Casi pratici

Responsabilità ex art. 96, c. III, c.p.c.: i trend giurisprudenziali

Responsabilità processuale aggravata: da una ratio risarcitoria a una sanzionatoria

di Laura Biarella

la QUESTIONE
La responsabilità processuale aggravata ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c. presuppone la sussistenza di un danno? Costituisce una forma di danno punitivo? Richiede la sussistenza di un elemento soggettivo di colpevolezza? Cosa si intende per "Non intelligere quod omnes intelligunt"? Quali formalità deve rispettare il giudice quando si pronuncia ai sensi del menzionato articolo? Può essere condannato il contumace?


La novella del 2009, introducendo un terzo comma all'art. 96 c.p.c., ha modificato radicalmente la disciplina della responsabilità processuale aggravata: con tale riforma, infatti, il Legislatore si sposta da una ratio risarcitoria a una apertamente sanzionatoria, finalizzata alla deterrenza dell'abuso del processo civile. La rilevanza della novità è evidente: fin dal Codice del 1865, il Legislatore aveva inquadrato la cond anna per lite temeraria quale specie particolare di responsabilità aquiliana, connotando, dunque, l'istituto in termini risarcitori. A seguito della riforma, invece, la condanna ex art. 96 c.p.c. è stata svincolata dalla verificazione di eventi dannosi in capo alla parte risultata vincitrice nel processo: la legge n. 69 del 2009 ha inteso attribuire un significativo margine di discrezionalità al giudice, il quale, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91 c.p.c., potrà altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.
A ciò si aggiunga che la Corte Costituzionale, con la sentenza 6 giugno 2019, n. 139 ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 96, terzo comma, del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento all'art. 25, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Verona, come anche non fondata la questione di legittimità costituzionale, della medesima norma, sollevata, in riferimento all'art. 23 Cost., dal Tribunale ordinario di Verona.
L'introduzione di un simile meccanismo repressivo della lite temeraria non è, per la verità, una novità assoluta della riforma del 2009: già il D.Lgs. n. 40/2006 aveva introdotto, limitatamente al giudizio in Cassazione, la possibilità per il giudice di condannare ex officio la parte soccombente al pagamento a favore della controparte di una somma equitativamente determinata, qualora essa avesse proposto il ricorso o vi avesse resistito anche solo con colpa grave. Tale disposizione, abrogata dalla stessa legge n. 69/2009, è oggi assorbita dalla generale previsione del terzo comma dell'art. 96, la quale tuttavia prescinde dall'indicazione di un preciso indice di imputabilità soggettiva. L'ampiezza dei margini di discrezionalità officiosa ha condotto buona parte della dottrina a esprimersi in maniera fortemente critica rispetto alla formulazione della norma, la cui genericità rischia di lasciare all'arbitrio del singolo giudice la valutazione circa la temerarietà della lite (Proto Pisani, «La riforma del processo civile: ancora una legge a costo zero un primo commento della legge 18 giugno 2009, n. 69», il Foro , 2009, V, 222).
La responsabilità ex art. 96, comma 3, c.p.c. potrebbe, in particolare, essere riconosciuta ogniqualvolta il giudice ritenga di ravvisare una violazione del generico dovere di lealtà e probità di cui all'art. 88 c.p.c.: è evidente che tale sistema rischia di introdurre nell'ordinamento una norma in bianco, suscettibile di declinazioni diverse sulla base dei soli indirizzi di applicazione giurisprudenziale. La giurisprudenza di legittimità ha fin da subito affermato la natura di pena pecuniaria della sanzione in questione, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla prova del danno cagionato dalla condotta processuale dell'avversario (Cass. civ., Sez. I, 30 luglio 2010, n. 17902).
In punto di quantificazione, la giurisprudenza ha individuato fin da principio come parametro l'entità delle spese di lite alla cui rifusione la parte soccombente sia stata condannata; peraltro, anche nell'ambito del medesimo ufficio giudiziario si sono verificate liquidazioni assai diverse, oscillanti tra un quarto e il doppio dell'importo delle spese legali (Trib. Verona, 1° ottobre 2010, in Guida al Dir. , 2010, 49, 20, con nota di Finocchiaro; Trib. Verona, 20 settembre 2010, ibidem).

