Civile

Cambio di sesso, per l'intervento chirurgico resta l'autorizzazione

Per la rettifica all'anagrafe, invece, è sufficiente un percorso serio di transizione. Lo ha chiarito la Corte di cassazione ordinanza n. 7735 depositata oggi

di Francesco Machina Grifeo

Sì alla rettificazione del "nome e del sesso", su ordine del Tribunale, a fronte di un "percorso di transizione" di cui sia stata accertata la "serietà e inequivocità"; no invece alla richiesta di portare davanti alla Corte costituzionale l'obbligo di ottenere l'autorizzazione del magistrato per l'esecuzione dell'operazione chirurgica vera e propria. La Corte di cassazione, ordinanza n. 7735 depositata oggi, ha dichiarato inammissibile il ricorso di una persona che dopo aver ottenuto dal Tribunale di Rovereto il diritto alla rettificazione - da donna a uomo - dell'atto di nascita nei registri del Comune, aveva poi impugnato la parte della decisione in cui il giudice (accogliendo la sua richiesta in subordine) aveva autorizzato anche gli interventi demolitivi e costruttivi necessari per la modifica dei caratteri sessuali.

Per la ricorrente infatti l'obbligo di richiedere l'autorizzazione violava la Costituzione sotto una serie di profili: realizzazione dell'identità psichico-sessuale e diritto all'autodeterminazione in ambito sanitario; discriminazione; libertà personale; diritto alla salute. La ricorrente, richiama poi la sentenza della Corte costituzionale (n. 221 del 2015) affermando che la Consulta "ha reciso… ogni collegamento fra l'autorizzazione data dal giudice per l'operazione e la presunta necessità della sua realizzazione per accogliere la domanda di riattribuzione del genere anagrafico» e che «una persona trans potrebbe oramai ottenere la rettificazione [dello stato civile]… senza aver comunque realizzato alcun intervento chirurgico».

La Prima sezione civile afferma che effettivamente il Giudice delle leggi ha interpretato la legge nel senso che essa costituisce «l'approdo di un'evoluzione culturale ed ordinamentale volta al riconoscimento del diritto all'identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all'identità personale» e che «la mancanza di un riferimento testuale alle modalità attraverso le quali si realizza la modificazione porta ad escludere la necessità, ai fini dell'accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per effettuare l'adeguamento dei caratteri sessuali».

Dunque, prosegue la Cassazione citando la Consulta, secondo il diritto vivente «il trattamento chirurgico costituisce uno strumento eventuale, di ausilio al fine di garantire, attraverso una tendenziale corrispondenza dei tratti somatici con quelli del sesso di appartenenza, il conseguimento di un pieno benessere psichico e fisico della persona. In questa prospettiva va letto anche il riferimento, contenuto nell'art. 31 del d.lgs. n. 150 del 2011, alla eventualità («Quando risulta necessario») del trattamento medico-chirurgico per l'adeguamento dei caratteri sessuali» (Corte cost. n. 221 del 2015, conf. n. 180 del 2017).

E di tale diritto vivente, scrive la Suprema corte, il Tribunale ha fatto applicazione nella sentenza impugnata. Mentre la censura di costituzionalità della ricorrente "pecca di astrattezza ed è inammissibile per difetto di specificità". Infatti, in essa non si specifica "se e in che termini l'intervento chirurgico sia necessario (e voluto) per il completamento della transizione"; "né se sia in atto in concreto una controversia con le strutture sanitarie sulla possibilità di realizzare autonomamente il detto intervento".

In definitiva, conclude l'ordinanza, la pretesa di accertamento del diritto a mutare i caratteri sessuali tramite intervento chirurgico, senza necessità di autorizzazione giudiziale, "è formulata in modo astratto e perplesso", risolvendosi in definitiva "nella richiesta di un parere sulla più corretta interpretazione della norma nazionale, non finalizzato alla tutela del diritto in concreto azionato nel giudizio".

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