Amministrativo

Expo 2015: nuovi vizi non riaprono i termini per impugnare l’aggiudicazione

di Antonino Masaracchia


La sentenza 143/2015 si inserisce nella vicenda relativa agli appalti per Expo 2015 e rappresenta il capitolo (per il momento) finale del contenzioso amministrativo sorto da una costola dell'indagine penale avviata nel mese di maggio 2014. Essa si segnala all'attenzione dei nostri lettori per alcune questioni di sicuro interesse giuridico che solleva, anche di natura squisitamente processuale, e sulle quali è opportuno soffermarsi brevemente.

L'antefatto e il primo giudizio - La procura della Repubblica di Milano aveva iniziato delle indagini per gravi ipotesi di reato (corruzione, turbativa d'asta) in relazione agli appalti affidati dalla società Expo 2015 Spa (che costituisce l'organismo incaricato di organizzare e gestire il prossimo evento dell'esposizione universale di Milano, che inizierà nel maggio 2015). A seguito di queste indagini penali - che, tra l'altro, hanno condotto all'adozione di misure cautelari personali nei confronti del direttore generale di Expo 2015 e del legale rappresentante della ditta aggiudicataria degli appalti - sono emerse presunte irregolarità nella gestione delle procedure d'appalto, al punto da spingere le imprese seconde in graduatoria (costituitesi in apposito Rti - raggruppamento temporaneo di imprese) ad avanzare formale domanda, nei confronti della stazione appaltante, di risoluzione del contratto già sottoscritto con l'impresa vincitrice dell'appalto (si tratta, per la precisione, dell'appalto concernente la progettazione esecutiva e l'esecuzione dei lavori delle architetture di servizio, ossia per la realizzazione del complessivo sistema di edifici deputati a raccogliere tutte le diverse funzioni di servizio per l'esposizione, dalla ristorazione agli spazi commerciali, dai servizi ai visitatori o alle imprese partecipanti alla sicurezza, dalla logistica ai magazzini e locali tecnici, con una superficie complessiva di 66.978 mq, per un importo a base d'asta superiore ai 67 milioni di euro).

A questa richiesta di risoluzione del contratto la società Expo 2015, con determinazione del 4 giugno 2014, ha risposto negati vamente, sostenendone l'insussistenza dei presupposti.
A questo punto, allora, le imprese seconde classificate hanno presentato ricorso dinnanzi al Tar Lombardia (sede di Milano), impugnando - si badi - non il diniego del 4 giugno 2014 ma i precedenti atti, risalenti a qualche mese addietro, relativi alla procedura di affidamento insieme all'aggiudicazione definitiva in favore della loro avversaria.
Ne è derivata, a opera di quest'ultima, una prima eccezione in rito relativa alla tardività del ricorso: eccezione, tuttavia, respinta dal Tar Lombardia, sulla scorta della tesi per cui, nella specie, il termine d'impugnazione dovesse considerarsi decorrente dalla data, successiva all'aggiudicazione e alla relativa comunicazione, in cui le imprese ricorrenti avevano acquisito conoscenza dei vizi che inficiavano la procedura selettiva, data coincidente con le sopravvenute notizie di cronaca in ordine alle indagini penali e alle misure cautelari eseguite per gravi reati commessi (anche) in occasione della gara di che trattasi.
Entrando quindi nel merito del ricorso, il Tar Lombardia lo ha accolto, annullando l'aggiudicazione dell'appalto in vista della risoluzione del contratto e del subentro delle imprese ricorrenti.

La decisione del Consiglio di Stato - Il verdetto di primo grado è completamente ribaltato in appello. I giudici della quarta sezione si richiamano infatti al consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, nelle controversie in materia di appalti, la conoscenza sopravvenuta di nuovi vizi non consente la riapertura del termine dimidiato (trenta giorni) per l'impugnazione del provvedimento di aggiudicazione, in quanto quel termine decorre dalla conoscenza degli elementi essenziali di tale atto (quali la sua esistenza, l'autorità emanante, il contenuto dispositivo e il suo effetto lesivo).
La conoscenza successiva di nuovi vizi, pertanto, potrebbe al limite giustificare la proposizione di motivi aggiunti, ossia in coda a un ricorso che sia comunque già stato presentato tempestivamente (in tal senso, tra le tante, Tar Lombardia, Milano, sezione I, n. 28 del 2011; Consiglio di Stato, sezione VI, n. 3690 del 2003).