Presupposizione del danno
L'applicabilità dell'art. 96, comma 3, c.p.c. prescinde dall'effettiva causazione di un danno da parte del soggetto risultato completamente soccombente nel processo; tale aspetto costituisce una delle decisive caratteristiche distintive della riforma del 2009, la quale per la prima volta si discosta dal modello della responsabilità aquiliana in favore di un istituto con un'esplicita finalità di deterrenza (in tal senso, in giurisprudenza, Trib. Savona 9 aprile 2013; Trib. Reggio Emilia 25 settembre 2012).
La natura risarcitoria della condanna per lite temeraria attirò, fin da principio, significative critiche dottrinarie, fondate sull'obiettiva difficoltà di determinare e quantificare una precisa categoria di danni derivanti dal contegno processuale dell'avversario (Mortara , Commentario del codice e delle leggi di procedura civile , IV, Milano, 1905, 144). In proposito, occorre sottolineare che per "danno", in questa sede, dovrà intendersi una lesione distinta da quella di cui sia stata oggetto la situazione giuridica soggettiva di cui è titolare la parte vittoriosa, la quale già troverà ristoro con gli usuali strumenti di tutela dichiarativa; pertanto, nella maggior parte dei casi, non è agevole per la parte che abbia ragione illustrare come il contegno processuale della controparte abbia cagionato specifiche e distinte voci di danno e quantificare le stesse.
Il Legislatore ha tentato di fronteggiare tali problemi dapprima prevedendo, all'art. 96, comma 1, c.p.c., che il danno potesse essere liquidato dal giudice anche d'ufficio, ovvero provvedendo a una quantificazione autonoma; affinché tale potere officioso sorga, tuttavia, è necessario che le circostanze di fatto sulla base delle quali compiere la liquidazione siano state correttamente allegate dalle parti (Cass. civ., Sez. I, 26 novembre 2008, n. 28226). Pertanto, l'art. 96 comma 1 non può trovare applicazione ogniqualvolta per la parte vittoriosa non sia stato possibile indicare circostanze specifiche che abbiano cagionato danni distinti dalla violazione del diritto sostanziale dedotto in lite.
Un ulteriore passo è stato compiuto con l'introduzione del menzionato comma 4 dell'art. 385 c.p.c., il quale prevedeva la possibilità di una liquidazione equitativa della somma: in maniera del tutto analoga, l'art. 96, comma 3, prevede che il soccombente possa essere condannato al pagamento di una somma equitativamente determinata. Oltre a ciò, occorre sottolineare che il terzo comma dell'art. 96, a differenza del primo, non fa alcuna menzione di danni suscettibili di risarcimento: la norma, pertanto, si pone in una prospettiva di deterrenza ed esonera la parte vincitrice da qualsiasi allegazione specifica fondante la responsabilità processuale dell'avversario. Da questo punto di vista risulta determinante la locuzione iniziale, in forza della quale la condanna può essere irrogata "in ogni caso" e dunque anche qualora il soccombente abbia tenuto un atteggiamento processuale censurabile ma non produttivo di autonome voci di danno (Trib. Piacenza 7 dicembre 2010).
Occorre segnalare, tuttavia, l'esistenza di un indirizzo giurisprudenziale di segno contrario, secondo il quale la funzione dell'istituto di cui all'art. 96, comma 3, c.p.c. è quella di assicurare la riparazione di un danno, normalmente derivante dalla celebrazione di un processo irragionevole secondo l'id quod plerumque accidit (Trib. Oristano 14 dicembre 2010).

