Professione e Mercato

Fashion law e diritti umani

Economisti e sociologi convengono sul fatto che la crisi derivante dalla pandemia del Covid-19 rappresenta e rappresenterà una "cesura galileiana" per i comportamenti dei consumatori, specie nel lungo periodo, anche del settore moda

di Fiammetta Capecchi *


Economisti e sociologi convengono sul fatto che la crisi derivante dalla pandemia del Covid-19 rappresenta e rappresenterà una "cesura galileiana" per i comportamenti dei consumatori, specie nel lungo periodo, anche del settore moda.

La flessione negativa del reddito, le chiusure dei negozi, le limitazioni negli spostamenti, la perdita del turismo, il lavoro da remoto disincentivano le spese voluttuarie rappresentate per larga parte dal settore abbigliamento e soprattutto dall'industria del lusso, in cui si registrano i dati più negativi.

In tutto il mondo è previsto un calo dei consumi nel settore moda. Unico ambito che ha manifestato capacità di risposta è stato l'e-commerce in cui alcuni colossi del settore hanno registrato una straordinaria accelerazione come Zalando e Inditex, e corrono verso la digitalizzazione ugualmente i grandi marchi.

In un periodo in cui l'apparire e l'apparenza sembrano oramai esigenze lontane si impone una rinnovata riflessione sui consumi, sul risparmio, sulla sostenibilità del prodotto, sul controllo della filiera e sui diritti dei lavoratori, anche nel settore moda.

I tragici fatti del Rana Plaza a Dhaka in Bangladesh del 2013, in cui persero la vita 1.134 operai sembravano oramai sopiti nelle coscienze dei consumatori, spesso più preoccupati a rincorrere il prezzo più basso, l'affare, lo sconto che a riflettere sul rispetto dei diritti dei lavoratori nell'economia globale del mondo della moda.

Questo settore commerciale, legato nel nostro immaginario alla spensieratezza di un acquisto, è uno di quelli che spesso cela in realtà le più gravi violazioni dei diritti umani come la discriminazione delle donne, lo sfruttamento dell'inesauribile manodopera minorile, una protezione sociale e previdenziale inadeguata - se non del tutto inesistente - e condizioni di lavoro insicure (solo pochi giorni fa in Marocco, interessato da piogge torrenziali, 28 operai tessili sono morti a Tangeri folgorati nell'allagamento dello scantinato in cui stavano cucendo camice, destinate al mercato europeo).

È per questo che da tempo le persistenti violazioni dei diritti umani nell'industria in generale sono oggetto di attenzione della comunità mondiale.

Nel 1948 l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani in cui si sanciva il rispetto della dignità dell'uomo e da lì molteplici sono state le azioni, espressioni e gli strumenti che hanno seguito il solco tracciato dall'ONU come il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali del 1966.

Gli Stati, parti di questi Patti, riconoscono il diritto di ogni individuo di godere di giuste e favorevoli condizioni di lavoro.

In particolare l'articolo 7 del Patto sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, ratificato dall'Italia nel 1977 ed entrato in vigore alla fine del 1978, dispone che gli Stati debbano garantire:

a) la remunerazione che assicuri a tutti i lavoratori, come minimo:

i) un equo salario ed una uguale remunerazione per un lavoro di eguale valore, senza distinzione di alcun genere; in particolare devono essere garantite alle donne condizioni di lavoro non inferiori a quelle godute dagli uomini, con una eguale remunerazione per un eguale lavoro;

ii) un'esistenza decorosa per essi e per le loro famiglie in conformità alle disposizioni del presente Patto;

la sicurezza e l'igiene del lavoro;

b)l a possibilità uguale per tutti di essere promossi, nel rispettivo lavoro, alla categoria superiore appropriata, senza altra considerazione che non sia quella dell'anzianità di servizio e delle attitudini personali;

c) i l riposo, gli svaghi, una ragionevole limitazione delle ore di lavoro, e le ferie periodiche retribuite, nonché la remunerazione per i giorni festivi.

L'articolo 8 sancisce dispone poi che
una protezione speciale deve essere accordata alle madri per un periodo di tempo ragionevole prima e dopo il parto. Le lavoratrici madri dovranno beneficiare, durante tale periodo, di un congedo retribuito o di un congedo accompagnato da adeguate prestazioni di sicurezza sociale.