L'impugnazione dell'aggiudicazione - L'aggiudicazione definitiva, in altre parole, costituisce il provvedimento immediatamente da impugnare, in quanto con esso termina il procedimento di scelta del contraente ed è direttamente lesivo degli interessi degli altri concorrenti non aggiudicatari: in tale quadro, si è quindi anche concluso che non è necessaria la compiuta conoscenza della motivazione dell'atto ai fini del decorso del termine di impugnativa, essendo ciò rilevante, eventualmente, ai fini della successiva proposizione di motivi aggiunti (in tal senso, Consiglio di Stato, sezione IV, n. 3298 del 2004).
Questo insegnamento, peraltro, si contrappone a quello, più risalente, e tuttora talvolta ripreso dalla giurisprudenza amministrativa (da ultimo, Tar Sicilia, Catania, sezione I, n. 1424 del 2014), secondo il quale «il termine di impugnazione di un provvedimento non può cominciare a decorrere se l'interessato non è a conoscenza anche della motivazione dello stesso, perché la piena conoscenza del provvedimento amministrativo non può essere legata alla semplice conoscenza del suo contenuto dispositivo sfavorevole, ma occorre anche la consapevolezza dei vizi da cui eventualmente l'atto è affetto, raggiunta solo mediante la valutazione della motivazione»: orientamento che risulta essere stato inaugurato dalla decisione n. 522 del 2007 del Consiglio di Stato, sezione V, con relativa nota critica della dottrina (Mattarella, «Il declino della motivazione», ivi, 617) in quanto - si è replicato - il provvedimento privo di motivazione è già di per sé affetto da un vizio di illegittimità evidente, che è la violazione dell'articolo 3 della legge n. 241 del 1990, sicché il destinatario lo deve da subito impugnare facendo valere tale illegittimità senza dover aspettare che la Pa gli comunichi, in un momento successivo, la motivazione.

Anche perché, si è aggiunto, diversamente ragionando si finirebbe con l'aggirare il termine di impugnazione (la cui ratio, come è noto, è quella di rendere certi i rapporti giuridici): cosa accadrebbe, infatti, se l'amministrazione comunicasse dopo mesi o anni la motivazione? Il termine per ricorrere potrebbe ugualmente considerarsi riaperto?

L'irrilevanza delle condotte illecite - Nel caso sottoposto all'odierna decisione del Consiglio di Stato, tuttavia, il vizio conosciuto successivamente non era la motivazione dell'aggiudicazione, ma coincideva con i comportamenti contra legem posti in atto dagli amministratori della società aggiudicataria (nonché della stazione appaltante) proprio al fine di ottenere fraudolentemente l'aggiudicazione: comportamenti, quindi, tenuti durante il procedimento a evidenza pubblica e astrattamente in grado, per la loro valenza penalmente rilevante, di comprometterne la legittimità.

Al riguardo, nella decisione in esame si evidenzia che i vizi di legittimità dell'atto amministrativo (attualmente declinati dall'articolo 21-octies, comma 1, della legge n. 241 del 1990, con la tradizionale tripartizione tra violazione di legge, eccesso di potere e incompetenza), per poter assumere rilievo ai fini della declaratoria giurisdizionale di annullamento, devono poter ricevere adeguata rappresentazione nell'atto, devono cioè essere evincibili dall'atto e non possono risultare, o essere percepibili, aliunde: non possono dunque assumere ex se rilievo, a tale fine, le eventuali condotte illecite poste in essere dai soggetti che abbiano operato per conto della Pa (nel caso: i funzionari corrotti della stazione appaltante).

Ciò in quanto - proseguono i giudici di Palazzo Spada - la natura del giudizio amministrativo di legittimità presuppone sempre l'accertamento di vizi che devono ricavarsi dai provvedimenti impugnati o dall'iter procedimentale che li ha preceduti; laddove invece il giudizio penale ha a oggetto l'accertamento di responsabilità individuali per fatti previsti dalla legge come reato e la cui commissione, come è noto, può determinare anche l'interruzione del rapporto di immedesimazione organica tra il pubblico ufficiale e la Pa presso cui presta servizio.

La decorrenza del termine per l'impugnazione - Ne consegue, secondo il Consiglio di Stato, che il termine di impugnativa, in materia di appalti, decorrerà sempre dalla comunicazione di avvenuta aggiudicazione prevista dall'articolo 79 del Dlgs n. 163 del 2006. Solo in mancanza di detta comunicazione la decorrenza scatterà da un momento diverso che coinciderà con l'effettiva conoscenza, aliunde ottenuta, del provvedimento sfavorevole. E in tale chiave deve quindi essere letto l'inciso di cui all'articolo 120, comma 5, del Cpa, a norma del quale il termine normalmente decorre dall'avvenuta comunicazione ex articolo 79, ovvero, «in ogni altro caso, dalla conoscenza dell'atto»: inciso che si riferisce, dunque, esclusivamente all'ipotesi in cui gli avvisi di cui all'articolo 79 siano stati omessi dalla stazione appaltante. Sulla questione, peraltro (come ricorda lo stesso Consiglio di Stato), è attualmente pendente apposito giudizio di rinvio dinnanzi alla Corte di giustizia Ue (sollevato dal Tar Puglia, Bari, sezione I, con ordinanza n. 427 del 2013).

