive dell'impresa familiare: cause ed effetti

di Valeria Cianciolo*


L'impresa familiare introdotta nell'ordinamento dall'art. 89, L. 19 maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia) è volta ad apprestare una tutela minima, a quei rapporti di lavoro comune che si svolgono negli aggregati familiari in cui prestano il proprio operato, il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo (ex 230 - bis, 3° co., codice civile), e a cui oggi deve aggiungersi la parte dell'unione civile in virtù dell'art. 1, 13° co., legge 20 maggio 2016, n. 76, di regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e di disciplina delle convivenze) nell'ambito di un'attività di impresa. In passato tali rapporti erano relazionati, in via presuntiva, ad una causa affectionis vel benevolentiae o comunque, ad un contratto innominato di lavoro gratuito e come tali inidonei a generare pretese od obblighi, giuridicamente azionabili, rispetto al familiare imprenditore, beneficiario delle prestazioni. (COSTI, Lavoro e impresa nel nuovo diritto di famiglia, Milano, 1976, 106; PANUCCIO V., L'impresa familiare, 2a ed., Milano, 1981, 119; COLUSSI, Impresa familiare, in Riv. dir. civ., 1981, I, 703; Balestra, L'impresa familiare, Milano, 1996, 14 ss.; PROSPERI, Impresa familiare, Art. 230 bis, in Comm. Schlesinger-Busnelli, Milano, 2006, 3 ss.).


I presupposti soggettivi
Presupposto essenziale è la presenza di un'impresa in cui collaborano il titolare e i suoi familiari che possono essere il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo.
Problematica è sempre stata la posizione del convivente che prestasse il proprio contributo lavorativo all'interno dell'impresa che rimaneva privo di tutela laddove era impossibile accertare l'esistenza di un vincolo di subordinazione (Cass. civ., 29 maggio 1991, n. 6083, in D. lav., 1991, II, p. 373) o di parasubordinazione, che gli consentivano l'azione d'ingiustificato arricchimento ex art. 2041 codice civile (Cass. civ., 25 gennaio 2016, n. 1266, in Guida al dir., n. 12, 2016, p. 64).
Il comma 46 della Legge 20 maggio 2016, n. 76 ha inserito l'art. 230-ter all'interno del codice civile con il quale si è inteso dare sistemazione giuridica alle prestazioni lavorative rese a titolo di affectio e a superare l'atteggiamento di una giurisprudenza recalcitrante a estendere la disciplina dell'impresa familiare ai conviventi. La novella ha scontentato tanti: si è ritenuto «inspiegabile il riconoscimento al convivente di fatto di prerogative differenti e di minore portata rispetto a quelle accordate a un parente (entro il terzo grado) o a un affine (entro il secondo)» (cfr. BALESTRA, Unioni civili, Convivenze di fatto e "modello" matrimoniale: prime riflessioni, in G. it., 2016, p. 1787.).


