Penale

Abuso d’ufficio, non c’è mai reato se si esercita un potere discrezionale

La Cassazione cambia rotta rispetto alle prime pronunce dopo la riforma del 2020. Non è possibile contestare il delitto solo per violazioni dei principi costituzionali

di Guido Camera

I giudici iniziano a restringere il campo sul reato di abuso d’ufficio, applicando i principi portati avanti con la riforma del 2020 (decreto legge 76). Infatti, la Corte costituzionale prima (sentenza 8/2022) e la Cassazione poi (sentenza 13136/2022) hanno sottolineato l’esigenza di evitare controlli eccessivi del giudice penale sulla discrezionalità dell’attività amministrativa. Due decisioni che paiono segnare un’inversione di tendenza rispetto alle pronunce seguite alla riforma.

Il nodo, come ha chiarito la Consulta, è il legame tra l’ampiezza del reato di abuso d’ufficio e la “burocrazia difensiva”, per la quale i pubblici funzionari si astengono dall’assumere decisioni che riterrebbero utili per l’interesse pubblico, optando per altre meno impegnative, o addirittura scelgono di rimanere inerti, per timore di andare sotto processo. Un fenomeno che ha «significativi riflessi negativi in termini di efficienza e di rallentamento dell’azione amministrativa, specie nei procedimenti più delicati» e che non è placato dall’«enorme divario, che pure si è registrato sul piano statistico», tra la mole dei procedimenti promossi e «l’esiguo numero delle condanne definitive pronunciate in esito ad essi».

Il reato e le riforme

Il delitto, disciplinato dall’articolo 323 del Codice penale, prevede a carico di chi lo compie la reclusione da uno a quattro anni. Alle sanzioni penali si aggiungono quelle previste dal decreto legislativo 231/2001 per le persone giuridiche nel cui interesse o vantaggio viene commesso un abuso d’ufficio che offende gli interessi dell’Unione europea: la condotta del funzionario può infatti concorrere con quella del privato che ne abbia beneficiato. La punibilità scatta in presenza di un danno ingiusto, o di un vantaggio patrimoniale ingiusto, causati dalla mancata astensione in presenza di un conflitto di interesse, o dalla violazione di regole di condotta non discrezionali previste da norme primarie.

Il reato è stato riformato tre volte dal 1990, per contemperare l’esigenza di contrastare il malaffare nella pubblica amministrazione con il suo legittimo potere di fare scelte discrezionali per perseguire gli interessi pubblici. Ma gli interventi non hanno prodotto il risultato sperato.

Da ultimo, il decreto legge 76/2022 ha ristretto il campo d’azione penale alla violazione «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità», oltre ai casi in cui il pubblico funzionario abbia un dovere di astensione.

L’orientamento dei giudici

La giurisprudenza che si è formata dopo la riforma ha però recuperato i principi espressi in passato, limitando gli effetti delle novità. Di qui l’importanza dell’intervento della Consulta, cui si era rivolto un giudice di Catanzaro lamentando che la riforma, oltre a non avere i presupposti per essere adottata con la forma del decreto legge, avrebbe lasciato impuniti coloro che, «detenendo il potere di decidere discrezionalmente, si trovano in una condizione privilegiata per abusarne». La Consulta ha respinto questa tesi e ha sancito la legittimità dei requisiti di urgenza e necessità per l’inserimento della riforma dell’abuso di ufficio nel decreto legge 76/2020.

Dopo il monito della Consulta, la Cassazione ha fatto un primo passo indietro verso il recupero degli obiettivi perseguiti dal legislatore del 2020. Con la sentenza 13136/2022, i giudici hanno infatti escluso che per integrare l’abuso d’ufficio sia sufficiente contestare violazioni genericamente ricavabili dall’articolo 97 della Costituzione, sottolineando che la riforma del 2020 ha escluso la rilevanza penale ogni qual volta le regole di condotta seguite dal funzionario pubblico «rispondano in concreto, anche in misura marginale, all’esercizio di un potere discrezionale». Inoltre, la sentenza ha ricordato che i comportamenti da prendere in esame non possono essere ricavati da norme secondarie, ma solo direttamente dalla legge, o da atti equipollenti.

Si tratta ora di capire se la giurisprudenza si consoliderà in questo senso: è probabile, vista la presenza di orientamenti differenti, che debbano pronunciarsi le Sezioni Unite per fare chiarezza definitiva.

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