Penale

Falcone, trent’anni dopo Capaci radar sull’economia infiltrata

Il metodo delle verifiche bancarie ha gemmato: tra il 2010 e il 2021 il Ros ha eseguito 10mila arresti e sequestrato beni per 5,2 miliardi. E ora l’Uif traccia l’identikit delle imprese sotto controllo della mafia <br/>

di Ivan Cimmarusti

L’eroina partiva dalla Sicilia, i soldi arrivavano dagli Stati Uniti d’America sotto forma di assegni nella Cassa di risparmio delle province siciliane. È l’inverno del 1979: nasce l’accertamento bancario, il «metodo Giovanni Falcone». Oltre 40 anni dopo quella modalità d’indagine diventerà la base di tutte le inchieste su Cosa nostra, ‘Ndrangheta e Camorra.

In una Palermo dove il tempo sembra essersi fermato gli uffici giudiziari sono in un torpore irreale, in carcere finiscono solo gli ultimi, «la mafia non esiste», la «droga non c’è» ma in tutta la provincia palermitana i chimici raffinano tonnellate di morfina base turca, che poi prende il volo verso New York. Ad attenderla gli uomini di John Gambino, il padrino più potente del Nuovo mondo. Un nome finisce sulla scrivania del neo giudice istruttore Falcone, fresco di nomina dopo l’esperienza alla sezione fallimentare: Rosario Spatola, imprenditore, rispettatissimo, un «benefattore» dicevano. Un filo lega Spatola ai Gambino, non solo matrimoni e parentele varie, ma una serie di assegni su cui compare la firma anche di un altro personaggio, il boss Salvatore Inzerillo.

LE MANI DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA SULL’ECONOMIA

Quel giovane magistrato 40enne ricostruisce tutti i passaggi di denaro associandoli ai traffici di eroina, fino a individuare i collegamenti con il mondo politico-finanziario di Michele Sindona, faccendiere, banchiere, uomo forte della Loggia P2, mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli. È l’alba dell’inchiesta “Pizza Connection”, che segnerà la storia giudiziaria degli Stati Uniti, tanto che un busto di bronzo ricorda il magistrato siciliano all’ingresso dell’Academy Fbi a Quantico (Virginia).

Un metodo investigativo studiato e analizzato da tutte le polizie del mondo, diventato lo strumento fondamentale per aggredire le ricchezze delle mafie. Gli arresti, certo, fanno male, ma i sequestri colpiscono al cuore. Ce l’ha insegnato Falcone, massacrato con la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro alle 17,58 di quel 23 maggio 1992, sull’autostrada A29 all’altezza di Capaci.

Da mafioso “rurale” a finanziere

Il mafioso “rurale” non c’è più. È diventato un finanziere, movimenta, investe. «Io sono un imprenditore e c’ho i soldi appizzati e tutte ste tarantelle», dice in una intercettazione ambientale un ’ndranghetista finito nella recente inchiesta dei pm di Roma. Una metamorfosi che già avevano capito Falcone e il collega e amico Paolo Borsellino, ucciso pochi mesi dopo di lui, il 19 luglio 1992, in via D’Amelio a Palermo, insieme a cinque agenti di scorta. Un cambio radicale del mafioso, indagato in seguito dall’antimafia, anche dai Carabinieri del Raggruppamento operativo speciale (Ros) – oggi al comando del generale Pasquale Angelosanto – fondato da uno dei più grandi investigatori di questo Paese, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che dopo l’esperienza nel terrorismo fu tra i primi a intuire l’unitarietà della mafia, pagandone il prezzo più alto.

Ormai si segue la traccia dei soldi. Basti considerare che tra il 2010 e il 2021 il Ros ha arrestato poco meno di 10mila mafiosi e sequestrato beni mobili e immobili per oltre 5,2 miliardi di euro. Una montagna di denaro finita in un circuito di imprese “infiltrate”, capaci di inaridire il tessuto produttivo delle aree in cui operano, azzerando la competitività economica.

Studi Uif sulla finanza «sporca»

Il seme di Falcone è germogliato. Una normativa all’avanguardia, la nascita della Direzione nazionale antimafia (anche se diversa dalla Superprocura che il pm aveva immaginato), degli organismi di controllo finanziario come l’Uif, l’ente antiriciclaggio diretto da Claudio Clemente, ne sono la conferma. L’evoluzione dell’indagine economica, giorno dopo giorno, si arricchisce di importanti contributi, anche di studiosi. Come l’analisi di Marco De Simoni, esperto di antiriciclaggio della Banca d’Italia.

Il suo studio – «Il profilo finanziario delle imprese infiltrate dalla criminalità organizzata in Italia» – svolto su un campione di imprese sotto il controllo criminale entrate nelle indagini dei carabinieri del Ros, propone una «classificazione inedita» delle modalità e degli scopi con cui vengono gestite queste aziende. De Simoni ci fa entrare in quel mondo, illustrandoci l’esistenza dell’impresa Investimento, una modalità utilizzata come canale per investire proventi illeciti attraverso attività legali; la Competizione, per ottenere il controllo del mercato di interesse, ricorrendo anche a metodi mafiosi per danneggiare i concorrenti o per imporre i propri prodotti ai clienti; la Cartiera, una “scatola vuota” utilizzata per riciclare; l’Impresa catturata, che nasce “sana” ma viene progressivamente infiltrata. Tutte hanno un duplice scopo: da una parte riciclare denaro, dall’altra creare radicamento nel territorio attraverso multiple assunzioni di lavoratori e azzerare la concorrenza. Ma questi due ultimi fattori hanno un costo. Troppo elevato. Oggi, infatti, si scopre che, soprattutto per le imprese Investimento e Competizione del Sud Italia, le due voci influiscono su profitti e margine operativo lordo, risultando molto più bassi rispetto alle aziende che operano nella legalità. E questa rappresenta almeno una consolazione, anche se magra.

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