Lavoro

Sui social sì alla libertà di critica ma attenzione alle parole e al contesto

A Taranto un dipendente è stato sospeso per un post: cosa dice la giurisprudenza

di Serena Uccello

Qualche volta può essere una foto postata su un social; qualche altra una frase. Qualche altra una frase. Altre volte invece l’insidia passa anche attraverso la semplice condivisione di un appello: guardate quella fiction. Com’è, ad esempio, accaduto a un dipendente dell’ArcelorMittal di Taranto sospeso dal lavoro in via disciplinare.

Ora, al di là dell’esito processuale che avrà questa vicenda, il dato è certo: i social media possono diventare un nuovo fronte di fragilità nei rapporti tra lavoratori e azienda. La questione centrale è: dove finiscono i doveri del lavoratore e dove cominciano i diritti dell’individuo. Fin dove arriva quanto sancito dagli articoli 2104 (la diligenza del prestatore di lavoro) e 2105 (l’obbligo di fedeltà) del Codice civile, e dove invece comincia il diritto costituzionalmente garantito sulla libertà di espressione e il diritto di critica (l’articolo 21, appunto, della Costituzione).

Il punto di partenza è la consapevolezza che tutto quello che viene pubblicato su un social è pubblico. Su questo i giudici della Cassazione si sono già espressi: i social sono un luogo aperto, una piattaforma a cui ha accesso una pluralità indistinta.

L’episodio di Taranto rappresenta allora una buona lente per provare a fare chiarezza. La giurisprudenza in materia comincia non solo a esserci ma anche a prendere in considerazione diverse evenienze. Due i punti fermi: nel rapporto tra fedeltà aziendale e libertà di espressione, il bilanciamento va operato dai giudici caso per caso. Spesso, tuttavia, i giudici antepongono la libertà di espressione e il diritto di critica. Attenzione però: il diritto di critica, non la libertà di dire ciò che si vuole come a una cena tra amici. Secondo punto: nel caso di comportamenti effettivamente sanzionabili, questa sanzione deve essere proporzionata.

Questo aspetto è ben chiarito da una sentenza del Tribunale del lavoro di Milano del 29 novembre del 2017. Protagonisti una compagnia di assicurazioni e un suo dipendente. Quest’ultimo, considerato responsabile di aver offeso alcuni dirigenti all’interno di un gruppo Facebook chiuso, è stato per questo licenziato. In questo caso il giudice decide che, per quanto «il fatto posto a base del licenziamento non può dirsi che non abbia rilevanza disciplinare», tuttavia «invece si deve affermare la illegittimità del licenziamento sotto il profilo della mancanza di proporzione». Come a dire, il comportamento sanzionabile c’è stato ma la scelta del licenziamento non è equilibrata.

Ciò, dunque, per quanto riguarda le conseguenze, ma torniamo indietro all’origine, al diritto di critica. Su questo punto ha aperto la strada una sentenza del Tribunale del lavoro di Parma del 12 febbraio del 2018. Qui il vulnus è un post di un dipendente che così scriveva sulla sua bacheca Facebook: «È un’offesa ai lavoratori che lavorano la domenica!! Tanto meritate solo disprezzo egregi padroni…!». In questo caso il giudice ha ritenuto che le affermazioni pubblicate «non possano definirsi giuridicamente diffamatorie bensì appaiano più propriamente manifestazione del diritto di critica sindacale e/o politica».

E può accadere che il diritto di critica sia garantito anche quando il linguaggio è colorito. La Cassazione (Sezione lavoro, ordinanza 21965 del 10 settembre 2018) ha respinto il ricorso di un’azienda contro la sentenza di appello del Tribunale di Lecce che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento di un dipendente. A causare il provvedimento dell’azienda era stato quanto il dipendente, che aveva pure un ruolo nella rappresentanza aziendale, aveva dichiarato in un gruppo Facebook chiuso del sindacato. Per i giudici, qui, conta che il gruppo fosse chiuso, conta il ruolo sindacale e conta il fatto che «il riferimento fatto nella conversazione ai metodi “schiavisti” dell’azienda, e le espressioni usate riguardo all’amministratore, peraltro incomplete per l’uso di puntini sospensivi (“faccia di m...” e “cogli....”), dovessero valutarsi come “coloriture, ormai entrate nel linguaggio comune, tese a rafforzare il dissenso dai metodi del L.”, dovendo altrimenti “concludersi che la libertà di critica e, ancora prima, di opinione, possa essere esercitata solo manifestando idee favorevoli o inoffensive o indifferenti”».

Quello che invece non rileva è tentare di ridimensionare la propria responsabilità dicendo: «Non sono stato io», se non lo si può dimostrare. Il Tribunale del lavoro di Busto Arsizio, con una sentenza del 20 febbraio del 2018, ha infatti respinto il ricorso di un dipendente di Meridiana licenziato dopo la pubblicazione di alcuni tweet, la cui paternità è stata messa in discussione dallo stesso dipendente, senza alcuna prova però secondo il giudice.

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