La natura giuridica dell'impresa familiare
Assai problematica è sempre stata la questione della compatibilità tra l'art. 230 - bis codice civile e l'esercizio dell'attività di impresa svolta in forma societaria, e ciò particolarmente nel quadro del rapporto tra impresa familiare e società di persone, problema risolto dalle sezioni unite nel 2014.
Problema più vasto concerne la natura individuale (V. PANUCCIO, voce ‘‘Impresa familiare'', in Enc. Dir., Agg., IV, Milano, 2000, 681) o collettiva (C.A. GRAZIANI, L'impresa familiare, in Tratt. Dir. Priv. a cura di Rescigno, 3, II, Torino, 1996, 682) dell'impresa familiare. Se l'opinione assolutamente maggioritaria, predilige la configurazione individuale, si deve evidenziare altresì, come da una parte essa neghi la qualità automatica di imprenditore a tutti i compartecipi, d'altra parte incontra il limite di ignorare la realtà lavorativa insita in una struttura societaria (lo rileva C.M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, La famiglia, 5a ed., Milano, 2014, 512; G. BONFANTE - G. COTTINO, L'imprenditore, in Tratt. Dir. Comm. diretto da Cottino, I, Padova, 2001, 525). All'opposto, chi propende per la natura collettiva individuando di volta a volta, una forma di contitolarità di impresa, di impresa collettiva a struttura associativa, di società priva di soggettività giuridica, di comunione di impresa, di società familiare atipica, di comunità paritaria di lavoro fondata sulla solidarietà familiare (lo si legge ora in un diffuso trattato di sistemazione dottrinale) (C.M. Bianca, op. cit., 499), ecc. – sottolinea i diritti di partecipazione riconosciuti ai familiari-lavoratori al fine di estendere la qualifica di co-imprenditore al partecipante (v. l'esaustiva sintesi di G. PALMERI, Regime patrimoniale della famiglia, II, in Comm. Codice Civile a cura di Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 2004, 102). In quest'ordine di idee un'acuta dottrina ha definito l'impresa familiare nell'accezione di società legale di lavoro familiare, ovverosia una figura societaria sui generis (F.D. BUSNELLI, Impresa familiare e aziende gestite da entrambi i coniugi, in Studi sassaresi, IV, L'impresa familiare, Milano, 1979, 92).
Occorre aggiungere che, a prescindere dalla qualificazione della natura - commerciale o non - dell'attività esplicata dall'impresa familiare, l'incipit dell'art. 230 - bis cod. civ. «salvo che non sia configurabile un diverso rapporto», cui segue la regolamentazione, residuale, dell'istituto, ammette chiaramente la costituzione tra l'imprenditore ed i suoi familiari di diversa regolamentazione contrattuale. Pacificamente anche di una società di fatto, laddove risulti che i componenti abbiano dato vita ad un rapporto societario contrastante, in quanto tale, col rapporto familiare, ad esso sicuramente alternativo, come del resto è agevole desumere dal testo dell'art. 3, 16 comma, D.L. n. 833 del 1984 che, in materia tributaria, ha previsto espressamente la possibilità per l'impresa familiare di trasformarsi in una società di persone. Il tratto che segna il discrimine tra le due figure va individuato nel comportamento mantenuto dai familiari componenti dell'impresa nell'assumere relazioni esterne alla componente familiare. In questa prospettiva, si è sostenuto con principio enunciato dalla Cassazione nella sent. n. 3520/2000, che per escludere l'impresa familiare, ammettendo di contro la società di fatto, occorre che vi sia stata l'esteriorizzazione del vincolo sociale, dimostrabile attraverso la spendita espressa del nomen della società o quanto meno col fatto che si sia resa manifesta l'esistenza degli estremi del vincolo anzidetto sovrapposto al rapporto costituito ex art. 230 bis codice civile


Impresa familiare e unito civilmente
La persona unita civilmente rientra nella nozione di ‘familiare', di cui parla l'art. 230-bis, 3 co., cod. civ., elevata a titolo per la partecipazione all'impresa familiare: l'unito civilmente all'imprenditore, che, fuori da una cornice contrattuale, presti continuativamente (ossia, non in modo saltuario, occasionale) la propria opera lavorativa – manuale o intellettuale (BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, Torino, 2016, VII ed., p. 184) – nella famiglia o nell'impresa, ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia, e partecipa agli incrementi dell'azienda, agli utili da questa conseguiti e ai beni con essi acquistati, proporzionalmente alla quantità e alla qualità della prestazione svolta. A questo proposito, deve ricordarsi come il diritto al mantenimento non è vincolato alla proporzionalità, bensì, a quanto necessario per la soddisfazione dei bisogni di vita, tenuto conto del reale attivo prodotto dall'impresa (BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, cit., p. 185. Si leggano, altresì, G. Oppo, Dell'impresa familiare, in Comm. Carraro, Oppo, Trabucchi, vol. I, t. 1, Padova, 1977, p. 496).
Inoltre, è titolare di una posizione prelatizia reale, esercitabile in caso di divisione ereditaria o di trasferimento inter vivos dell'attività imprenditoriale, e prende parte alle decisioni, da assumersi a maggioranza, relative alla destinazione degli utili e degli incrementi, alla determinazione degli indirizzi produttivi, alla cessazione dell'impresa e, più in generale, riconducibili al paradigma della straordinaria amministrazione. Tale complesso di situazioni giuridiche soggettive attive è reputato inderogabile.
Allo stesso modo, la persona, unita civilmente all'imprenditore, e partecipe dell'impresa familiare, non assumerà, in quanto tale, la contitolarità dell'impresa. Titolare è solo l'imprenditore (in dottrina, BONILINI, op. cit., p. 182: «secondo la maggior parte degli interpreti, l'impresa familiare conserva il carattere di impresa individuale, e si fonda sul fatto che uno dei coniugi, etc., riservando a sé la qualità di imprenditore, con i relativi poteri, obblighi e responsabilità, «associa» alla partecipazione dell'impresa, di cui ha la titolarità, i proprî famigliari»), investito, in via esclusiva, della gestione ordinaria della medesima. Per questa ragione, il rischio dell'unito civilmente sarà limitato alla propria quota di utili e di incrementi accantonati.
Tuttavia, la posizione dell'unito civilmente non è del tutto equiparata al coniuge nell'impresa familiare, in quanto la legge Cirinnà non estende alle unioni civili il vincolo di affinità di cui all'art. 78 codice civile, dunque, l'unito civilmente non può considerarsi affine dei parenti del proprio partner. Conseguentemente, non può pretendere quei diritti come il mantenimento, secondo la condizione patrimoniale della famiglia oppure la partecipazione agli incrementi dell'azienda, agli utili e ai beni con essi acquistati, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, nel caso in cui partecipi all'impresa di un parente del proprio unito civilmente.
La spiegazione è legata alla definizione dell'art. 1 comma 20 della Legge Cirinnà, nella parte in cui esclude l'equiparazione dell'unito civilmente al coniuge con riferimento alle norme del codice civile non espressamente richiamate.