Speciali misure di protezione e di assistenza devono essere prese in favore di tutti i fanciulli e gli adolescenti senza discriminazione alcuna per ragione di filiazione o per altre ragioni. I fanciulli e gli adolescenti devono essere protetti contro lo sfruttamento economico e sociale. Il loro impiego in lavori pregiudizievoli per la loro moralità o per la loro salute, pericolosi per la loro vita, o tali da nuocere al loro normale sviluppo, deve essere punito dalla legge. Gli Stati devono altresì fissare limiti di età al di sotto dei quali il lavoro salariato di manodopera infantile sarà vietato e punito dalla legge

Impressiona la modernità di alcune previsioni, specie quelle attinenti al rispetto del sempre volenteroso lavoro femminile, al diritto ad un uguale salario tra uomo e donna, al diritto alla promozione di grado, aspirazioni troppo spesso ancora oggi disattese non solo nei paesi in via di sviluppo ma anche nel mondo occidentale, in Europa, in Italia.

La rapida industrializzazione, l'aumento dei consumi (e del consumismo), il mutare degli scenari geopolitici, la indiscussa influenza di alcuni gruppi industriali anche su dinamiche nazionali lavoristiche pongono costantemente in pericolo i diritti umani dei lavoratori. È d'altro canto anche vero che è sempre maggiore la consapevolezza nei consumatori, e in parte dell'industria, della esistenza di una rete di diritti a tutela dei lavoratori anche in ambito di diritti umani e dell'importanza del loro rispetto.

A partire dagli anni '70 l'opinione pubblica ha iniziato a interessarsi a tali tematiche prima oggetto di strumenti di soft-law elaborati da organizzazioni internazionali o privati, poi di codici di condotta adottati dalle stesse aziende.

Il primo tentativo di codificare i regimi di condotta per le imprese multinazionali risale al 1972, quando il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC), su richiesta del Segretario Generale, istituì una Commissione sulle multinazionali con il fine di analizzare gli impatti delle attività di tali gruppi sulle politiche globali e locali.
Si è tentato insomma, a livello internazionale, di intessere una rete di sistemi che fosse in grado di indurre le imprese a conformarsi a norme di condotta in materia di diritti umani.

Nel 2003, la United Nations Sub-Commission on the promotion and protection of human rights ha adottato le "Norms on the responsibilities of trasnational corporations and other business enterprises" con l'obiettivo di redigere norme, non vincolanti, concernenti la responsabilità delle imprese multinazionali riguardo la promozione e il rispetto dei diritti umani.

In questo contesto venivano elaborati nel 2008, dal prof. Ruggie, e adottati nel 2011 dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, i "Principi Guida su Imprese e Diritti Umani" basati sui tre "Pilastri Ruggie":

I. L'obbligo dello Stato di proteggere gli individui dalle violazioni dei diritti umani compiute dalle imprese;

II. La responsabilità delle imprese di tutelare i diritti umani;

III. La responsabilità degli Stati e delle stesse imprese di prevedere e attuare dei rimedi efficaci.

I "Principi Guida" del rapporto Ruggie, indirizzati alle aziende e agli Stati e diventati un punto in più di riferimento e riflessione sul tema dei diritti umani, evidenziano i rischi di lesioni dei diritti nell' industria moderna, attraverso uno strumento semplice e al contempo incisivo poiché indirizzato sì alle imprese (contro cui non avrebbero alcun carattere cogente) ma mediato dall'intervento statale.

Le società infatti non sono soggetti con personalità giuridica internazionale e pertanto non possono essere destinatarie di alcun obbligo internazionale a tutela dei diritti degli uomini.
Del resto è noto che le multinazionali operano a livello transnazionale fuori dal Paese dove sono stabilite e utilizzano una rete di società con distinta responsabilità giuridica separata dall'intero gruppo.

Tale meccanismo ha permesso ad alcune realtà aziendali internazionali di violare sistematicamente i diritti fondamentali dell'uomo, i principi internazionali in materia di salute e ambiente. Non solo, nella filiera di produzione delocalizzata nei paesi in via di sviluppo era (ed è ancor oggi) ricorrente l'utilizzazione di manodopera infantile, la violazione dei diritti delle operaie, lo sfruttamento indiscriminato del territorio e delle risorse, l'inquinamento dei luoghi.

E quindi al fine di implementare i principi del "rapporto Ruggie" la Commissione Europea invitava tutti gli Stati Membri a predisporre un Piano d'Azione Nazionale per spingere le imprese a rispettare i diritti umani dei loro dipendenti.

