Casi pratici

Legittimazione e trattamento fiscale del trust auto-dichiarato

di Irene Barbieri e Giancarlo Marzo

LA QUESTIONE
Cosa si intende per trust "autodichiarato"? E come vengono trattati sotto il profilo impositivo?


Premessa
Il trust muove i suoi primi timidi passi in Italia solo agli albori degli anni '90, a seguito della ratifica da parte dell'Italia della Convenzione dell'Aja del 1985 (avvenuta con legge 16 ottobre 1989, n. 364). Nonostante a tale riconoscimento non sia seguita una specifica regolamentazione civilistica – a dispetto del nome, infatti, lo strumento non ha immediatamente attirato la fiducia del Legislatore fiscale- gli interventi giurisprudenziali e dottrinari succedutisi, specie in ambito tributario, hanno reso possibile la graduale "istituzionalizzazione" del trust, portandolo ad essere, oggi, uno degli strumenti di pianificazione e protezione patrimoniale maggiormente apprezzati. È oramai nota la sconfinata potenzialità operativa di questo strumento: il trust è, di fatti, suscettibile di utilizzo per far fronte alle esigenze più disparate sia in ambito prettamente finanziario che in quello afferente a problematiche successorie e familiari, alle quali l'ordinamento offre rimedi spesso insoddisfacenti od obsoleti.
Nello scenario caleidoscopico delle possibili tipologie di trust istituibili, quello auto-dichiarato rappresenta una delle modalità più semplici da istituire: il trust viene costituito ma non c'è nessun trasferimento di beni in capo ad un altro soggetto diverso dal disponente.
Ciò in quanto, il principale vantaggio di tale peculiare tipologia risiede nel fatto che è lo stesso disponente a gestire i beni destinati (in qualità di trustee) e, al contempo, a beneficiare dei meccanismi di protezione patrimoniale tipici del trust. Tuttavia, pur se i beni rimangono nella materiale disponibilità del settlor, questi sarà obbligato a gestirli in maniera diligente, in virtù di quanto previsto nell'atto istitutivo.
L'interrogativo, dunque, sorge spontaneo: perché istituire un trust laddove, apparentemente, il patrimonio del disponente non subisce sollecitazioni? Semplicemente, seppur scevro di trasferimenti di ricchezza, il trust auto-dichiarato consente al settlor di porre un vincolo di destinazione su beni che, seppur "auto-vincolati", sostanzialmente fuoriescono dalla sua sfera patrimoniale, permettendone in tal modo una maggiore protezione. È bene ricordare, inoltre, che la tipologia di trust in esame si differenzia da quella in cui la figura del disponente coincide con quella del beneficiario (c.d. trust auto-destinato), anch'essa contemplata nelle fattispecie in cui risulta evidente il perseguimento di finalità particolarmente apprezzabili o difficilmente realizzabili con il ricorso ad altri strumenti.


