Amministrativo

No alla class action contro la Pa senza preventivi standard di qualità

Non basta invocare in modo generico la natura e la destinazione dei beni. Stazione Centrale di Milano: ricorso al giudice su come vengono utilizzati gli spazi

ADOBESTOCK

di Guglielmo Saporito

Perché la class action contro la Pa per violazione di standard qualitativi ed economici sia ammissibile occorre che questi livelli qualitativi ed economici siano chiaramente stabiliti: nel caso di concessionari di servizi pubblici, devono essere indicati dalle Autorità di regolazione. Non basta, invece, invocare genericamente la natura e la destinazione dei beni, da cui desumere gli standard qualitativi. È questo il chiarimento che arriva dal Consiglio di Stato che, con la sentenza 7493/2022, ha respinto il ricorso proposto da due associazioni contro Grandi Stazioni, indicando tuttavia la strada per la tutela. Oggetto della controversia: l’utilizzo degli spazi della Stazione Centrale di Milano, per la maggior parte dedicati ad attività commerciali, a discapito di sale d’attesa pubbliche per i passeggeri.

La vicenda

Nella Stazione Centrale di Milano si concentrano sia un forte pendolarismo sia – su vari piani – numerose librerie, ristoranti e negozi di abbigliamento. Progressivamente, si sono ristretti gli spazi che potrebbero attutire i disagi dei pendolari per attese, cancellazioni o ritardi. Tanto che le associazioni ricorrenti hanno rilevato una «netta sproporzione» tra le aree dedicate alle attività commerciali e quelle per il servizio ferroviario.

Hanno quindi proposto una class action pubblica (articolo 1, decreto legislativo 198/2009) di fronte al Tar, ravvisando una lesione diretta, concreta e attuale degli interessi dei loro rappresentati: il gestore, secondo le ricorrenti, aveva violato gli standard qualitativi insiti, per legge, nella definizione dei beni a destinazione pubblicistica.

Ma il Tar ha respinto il ricorso per mancanza dei requisiti della class action, dato che le ricorrenti non avevano indicato gli standard qualitativi violati.

Di qui l’appello al Consiglio di Stato: per le ricorrenti, il Tar non avrebbe interpretato correttamente le norme sulla class action pubblica, né compreso che l’azione era stata esercitata con riferimento agli «standard qualitativi insiti ex lege nella definizione stessa di beni destinati al servizio ferroviario». La stazione, infatti, non sarebbe solo un luogo di transito, ma dovrebbe offrire spazi per consentire ai cittadini di attendere le coincidenze e affrontare ritardi e cancellazioni. Quindi, rivolgendosi al giudice amministrativo, le ricorrenti avrebbero chiesto di correggere il comportamento dei gestori della Stazione Centrale per riallinearlo al vincolo di destinazione fissato dalla legge (articolo 15, legge 210/1985).

La decisione

I giudici del Consiglio di Stato ricordano che la class action pubblica consente ai titolari di interessi omogenei (appunto, utenti e consumatori), di agire in giudizio nei confronti della Pa e dei concessionari di servizi, che abbiano leso i loro interessi. Rivolgendosi ai Tar, gli utenti possono far ripristinare i livelli di efficienza e di buon andamento, stimolando poteri di vigilanza, controllo e anche sanzionatori. Se vi sono impegni precisi (come Carte dei servizi), si può chiedere al giudice di accertare eventuali inadempimenti e di provvedere in via di urgenza; stessa procedura si può attivare quando si violano standard qualitativi.

Nella Stazione Centrale di Milano, i beni ferroviari sono affidati in gestione a una società per azioni (Grandi Stazioni), e la presenza di attività commerciali privatistiche è aumentata (a scapito di spazi pubblici di attesa), anche per l’assenza di una “carta dei servizi” e di standard qualitativi definiti. Per il Consiglio di Stato, quindi, mancano i «presupposti oggettivi» della class action pubblica, perché l’azione per la violazione degli standard qualitativi presuppone la presenza di una definizione dei livelli qualitativi ed economici. Per i concessionari dei servizi pubblici, i livelli qualitativi ed economici devono essere stabiliti dalle Autorità preposte alla regolazione del settore: nel caso delle stazioni, dall’Autorità di regolazione dei trasporti.

I giudici riconoscono quindi i diritti dei pendolari, ma si dichiarano incompetenti a provvedere con rimedi specifici, finchè mancheranno parametri di qualità da osservare (in concreto, finchè non saranno definite le proporzioni tra “spazi per l’utenza” e “spazi produttivi”).

La tutela, suggerisce il Consiglio di Stato, dovrebbe essere invocata «a monte», sollecitando il gestore all’emazione di Carte di servizi o di disposizioni che definiscano gli standard qualitativi. Quando tali standard saranno quantificati, si potrà ricorrere per denunciarne la violazione. Le appellanti, secondo i giudici, potrebbero allora agire nei confronti della Pa o del gestore per ottenere i provvedimenti che fissano gli standard qualitativi. In questo caso, la class acion pubblica avrebbe una funzione propulsiva nei confronti della Pa inerte. Infatti, la class action pubblica si può proporre per «la mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori» (decreto legislativo 198/2009).

In generale, attraverso la procedura di “recupero di efficienza” della class action amministrativa si può intervenire verso enti pubblici e loro concessionari ottenendo una migliore qualità dei servizi. Proprio attraverso queste azioni si è, ad esempio, ottenuto il ripristino di un ufficio postale chiuso (Tar Calabria 244/2016), l’adeguata formazione di classi scolastiche (Consigio di Stato 3512/2011) e, nei confronti di Roma Capitale (Tar Lazio 8763/2022), l’esecuzione di manutenzioni stradali.

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