L'indagine di merito per orientare i risarcimenti - Risolta così la questione, con conseguente accoglimento dell'appello e riforma in rito della sentenza appellata, i giudici della quarta sezione si preoccupano, nondimeno, di scrutinare brevemente nel merito la controversia, al fine di «orientare le successive determinazioni giudiziali» che dovranno intervenire sull'aspetto risarcitorio (è infatti ancora pendente, in primo grado, il giudizio sul risarcimento del danno da mancata aggiudicazione, lamentato dalle stesse parti qui appellate).

L'occasione è preziosa per richiamare le importanti innovazioni che, in materia di prevenzione della corruzione negli appalti, sono state dettate lo scorso giugno con l'articolo 32 del decreto legge n. 90 del 2014, convertito dalla legge n. 114 del 2014.
In proposito il Consiglio di Stato ricorda che, con la normativa in questione, il legislatore d'urgenza, nel sopperire alla precedente mancanza di previsioni normative, ha d'imperio effettuato - una volta per tutte - il delicato bilanciamento tra l'interesse pubblico all'esecuzione di opere considerate urgenti e l'interesse privato delle imprese partecipanti a una gara, ma non vincitrici, di subentrare nel contratto, laddove però (si badi bene) non si configurino (ancora) vizi o vicende tali da indurre a un annullamento dell'aggiudicazione o della gara. E tale bilanciamento - ci si passi il bisticcio - è invero del tutto sbilanciato a favore della prima delle due istanze posto che, come evidenzia la sentenza qui in epigrafe, l'interesse delle imprese non aggiudicatarie (ma potenzialmente vincitrici, nel merito, in un'eventuale impugnazione giurisdizionale) è sempre considerato recessivo rispetto alla realizzazione dell'opera pubblica.
E invero, pur nel lodevole intento di sottrarre comunque all'imprenditore che abbia truccato le carte i proventi derivanti dall'aggiudicazione dell'appalto (mediante l'affidamento delle opere, o del loro completamento, a un commissario nominato dal prefetto) l'articolo 32 finisce con il sottrarre l'esecuzione delle opere a coloro che avevano correttamente e lealmente partecipato alla gara e che l'avrebbero anche vinta, se non ci fossero stati gli illeciti o le scorrettezze dell'aggiudicataria (o, ancor peggio, della stazione appaltante).

Le osservazioni conclusive - Di questo la sentenza in epigrafe dà onestamente atto, laddove riconosce che, «piaccia o no», il legislatore del 2014 ha bilanciato unicamente i due interessi pubblici alla sollecita realizzazione dell'opera e a impedire al possibile reo di lucrare sul proprio illecito, lasciando totalmente sullo sfondo l'interesse delle altre imprese partecipanti alla gara.
Questo risultato rappresenta, attualmente, l'approdo della legislazione italiana nel tentativo di salvare le opere pubbliche urgenti e indifferibili: prevale l'interesse alla realizzazione dell'opera, anche allorché sussistano dubbi (sub specie di imputazioni penali pendenti) in ordine alla legittimità degli affidamenti. Ed è un approdo che, in base al sentire comune, dovrebbe essere esteso anche all'ipotesi più estrema, ossia allorché ai dubbi seguissero le certezze (sub specie di accertamento giurisdizionale) in ordine alla commissione di illeciti e/o di illegittimità nell'affidamento dell'appalto: che poi è quanto già è previsto dalla legge con riguardo alla realizzazione delle infrastrutture strategiche, laddove si ammette che, in determinati casi, l'annullamento dell'aggiudicazione illegittima non comporta la caducazione del contratto già stipulato.

A ben vedere, è lo stesso ragionamento di fondo che, decenni fa, aveva sorretto la famosa sentenza delle sezioni Unite sull'accessione invertita. Non si può perdere un'opera pubblica solo perché è stata illecitamente edificata su un suolo di proprietà privata, ma deve essere la proprietà privata a soccombere, salvo il risarcimento del danno - si disse all'epoca. E sappiamo che fine abbia fatto questo ragionamento, travolto dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Adesso, mutatis mutandis, si dice (o si vorrebbe dire) più o meno la stessa cosa: non si può perdere (recte: ritardare) un'opera pubblica solo perché la gara è stata affidata in modo illegittimo o addirittura illecito, anche a costo di non aggiudicare l'appalto all'impresa che ha concorso lealmente, salvo il risarcimento del danno. E vedremo, allora, che fine farà questo ragionamento se mai, un giorno, verrà sottoposto allo scrutinio delle istanze giurisdizionali europee.

Consiglio di Stato - Sezione IV - Decisione 20 gennaio 2015 n. 143

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