L'annosa questione di legittimità
del trust auto-dichiarato

Si è detto che il trust auto-dichiarato è caratterizzato dall'assenza di un effettivo trasferimento di ricchezza, attesa la coincidenza soggettiva tra settlor e trustee: il primo si dichiara trustee di beni che già gli appartengono, in tal modo apponendo sugli stessi il vincolo di destinazione tipico dell'istituto in parola.
Proprio tale aspetto ha, non di rado, indotto prassi amministrativa e giurisprudenza di legittimità a ricondurre il trust auto-dichiarato tra gli strumenti giuridici maggiormente censurabili, entrambe convinte della aprioristica illiceità dello strumento, principalmente, a causa della sua struttura poco convenzionale. Questa nutrita diffidenza è dipesa, in prima battuta, più che da profonde valutazioni tecnico-giuridiche, da un ricorso al trust (eufemisticamente) fin troppo "disinvolto" da parte di alcuni. E ciò a discapito dei soggetti più virtuosi e meritevoli di tutela.
Nel decennio trascorso, infatti, si contano dozzine di pronunce di nullità e revocabilità di trust auto-dichiarati, per lo più connesse a fattispecie in cui un soggetto fortemente indebitato, tenta di sottrarre ai creditori i propri beni attraverso atti dispositivi a favore di trust costituiti in "auto-gestione".
Di fatto, le numerose declaratorie di nullità del trust statico hanno quasi sempre riguardato fattispecie in cui tale tipologia è stata artatamente utilizzata come mero schermo giuridico tra disponente e creditori, in assenza di un reale spossessamento da parte del primo.
L'illeceità del trust di siffatta indole, in sostanza, sta nella natura simulatoria legata all'apparente perdita di controllo dei beni del disponente, a nulla rilevando, dunque, la coincidenza tra disponente e trustee.
La coincidenza soggettiva tra le due figure, a ben vedere, non preclude la meritevolezza di tutela della causa del trust. Al riguardo, infatti, è lo stesso dato normativo a confortare tale assunto: un trust avente tutte le caratteristiche di cui all'art. 2 della Convenzione de L'Aja, è riconosciuto come esistente e produttivo di effetti, ancorché auto-dichiarato. Solo ove esso si ponga quale strumento lesivo dell'interesse creditorio alla conservazione della responsabilità patrimoniale del debitore, il trust violerebbe le norme inderogabili interne dell'ordinamento italiano. In tal caso, prima ancora che nullo, il trust auto-dichiarato sarebbe "non riconoscibile" ai sensi dell'art. 13 della Convenzione dell'Aja.
L'aspetto peculiare della coincidenza soggettiva, d'altronde, non rileva quale presupposto di legittimità dello strumento nemmeno in seno all'orientamento di legittimità maggioritario.
Al riguardo, la Suprema Corte ha, a più riprese, statuito che il presupposto coessenziale alla stessa natura del trust risiede nel fatto che il disponente perda la disponibilità di quanto conferito in trust, al di là di determinati poteri che possano competergli in base alle norme costitutive (in tal senso, Cass. sent. n. 3886 del 2015). Tale condizione di spossessamento è "ineludibile", ragion per cui laddove risulti che la perdita del controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è da intendersi nullo e non produttivo di alcun effetto segregativo tipico dello stesso. Un trust di tal fatta è stato definito sham, ovverosia vergognoso, ripugnante, definizione quest'ultima coniata dal Tribunale di Bologna nell'oramai nota sentenza del 1° ottobre 2003 riguardante quei trust liquidatori che perseguivano fini non compatibili con l'ordinamento giuridico e, come tali, non meritevoli di riconoscimento ai sensi dell'art.13 della Convenzione, in quanto istituiti al fine precipuo di sottrarre il residuo attivo patrimoniale di aziende decotte e, dunque, prossime al fallimento.
Del pari, in maniera assai eloquente, la Circolare n. 61/E del 2010 dell'Agenzia delle Entrate aveva precisato che nell'ipotesi in cui il potere di gestione e disposizione dei beni permanga in tutto o in parte in capo al settlor e ciò emerga, non soltanto dall'atto istitutivo del trust, ma anche da ulteriori elementi di fatto, e non si verifichi, dunque, un reale spossessamento del disponente, il trust sarebbe da ritenersi struttura meramente interposta rispetto al disponente, quest'ultimo essendo l'unico soggetto cui andrebbero attribuiti i redditi (solo formalmente) prodotti dal trust.
Dalle pronunce susseguitesi negli ultimi anni, dunque, emerge in maniera univoca come non sia la struttura auto-dichiarata a determinare la "ripugnanza" di un trust (sham) dovendosi, al contrario, avere riguardo all'eventuale contrarietà del suo scopo alle norme inderogabili dell'ordinamento interno.
D'altronde, sono gli stessi articoli 15, 16 e 18 della Convenzione de L'Aja a subordinare il riconoscimento del trust -a prescindere dalla struttura- alla sua compatibilità con le norme di applicazione necessaria e di ordine pubblico interno. Proprio in tale ottica, la giurisprudenza di legittimità ha statuito l'ammissibilità del trust auto-dichiarato in ragione della propensione di tale strumento a "rispondere a finalità eterogenee: di garanzia; di liquidazione e pagamento; (…) ovvero, ancora, a seconda che il trustee ed il beneficiario vengano individuati in soggetti terzi oppure nello stesso disponente (c.d. trust auto-dichiarato)" (da ultimo, Cass., ord. 16 febbraio 2021, n. 3986; dello stesso avviso, sent. 26 ottobre 2016, n. 21614; ord. 7 dicembre 2020, n. 27995).