Natura ibrida dell'istituto
Come illustrato, l'art. 96, comma 3, c.p.c. prescinde dalla causazione di un danno e abbandona, quindi, la logica risarcitoria che sta alla base del comma 1: di conseguenza, sembrerebbe automatica la qualificabilità del meccanismo in esame quale danno punitivo. Per quanto tradizionalmente estraneo al nostro ordinamento processualcivilistico, il punitive damage non sarebbe di per sé incompatibile con il dettato costituzionale; le caratteristiche della norma in commento, tuttavia, non sono tali da consentire una compiuta qualificazione della responsabilità processuale aggravata in termini punitivi.
In primo luogo, se l'istituto avesse caratteri puramente sanzionatori, sarebbe naturale prevedere che la somma sia pagata dal condannato in favore dello Stato, quale punizione per l'abuso dello strumento processuale che l'ordinamento pone a disposizione di ciascuno; al contrario, nel caso di specie, il condannato versa la somma a favore della controparte, secondo uno schema che mantiene tuttora profili di marca risarcitoria (Finocchiaro , «Ancora sul nuovo art. 96, comma 3, c.p.c.», in Riv. Dir. Proc ., 2011, 1192).
In secondo luogo, la natura punitiva della condanna presupporrebbe la previsione legislativa di una cornice edittale, in consonanza con quanto previsto in ambito penalistico: l'art. 385, comma 4, c.p.c. aveva accolto parzialmente tale impostazione, prevedendo che la somma equitativamente determinata non potesse essere superiore al doppio dei massimi tariffari. La novella del 2009, al contrario, non introduce alcun espresso limite al potere di quantificazione officiosa: anche tale circostanza impedisce una compiuta qualificazione dell'istituto in termini punitivi.
In conclusione, data la formulazione estremamente generica della norma, non si può che concludere per la natura ibrida dell'istituto, il quale, pur non mirando al risarcimento di un danno extracontrattuale, non costituisce nemmeno una sanzione in senso stretto, ma piuttosto un meccanismo lato sensu preposto a scoraggiare contegni processuali abusivi.
Sussistenza di un elemento soggettivo di colpevolezza?
Il comma 3 dell'art. 96 c.p.c. non fa alcun riferimento espresso ad indici di imputabilità soggettiva, ponendosi sotto questo aspetto in una posizione eccentrica tanto rispetto al comma 1 dello stesso articolo (che richiede la mala fede o colpa grave) quanto rispetto al comma 4 dell'art. 385 (il quale pure faceva riferimento alla colpa grave). Tuttavia, stante la formulazione estremamente elastica della norma, la quale prescinde dalla sussistenza di un danno, un elemento soggettivo deve necessariamente potersi ravvisare: solo sulla base di un indice di negligenza, infatti, sarà possibile selezionare per quali soccombenti risulti appropriata una condanna ulteriore rispetto alla sola rifusione delle spese di lite. Al contrario, qualora si volesse affermare che il comma 3 prescinde tanto dal danno, quanto dalla colpa, si giungerebbe all'inaccettabile conclusione di una responsabilità processuale aggravata rimessa all'arbitrio del giudice, il quale sarebbe lasciato libero di condannare i soccombenti sulla base di una semplice volizione soggettiva, svincolata da qualsiasi possibile verifica di ragionevolezza.

"Non intelligere quod omnes intelligunt"
In tema di spese giudiziali, ai fini dell'applicazione dell'articolo 96, comma 3, del codice di rito civile, agire o resistere in giudizio con mala fede o colpa grave significa azionare la propria pretesa, o resistere a quella avversa, con la coscienza dell'infondatezza della domanda o dell'eccezione, ovvero senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell'infondatezza della propria posizione. La Suprema Corte di Cassazione, sezione VI civile, nell'Ordinanza depositata il 4 marzo 2021, n. 6069, nel rigettare il ricorso, ha disposto d'ufficio, ai sensi della richiamata disposizione, anche la condanna del ricorrente al pagamento, in favore della controparte, in aggiunta alle spese di lite, di una somma equitativamente determinata a titolo di risarcimento del danno, assumendo a parametro di riferimento l'importo delle spese dovute alla parte vittoriosa per il grado di giudizio. Più precisamente, il predetto ricorrente aveva proposto ricorso sostenendo una tesi ardita, cui già si era in diritto risposto in due distinte decisioni di merito, contraria ai principi giuridici diffusi e risalenti, tanto costituire almeno un'ipotesi di colpa grave, consistente nel non "intelligere quod omnes intelligunt". Con tale espressione latina si intende, letteralmente "non comprendere ciò che tutti comprendono". Lo stesso giudice di legittimità (Corte di Cassazione, civ., Sez. III, 17 ottobre 2019, n. 26299), aveva già rilevato la configurabilità dell'ipotesi di responsabilità processuale aggravata allorquando il ricorrente proponga un ricorso articolando molteplici motivi sorretti da tesi insostenibili contrarie all'ordinaria e pacifica interpretazione giurisprudenziale, secondo il principio del "non intelligere quod omnes intelligunt". Ulteriormente (Corte di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza 12 marzo 2015, n. 4930), la mera infondatezza in iure delle tesi prospettate in sede di legittimità non può di per sé integrare gli estremi della responsabilità aggravata di cui all'articolo 96 c.p.c. (Sez. U, Ordinanza n. 25831 del 11/12/2007), tuttavia la palese infondatezza delle tesi prospettate dal ricorrente in sede di legittimità ben può costituire un indizio dal quale risalire, ex articolo 2727 c.c., alla responsabilità del ricorrente, quando sostenere quelle tesi significa nella sostanza non intelligere quod omnes intelligunt.