Impresa familiare e conviventi
Il comma 46 dell'art. 1 della Legge Cirinnà ha introdotto l'art. 230-ter codice civile dedicato appunto ai «Diritti del convivente», con il quale si data sistemazione giuridica alle prestazioni lavorative rese a titolo di affectio ed intesa a superare l'atteggiamento di una giurisprudenza restia a estendere la disciplina dell'impresa familiare oltre la sfera della famiglia legittima. La tutela offerta al convivente si riduceva qualora fosse impossibile accertare l'esistenza di un vincolo di subordinazione per l'impossibilità di comprovare il carattere oneroso della prestazione (Cass. 25 gennaio 2016, n. 1266, in Guida al dir., n. 12, 2016, p. 64.), all'azione d'ingiustificato arricchimento ex art. 2041 codice civile.
L'art. 230-ter introduce un istituto non sovrapponibile e ben distinto da quello contemplato dall'art. 230-bis, in quanto privo di quella relazione giuridicamente rilevante di parentela, affinità, coniugio unione civile che rappresenta la struttura portante di quest'ultima norma.
Affinché l'art. 230 - ter trovi applicazione, occorre che un soggetto definibile quale imprenditore, ai sensi dell'art. 2082 codice civile, sia coadiuvato, nell'esercizio della sua attività, dal suo convivente di fatto, come definito dall'art. 1, co. 36, Legge Cirinnà: «si intendono per "conviventi di fatto" due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinita` o adozione, da matrimonio o da un'unione civile». Definizione che deve essere posta in relazione con il disposto del successivo comma 37, a norma del quale, «Ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l'accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all'art. 4 e alla lettera b del comma 1 dell'articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223».
L'art. 230 - ter cod. civ. è riferito al solo lavoro «all'interno dell'impresa», e non anche, come l'art. 230 - bis, al lavoro «nella famiglia e nell'impresa familiare».
Con riferimento ai diritti di contenuto patrimoniale, confrontando l'art 230 bis e l'art. 230 ter codice civile emerge, la mancata previsione, a favore del convivente more uxorio, del diritto al mantenimento.

Le vicende estintive dell'impresa familiare: cause ed effetti
Nonostante il potere dei familiari di decidere sulla cessazione dell'impresa (come precisato dall'art. 230 – bis, 1 co., cod. civ.), la regola è che «l'imprenditore non è tenuto ad esercitare l'impresa verso i partecipanti ma è tenuto a farli partecipare in quanto eserciti l'impresa» (OPPO, Impresa familiare, in Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992, 503).
I collaboratori possono determinare soltanto la cessazione della propria partecipazione all'impresa ovvero anche (e solo) la fine dell'impresa stessa in quanto familiare, con il conseguente obbligo per l'imprenditore di liquidare i diritti ad essi spettanti.
Essi non possono invece imporre la continuazione della stessa, salvo, anche in questo caso, il diritto ad essi spettante per il risarcimento dei danni derivanti dall'eventuale decisione unilaterale ed immotivata dell'imprenditore.
Lo scioglimento del rapporto di impresa familiare relativamente al singolo collaboratore può invece avvenire: per morte o impossibilità alla prestazione, alla perdita della qualità di familiare o alla cessione della quota, ovvero per decisione unilaterale del lavoratore o dell'imprenditore.
Secondo la giurisprudenza di merito, la liquidazione della quota di partecipazione può essere richiesta solo alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del lavoro e in caso di alienazione dell'azienda: al momento della cessazione dell'impresa familiare, il partecipante ha un mero diritto di credito corrispondente al valore della sua quota di partecipazione, determinata sulla base degli utili non ripartiti a quel momento, nonché dell'accrescimento, a tale data, della produttività dell'impresa ("beni acquistati" con essi, "incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento"), in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.

*a cura di Valeria Cianciolo, Foro di Bologna

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