Professione e Mercato

Piani concordatari, va pagato il consulente che boccia la fattibilità

La Cassazione sul compenso di un professionista che aveva rilevato l’assenza dei presupposti per l’attestazione di fattibilità

di Giuseppe Acciaro e Alessandro Danovi

Sussiste il diritto al compenso del professionista indipendente anche nel caso in cui la relazione circa la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano concordatario - come previsto dall’articolo 161, comma 3 della legge fallimentare - attesti l’assenza dei presupposti di ammissibilità al concordato preventivo.

La quantificazione del compenso spetta al giudice se non è convenuto dalle parti e non può essere determinata secondo le tariffe o gli usi. Così si è espressa la Corte di Cassazione con l’ordinanza 14050 del 21 maggio.

Il caso
Nel caso di specie, un professionista redigeva per conto di una società, successivamente dichiarata fallita, la relazione di attestazione ex articolo 161. A seguito della dichiarazione di fallimento, lo stesso professionista depositava istanza di insinuazione al passivo per il relativo credito professionale. Quest’ultimo non veniva, però, ammesso al privilegio e, pertanto, il professionista proponeva opposizione allo stato passivo.

A parere della curatela, l’accordo con cui veniva conferito l’incarico all’attestatore non contemplava l’ipotesi, effettivamente verificatasi, che quest’ultimo rilevasse l’assenza dei presupposti richiesti per l’attestazione di fattibilità e, dunque, non procedesse alla redazione della relazione. Ritenuto che l’elaborato del professionista non consisteva in una vera e propria relazione, il compenso doveva essere riconosciuto solo in parte.

La parola della Corte
La Suprema corte ha osservato che l’articolo 161 non si esprime in ordine alla determinazione del compenso dovuto all’attestatore. Pertanto, trova applicazione la regola generale sancita dall’articolo 2233 del Codice civile per le prestazioni d’opera intellettuali, secondo il quale il compenso, se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi, è stabilito dal giudice.

Inoltre, il ricorso a criteri sussidiari è precluso al giudice qualora esista uno specifico accordo tra le parti, le cui pattuizioni risultano preminenti su ogni altro criterio di liquidazione. L’accordo tra le parti, nel caso in esame, aveva a oggetto l’attestazione, con la specifica indicazione delle attività da svolgersi.

La Cassazione ha, pertanto, confermato le motivazioni dei giudici di merito, ovvero che la prestazione pattuita non era stata effettivamente adempiuta, avendo il professionista espresso «un giudizio complessivo sulla (non) fattibilità del piano» attraverso un’analisi preliminare dei dati contabili «macroscopici». Il compenso doveva, perciò, essere ridotto.

E questo, ha sottolineato la Cassazione, «lungi dall’affermare che il professionista il quale neghi l’attestazione non abbia diritto al compenso integrale pattuito nel contratto di prestazione d’opera professionale», aspetto questo non concordato nel caso di specie.

In conclusione, la Suprema corte ha affermato che: sussiste il diritto al compenso del professionista che neghi l’attestazione; il compenso spetta in misura ridotta in caso di relazione non completa ma solo parziale.

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