Obblighi del giudice nella pronuncia
La condanna ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c. trae origine dal processo e pertanto, a differenza delle questioni di merito che il giudice intenda rilevare d'ufficio e porre alla base della propria decisione ai sensi dell'art. 101, comma 2, c.p.c., non è necessario che sul punto si instauri il contraddittorio tra le parti (Trib. Piacenza 22 novembre 2010, in Guida al Dir. , 2011, 3, 46, con nota di Buffone9. Ciononostante, il giudice sarà tenuto a illustrare le motivazioni della condanna, non potendosi tradurre il potere officioso in mero arbitrio del decidente: da questo punto di vista, pertanto, non potrà che valorizzarsi il già richiamato elemento soggettivo di colpevolezza (Mocci , « Il punto sulle spese processuali alla luce della riforma » , in Riv. dir. proc. , 2011, 921).

Contumace non condannabile
La possibilità di condannare il contumace al pagamento di una somma equitativamente determinata potrebbe costituire un utile strumento di modernizzazione del sistema processualcivilistico italiano, per lungo tempo ispirato a un oltranzistico garantismo della parte che non si sia costituita in giudizio. Tuttavia, una simile soluzione presupporrebbe la possibilità di qualificare la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. in termini apertamente sanzionatori, in consonanza con il contempt of Court previsto nei sistemi anglosassoni. Al contrario, come sopra illustrato, l'ordinamento italiano ha introdotto un istituto ibrido, il quale, pur avendo finalità di deterrenza, prevede che la somma sia versata dal soccombente alla controparte.
È dunque necessario che la parte soccombente abbia posto in essere una qualche attività processualmente rilevante, tale da potersi tradurre in un abuso del processo e da consentire una valutazione in ordine alla sussistenza di un profilo di negligenza. Pertanto, sebbene la soluzione contraria potrebbe in astratto costituire un efficace strumento di incentivo alla partecipazione al processo, occorre concludere nel senso dell'impossibilità di una condanna del contumace ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c..