Fiscalità diretta del trust auto-dichiarato
Come noto, il comma 74 dell'articolo 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Finanziaria per il 2007), modificando l'articolo 73 T.U.I.R., ha incluso i trust tra i soggetti passivi IRES, benché strumento privo di soggettività giuridica di tipo civilistico. E' stata, in tal modo, riconosciuta al trust autonoma soggettività tributaria estendendo ad esso l'imposta tipica delle società, degli enti commerciali e non commerciali.
In particolare, ai fini IRES, vengono individuate due principali tipologie di trust: a) trust con beneficiari di reddito individuati (trust c.d. "trasparenti"); b) trust senza beneficiari di reddito individuati (c.d. "opachi").
Riguardo ai primi ("trasparenti") il comma 2 del summenzionato articolo 73 del T.U.I.R. dispone che, nel caso in cui i beneficiari siano individuati, i redditi conseguiti dal trust sono imputati, in ogni caso, ai beneficiari in proporzione alla quota di partecipazioni individuata nell'atto di costituzione o in altri documenti successivi, ovvero, in mancanza, in parti uguali. In tal caso, sulla base del disposto dell'art. 44, comma 1, lett- g-sexies) del T.U.I.R., i redditi imputati per trasparenza ai beneficiari, sono considerati per questi ultimi redditi di capitale.
Di contro, nei trust "opachi", il trust è autonomo soggetto passivo di imposta, dunque, il reddito sconta l'imposizione in capo al trust e la successiva devoluzione ai beneficiari non assume più carattere reddituale, ma patrimoniale.
Pertanto, per poter individuare il soggetto cui imputare il reddito conseguito da un trust, occorre esaminare l'atteggiarsi del singolo trust nel caso concreto.
In linea di principio, dunque, al trust auto-dichiarato si applica la disciplina fiscale ordinariamente prevista in materia di trust, per cui, in presenza di beneficiari individuati opererà il meccanismo di tassazione per trasparenza, purché quest'ultimi siano diversi dallo stesso disponente, versando altrimenti in una ipotesi di sham, con imputazione del reddito direttamente al settlor.
È possibile individuare a quale categoria appartenga un trust auto-dichiarato costituito secondo i "crismi" normativi? La risposta al quesito, per quanto sibillina possa apparire, è stata offerta dalla stessa Agenzia delle Entrate nella risposta ad interpello n. 954-909/2016 del 4 gennaio 2016.
Chiamata a fornire una soluzione interpretativa in ordine al trattamento fiscale dei conferimenti e dei trasferimenti di beni e diritti in favore di un trust auto-dichiarato ("Dopo di noi"), l'Amministrazione Finanziaria ha, in primo luogo, precisato che lo strumento in esame, atteso il rispetto dei requisiti e le finalità di cui alla già citata legge n. 112 del 2016, debba considerarsi fiscalmente operativo ai fini delle imposte dirette. Nihil sub sole novum, fin qui. Tuttavia, ha chiosato l'Agenzia, non potendo il soggetto disabile correttamente qualificarsi in senso giuridico quale beneficiario dei beni, ma solo del fine assistenziale costituente lo scopo esclusivo del trust, lo strumento rientra nella categoria dei trust opachi, i cui redditi, come anzidetto, sono tassati ai fini IRES direttamente in capo al trust, in applicazione delle disposizioni di cui al capo III del titolo II del T.U.I.R..
La più problematica fiscalità indiretta
Discorso a parte, merita il trattamento fiscale del trust (e, dunque, anche dell'auto-dichiarato) ai fini dell'imposizione indiretta. Norma di riferimento, al riguardo, è stata considerata -con esiti interpretativi spesso divergenti– l'art. 2 comma 47 del D.L. n. 262 del 2006 (convertito in Legge n. 286 del 2006) il quale ha reintrodotto nel nostro ordinamento l'imposta sulle successioni e donazioni, estendendone l'ambito di applicazione alla "costituzione di vincoli di destinazione" su beni e diritti, tra cui rientra anche la costituzione di trust.