Inoltre il Consiglio dei Diritti Umani, al fine di promuovere i Principi Guida istituiva un gruppo di lavoro su Business and Human Rights con cui il Comitato Interministeriale dei Diritti Umani d'Italia (CIDU) ha dialogato proficuamente in questi anni così dotandosi nel 2016 di un Piano Nazionale di Azione su Impresa in ambito di Diritti Umani (PAN BHR), di durata quinquennale dal 2016 al 2021 e oggetto di costante revisione e aggiornamento.
Il PAN BHR si basa su costante confronto tra i rappresentanti dell'industria, i sindacati, il mondo accademici. L'esempio italiano (in realtà anche Francia e Germania lavorano alla implementazione dei Principi Guida da anni) è stato seguito progressivamente dai paesi asiatici come Giappone, India, Corea, Tailandia che si stanno dotando a loro volta di Piani di Azione per le Imprese in ambito di tutela dei diritti umani.

A distanza di un decennio dalla loro adozione i Principi Guida appaiono quanto mai attuali oggi che il mondo intero è stravolto dalla pandemia da Covid-19, laddove nel settore industriale le maggiori criticità, e violazioni dei diritti umani, si sono registrate proprio nelle catene di fornitura.

È evidente insomma che l'impegno su base volontaria delle aziende non ha fatto cessare le continue violazioni dei diritti umani dei lavoratori, specie nelle multinazionali e nella filiera tessile.

Si giunge quindi, su impulso dell'Ecuador, e per tentare di rimediare al sistema di soft-law, al giugno 2014 allorquando le Nazioni Unite hanno organizzato un gruppo di lavoro intergovernativo con lo scopo di elaborare un trattato internazionale rivolto alle imprese affinché le stesse rispettino i diritti umani.

La relativa Risoluzione A/HRC/26/L22, proposta dall'Ecuador e appoggiata da Bolivia, Cuba, Sud Africa e Venezuela, è stata adottata con 20 voti a favore, 14 voti contrari (dei Paesi industrializzati) e 13 astenuti (tutti Paesi Latino-Americani).

Il mandato derivante dalla Risoluzione è stato quello di elaborare uno strumento legalmente vincolante a livello internazionale per regolare, nell'ambito della protezione internazionale dei diritti umani, l'attività delle imprese multinazionali e comunque le imprese che operano all'interno di una filiera in più stati nello svolgimento delle loro attività.

I lavori del comitato hanno portato a giugno del 2018 alla pubblicazione di un documento chiamato "Zero Draft legally binding instrument" che si fonda su due macro-temi:

- l'accesso alla giustizia e i rimedi per le vittime delle violazioni di diritti umani e la responsabilità delle imprese per le violazioni nelle attività a carattere transnazionale.

Nonostante i lavori per la creazione di un trattato internazionale non siano ancora terminati, dalla "Zero Draft legally binding instrument" si evince che i temi più importanti a cui si sta dando rilievo sono:

-l'obbligo per le imprese di dimostrare diligenza;

-il rafforzamento della responsabilità delle imprese;
-la previsione di rimedi efficaci contro le violazioni ed un efficace accesso alla giustizia per i lavoratori;

-l'obbligo in capo agli Stati di prevedere assistenza legale reciproca;

-lo sviluppo della cooperazione internazionale; la creazione di meccanismi di monitoraggio ed esecuzione sia a livello nazionale che internazionale.

Ciò dimostra gli sforzi della comunità internazionale volti all'adozione di un trattato internazionale che vincoli le imprese al rispetto dei diritti umani, e che preveda una responsabilità unitaria delle imprese multinazionali, nonostante la distinta personalità giuridica delle diverse società che fanno capo alla capogruppo.

Con un trattato cogente le vittime di violazioni (e violenze) in ambito aziendale avranno la certezza della uniformità internazionale della applicazione della norma, della giurisdizione e della certezza del diritto.

Molto deve essere ancora intrapreso e molto deve concludersi, ma la sensazione è quella che un passaggio fondamentale nelle coscienze dei consumatori e nei bilanci delle aziende sia stato compiuto nella giusta direzione che imporrà nuovi paradigmi del consumo consapevole e sostenibile.

Sarà fondamentale nei prossimi anni che gli Stati operino per la costruzione di un nuovo diritto fondante su un quadro normativo internazionale volto al raggiungimento di livelli uniformi di tutela del diritto alla salute, alla dignità, al salario per tutti i lavoratori, che le imprese applichino i modelli normativi cogenti e che i consumatori vivano l'esperienza dell'acquisto, anche nel settore moda, con una rinnovata morale che sappia guardare più avanti del proprio immediato vantaggio economico.

*a cura dell' avv. Fiammetta Capecchi, cofounder di Lexpertise - Legal Network

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