Giustizia

Processi lunghi, la chance della prova contraria per i danni esclusi dai risarcimenti

Le riforme del 2012 e del 2015 hanno irrigidito i criteri per l’indennizzo e individuato i casi senza «ristori»

di Antonino Porracciolo

L’eccessiva durata dei processi, che ora gli interventi tratteggiati dal Pnrr puntano ad aggredire, fa crescere le domande di “equa riparazione”, regolate dalla legge Pinto (la 89 del 2001). Le Corti d’appello (competenti a decidere su queste istanze di risarcimento) registrano negli ultimi anni un aumento dei procedimenti avviati, con un picco di 18.472 nel 2019, appena frenato nel 2020, anno del Covid, con i procedimenti sospesi durante il lockdown, quando ci si è fermati a 14.427 nuove domande. Sono comunque numeri nettamente più bassi rispetto ai 15.246 procedimenti avviati nel solo primo semestre del 2012, prima delle riforme (decreto legge 83/2012 e legge 208/2015) che hanno irrigidito i requisiti per l’indennizzo.

La prova del danno

Secondo la Cassazione a Sezioni unite (sentenze 1338 e 1339 del 2004), «una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della legge 89/2001, il giudice deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogni qualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente».

In altri termini: è normale che l’anomala lunghezza di un giudizio produca un’ansia che può ritenersi presente, nella parte del processo, senza bisogno di alcuna prova. Infatti, mentre il danno patrimoniale può (e deve) essere specificamente dimostrato, la sofferenza di un danno non patrimoniale per la lungaggine del processo, avendo natura puramente psicologica, non è suscettibile di ricevere una prova obiettiva, sicché «l’interprete deve prendere atto che esso si verifica nella normalità dei casi».

Le ipotesi di esclusione

Per arginare gli abusi da ricorsi strumentali alla Pinto, l’indennizzo è stato escluso in quattro casi (articolo 2, comma 2-quinquies):

1. quando la parte abbia agìto o resistito in giudizio consapevole dell’infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese; proprio perché in quelle ipotesi è prevedibile l’esito del giudizio, deve escludersi che il soggetto abbia patito, in conseguenza del tempo trascorso tra la domanda e la decisione, una sofferenza morale dovuta all’incertezza in ordine all’esito della causa (si veda Il Sole 24 Ore del 23 marzo 2009);

2. in caso di rifiuto, senza giustificato motivo, della proposta conciliativa formulata in corso di causa;

3. se il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente alla proposta conciliativa formulata dall’organismo competente prima dell’inizio della causa;

4. più in generale, il giudice non può riconoscere l’indennizzo «in ogni altro caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento».

La prova contraria

In alcune situazioni la legge, pur presumendo insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo, consente all’interessato di dimostrare il contrario (articolo 2, comma 2-sexies). Si tratta di casi che vanno dal processo concluso con la dichiarazione di prescrizione del reato (ma solo per l’imputato e non per gli altri soggetti privati del processo penale) al giudizio svolto in contumacia della parte; dall’estinzione del processo civile per rinuncia o inattività delle parti all’irrisorietà della pretesa o del valore della causa.

La prova contraria è ammessa anche nei casi di estinzione per rinuncia o di perenzione del processo amministrativo (Cassazione 7040/2021).

Il processo esecutivo

La Cassazione ha inoltre chiarito (ordinanza 523/2021) che la presunzione di danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo esecutivo non opera nei confronti della parte che subisce un’esecuzione, giacché dall’esito del processo riceve un danno giusto; a meno che si dimostri che l’attivo pignorato o pignorabile fosse in origine tale da consentire il pagamento delle spese esecutive e di tutti i crediti e che spese e accessori sono aumentati a causa dei tempi processuali così da azzerare o ridurre l’ipotizzabile residuo attivo o la restante garanzia generica.

LE MASSIME

Dal 2016
Le norme della legge 208/2015, che ha introdotto nella disciplina della legge Pinto (89/2001) i casi in cui si presume insussistente, salvo prova contraria, il pregiudizio da irragionevole durata del processo, si applicano ai soli giudizi introdotti dopo il 1° gennaio 2016, data della loro entrata in vigore.
Cassazione, sentenza 25542 del 10 ottobre 2019

L’impatto sull’attivo
Il soggetto esecutato di un giudizio esecutivo non può invocare la presunzione di danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo, poiché dall’esito dello stesso riceve un danno giusto. Il riconoscimento dell’indennizzo è dunque subordinato alla prova che l’eccessiva lunghezza del processo ha fatto ridurre o azzerare l’attivo, che sarebbe servito a pagare le spese esecutive e i crediti.
Cassazione, ordinanza 523 del 14 gennaio 2021

Giudizio amministrativo
La definizione del giudizio amministrativo per sopravvenuta carenza di interesse alla decisione va assimilata all’estinzione del processo per rinuncia o inattività, sicché l’indennizzo previsto dalla legge Pinto richiede la prova del pregiudizio dovuto al patema d’animo per l’irragionevole durata del processo.
Cassazione, ordinanza 7040 del 12 marzo 2021

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