La reintroduzione dell'imposta de qua ha dato il via ad un accesso dibattito che, proprio di recente, pare abbia trovato compiuta definizione almeno in seno alla Suprema Corte di Cassazione.
Come noto, in passato l'Amministrazione Finanziaria era salda nel ritenere che l'atto di conferimento dei beni nel trust da parte del disponente, considerato vero e proprio trasferimento di ricchezze a titolo liberale, determinasse l'applicazione in misura proporzionale dell'imposta sulle successioni e donazioni. A soluzione più stringenti, d'altro canto, giungeva la giurisprudenza di legittimità, secondo cui l'imposta de qua, prescindendo dal trasferimento di ricchezza derivante dal conferimento di beni, avrebbe avuto il suo presupposto impositivo nella semplice costituzione di vincoli di "indisponibilità" dei beni, ivi inclusi quelli originati dai trust.
Il cambio di rotta, a livello giurisprudenziale, si è avuto nel 2016, con la oramai nota sentenza del 26 ottobre 2016, n. 21614, con cui la Suprema Corte, prendendo le distanze dall'indirizzo precedente, è approdata ad una soluzione diametralmente opposta, sostenendo che la costituzione del trust accompagnato dal conferimento di beni non determina un loro effettivo trasferimento di ricchezza in capo al gestore, ma esplica unicamente efficacia "segregante", fino al trasferimento vero e proprio dei beni a favore del beneficiario.
Di talché, l'imposta sulle successioni e donazioni non si applica all'atto della costituzione di un trust in quanto non sussiste il presupposto impositivo costituito dall'arricchimento patrimoniale a titolo di liberalità, rimandandosi al momento del reale trasferimento di beni e dell'arricchimento dei beneficiari, la tassazione in misura proporzionale.
In linea di continuità con i principi su espressi, si pongono gli arresti di legittimità più recenti, ai quali va riconosciuto maggior pregio per aver gli stessi fornito ulteriori precisazioni, volte sostanzialmente a definire, semel pro semper, il trattamento fiscale dello strumento giuridico in analisi.
In modo assai eloquente, infatti, la Suprema Corte ha sottolineato che, ai fini delle imposte indirette, la previsione del già più volte citato art. 73, comma 1, del T.U.I.R., che individua espressamente i trust tra i soggetti passivi IRES, non comporta tout court una loro soggettività "assoluta" ai fini dell'imposizione indiretta. E' infatti indiscusso che il Legislatore possa disporre della soggettività tributaria prescindendo dalle altre forme di soggettività, e che il sostrato minimo sul quale lo stesso Legislatore può costruire la soggettività tributaria, è la separazione o l'autonomia patrimoniale, e non già la soggettività civilistica. In virtù di tale principio, non può dunque intepretarsi l'art. 73 del T.U.I.R. nel senso che il Legislatore abbia attribuito al trust la personalità giuridica, né, tantomeno, tale attribuzione può essere avanzata dalla giurisprudenza posto che l'attribuzione della soggettività giuridica è appannaggio del solo Legislatore (cfr. Cass. SS.UU. n. 25767/2015 e Cass. n.16550/2019).
Per tale via, la Suprema Corte è giunta a ribadire l'inesistenza della soggettività giuridica del trust, il quale, come chiaramente ricavabile dall'art. 2 della Convenzione de L'Aja, costituisce un semplice "insieme di beni e rapporti con effetto di segregazione patrimoniale", sottolineando, ancora una volta come, in virtù di tale "a-soggettività", l'imposta sulle successioni e donazioni, sia dovuta non al momento della costituzione dell'atto istitutivo o di dotazione patrimoniale, fiscalmente neutri in quanto meramente attuativi degli scopi di segregazione ed apposizione del vincolo, bensì in seguito all'eventuale trasferimento finale del bene al beneficiario, in quanto solo quest'ultimo costituisce effettivo indice di ricchezza ai sensi dell'art. 53 Cost.