L'abuso del processo: l'indirizzo che protende per il fine sanzionatorio
È configurabile un abuso del processo, il quale determina il rimedio di cui all'articolo 96 del codice di rito civile, qualora l'avvocato rediga un ricorso incomprensibile, con motivi confusi, non coerenti col contenuto della sentenza impugnata ovvero non autosufficienti, che solleva un vizio non invocabile secondo quanto prescritto dal codice di rito. La Corte di Cassazione, nel più recente indirizzo, ha aperto ai risarcimenti punitivi ove i legali non svolgano la funzione, loro propria, di primo filtro. Per l'effetto, l'abuso del diritto all'impugnazione opera quando i motivi, oltre a risultare confusi, non sono coerenti col contenuto della pronuncia impugnata ovvero non autosufficienti, come pure quando si richiede una rivalutazione nel merito, ovvero quando si solleva un vizio non invocabile in virtù del codice di rito civile. In ipotesi siffatte, oltre al pagamento delle spese la Cassazione, nella specie, ha aggiunto una somma da versare alla controparte, ed a prescindere dalla presenza di dolo o colpa grave. Più in dettaglio, la sentenza n. 16898 del 2019, emanata dalla Corte di Cassazione, ha punito il ricorrente che, specificamente, aveva avanzato un ricorso incomprensibile e proteso ad ottenere un ulteriore grado di giudizio di merito, oltre i due già percorsi, nell'ambito di un procedimento dal quale era già uscito sconfitto nelle prime due battaglie processuali. La Suprema Corte, in quell'occasione, è tornata sul tema del ruolo sanzionatorio per lite temeraria, disciplinato all'articolo 96 del Codice di rito civile, evidenziandone la funzione sanzionatoria, al fine di contenere l'abuso del processo. Il collegio ha chiarito che la condanna alle spese in ipotesi di soccombenza, contemplata dal terzo comma dell'articolo 96 c.p.c., configura una sanzione di tipo pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata disciplinate dai primi due commi. E con quelle cumulabile, in virtù del contenimento dello strumento processuale e senza che, per la sua applicazione, occorra riscontrare l'elemento soggettivo del dolo e della colpa grave. Per l'effetto, risulta sufficiente che la condotta rientri nell'abuso del diritto. Il sempre più ampio spazio assegnato dalla giurisprudenza ai "risarcimenti punitivi" si giustifica in quanto la responsabilità civile presenta anche uno scopo deterrente e non l'unica finalità di ripristinare l'ambito patrimoniale del soggetto che è stato leso. Per ragioni siffatte la Suprema Corte ha dilatato l'ambito del non consentito "punendo", oltre ai ricorsi pasticciati e non legati alla sentenza da impugnare, finanche le istanze protese a una revisione della parte in fatto, come pure i vizi infondati. Sotto lente sono approdati ricorsi non finalizzati alla tutela dei diritti, bensì destinati ad accrescere il contenzioso ostacolando la ragionevole durata dei processi pendenti ed il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione. Nella specie affrontata dalla Corte di Cassazione nella pronuncia del 25 giugno 2019, il ricorrente, oltre alle spese, nonché al contributo unificato, ha ricevuto la condanna a corrispondere la somma pari ad euro 2.500 alla controparte, in quanto i motivi dal medesimo formulati sono risultati totalmente inammissibili ed esposti in un modo non più compatibile con un ordinamento che deve contemperare l'esigenza di un accesso universale alla giustizia col principio della durata ragionevole del processo. Per l'effetto, secondo il collegio, per dissuadere azioni dilatorie e defatiganti deve valorizzarsi la sanzionabilità dell'abuso dello strumento giudiziario. Ulteriormente, per dare spazio alla tutela dei soggetti meritevoli, il primo filtro viene affidato alla prudenza degli avvocati, unitamente alla responsabilità delle parti.

Considerazioni conclusive
Ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., il giudice può condannare anche d'ufficio la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata. Tale somma si aggiunge alla condanna alle spese di lite ai sensi dell'art. 91 c.p.c. e prescinde dalla circostanza che il processo abbia causato uno specifico danno alla parte vincitrice.
L'art. 96, comma 3, c.p.c. si muove in un'ottica di deterrenza e mira a scongiurare l'abuso del processo; ciononostante, la norma in esame non delinea una fattispecie puramente sanzionatoria, ma piuttosto una figura ibrida, che mantiene in sé anche caratteri di marca risarcitoria. La condanna ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c. non può prescindere dalla sussistenza di un elemento soggettivo di colpevolezza in capo al soccombente, in quanto solo tale aspetto è in grado di fornire il parametro in base al quale il giudice potrà individuare i contegni processuali sanzionabili, rispetto ai quali la semplice condanna alle spese non appaia sufficiente. Il giudice potrà condannare il soccombente ex art. 96, comma 3, c.p.c. anche in assenza di una previa instaurazione del contraddittorio, ma il provvedimento dovrà in ogni caso essere adeguatamente motivato. La responsabilità processuale aggravata può sorgere esclusivamente a carico della parte costituita, che abbia svolto un'attività rilevante all'interno del processo. Il più recente indirizzo ermeneutico (Cassazione civ., Sez. 3, Ordinanza 25 giugno 2019, n. 16898) ritiene configurabile un abuso del processo, che determina il rimedio di cui all'articolo 96 del codice di rito civile, qualora l'avvocato rediga un ricorso incomprensibile, con motivi confusi, non coerenti con il contenuto della sentenza impugnata o non autosufficienti, che solleva un vizio non invocabile secondo il codice di rito. Infine, il Tribunale di Pavia (Sez. civ., 22 settembre 2021 n. 1209) ha affermato che, in tema di negoziazione assistita, la mancata adesione del convenuto all'invito alla procedura formulata dall'attore, pur costituendo certamente un comportamento censurabile, non determina automaticamente l'accoglimento della domanda di condanna del medesimo proposta ai sensi dell'art. 96, terzo comma, c.p.c..