Tale principio, come puntualizzato dai Supremi Giudici nella recentissima ordinanza n. 3986 del 16 febbraio 2021, deve ritenersi estensibile a tutte le diverse manifestazioni (del trust, n.d.r.): anche laddove la figura del disponente e del trustee coincidano (e, quindi, in ipotesi di trust auto-dichiarato) o vi sia la possibilità che il beneficiario finale si identifichi con il disponente stesso (i.e. auto-destinato), l'imposta proporzionale non andrà anticipata né all'atto istitutivo, né a quello di dotazione, bensì riferita a quello di sua attuazione e compimento mediante trasferimento finale del bene al beneficiario. Vieppiù che, proprio la mancanza di trasferimento patrimoniale intersoggettivo, nel trust auto-dichiarato, "rende ancor più evidente e radicale l'incongruenza dell'applicazione dell'imposta proporzionale sull'atto istitutivo e su quello di apposizione del vincolo all'interno di un patrimonio che rimane in capo allo stesso soggetto" (cfr. Cass., ord. 16 febbraio 2021, n. 3986).
Stesso discorso valga ai fini dell'applicazione dell'imposta ipo-catastale e di quella di registro, anch'esse applicabili in misura fissa.
Preme, da ultimo, evidenziare come, uno spiraglio di allineamento di posizioni (quasi sempre distanti) tra Amministrazione e Cassazione, sia stato paventato nella risposta ad interpello dell'Agenzia delle Entrate dello scorso 15 febbraio, seppur afferente la diversa ipotesi di trust auto-destinato.
Sulla stessa lunghezza d'onda del già consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità in materia di fiscalità indiretta del trust, l'Amministrazione ha escluso l'applicabilità dell'imposta sulle successioni-per carenza del presupposto oggettivo- alle ipotesi di trust auto-destinati. Nella fattispecie l'Agenzia ha chiarito che "L'assenza di un trasferimento intersoggettivo preclude l'applicazione dell'imposta di donazione per carenza del presupposto oggettivo di cui all'articolo 1 del citato decreto legislativo, mancando un trasferimento di ricchezza".
Parrebbe, dunque, che ritenendo tassabile l'attribuzione di beni e diritti ai beneficiari (momento di "uscita"), l'Amministrazione abbia implicitamente escluso la tassabilità della sottoposizione dei beni e diritti al vincolo del trust (momento di "entrata"). Nel suo brevissimo ragionamento, l'Agenzia ha fatto leva sui principi recentemente statuiti dalla Suprema Corte nell'ordinanza n. 10256 del 29 maggio 2020 nella quale è dato leggere che "solo l'attribuzione al beneficiario… può considerarsi, nel trust, fatto suscettibile di manifestare il presupposto dell'imposta sul trasferimento di ricchezza".


Considerazioni conclusive
Se da un lato, gli arresti di legittimità hanno definitivamente posto fine alla questione di ammissibilità di tale tipologia di trust, così come delle altre, contribuendo in maniera decisiva a circoscriverne, altresì, il trattamento fiscale diretto e indiretto, dall'altro, la prassi amministrativa stenta ad allinearsi con la posizione giurisprudenziale maggioritaria. Non basteranno certo le poche righe di risposta ad un interpello a rovesciare, tout court, l'orientamento consolidatasi nel tempo attraverso innumerevoli documenti di prassi. Tuttavia, pur con una certa cautela, i recenti spiragli di apertura da parte dell'Agenzia lasciano ipotizzare un cambio di rotta a stretto giro. In attesa, gioverebbe non poco al perdurante torpore amministrativo, un intervento legislativo diretto a fornire un'interpretazione autentica della fiscalità del trust.

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