Civile

Discriminatorio affermare che “i Rom sono la feccia della società”

Francesco Machina Grifeo

È discriminatorio affermare che «i Rom sono la feccia della società». Lo ha stabilito la I Sezione civile del tribunale di Milano, ordinanza 19 aprile 2016, condannando Gianluca Bonanno, europarlamentare della Lega Nord, a risarcire 6 mila euro a ciascuna delle due associazioni – Asgi e Naga - che hanno agito a tutela dell'etnia offesa. Per il giudice Anna Cattaneo, infatti, la frase gravemente offensiva, ripetuta per ben quattro volte durante la trasmissione televisiva “Piazzapulita” in onda sulla rete “La7”, non poteva considerarsi espressa nell'esercizio delle funzioni di parlamentare avendo come «unica finalità la denigrazione e l'offesa».

In primis il tribunale affronta la questione della legittimazione ad agire, escludendo dal procedimento una signora di etnia rom che si riteneva offesa personalmente dalla affermazioni diffamatorie e discriminatorie del politico. Per il giudice, però, l'affermazione non poteva ritenersi riferita «immediatamente nei confronti della ricorrente» ma era rivolta «genericamente alla collettività rom e costituisce pertanto un'ipotesi di discriminazione collettiva», ai sensi dell'articolo 5 comma 3, del Dlgs 215/2003. In queste ipotesi, prosegue il testo, «la legittimazione ad agire nell'interesse della collettività rom non spetta a qualsiasi soggetto appartenente a tale categoria, bensì è rimessa dalla legge alle associazioni o agli enti individuati sulla base delle finalità programmatiche perseguite ed inseriti in un apposito elenco approvato con decreto Ministeriale». Ciò che ha comportato il riconoscimento della legittimazione per l'Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione (Asgi) e l'Associazione Volontaria di Assistenza Socio-sanitaria e per i Diritti di Cittadini Stranieri, Rom e Sinti (Naga).

Riguardo poi alla questione dell'immunità, pure sostenuta dal parlamentare, il tribunale ha affermato che secondo la giurisprudenza della Corte Ue «l'opinione deve essere stata espressa “nell'esercizio delle funzioni”, ciò che presuppone necessariamente l'esistenza di un nesso tra l'opinione formulata e le funzioni parlamentari». Non solo, la Cassazione ha chiarito che il nesso funzionale non possa riconoscersi quando, come nel caso di specie, «le parole utilizzate non siano espressione di opinioni politiche, seppur manifestate con toni aspri e duramente critici, ma abbiano come unica finalità la denigrazione e l'offesa, dovendosi certamente ritenere che l'uso del turpiloquio trascenda in ogni caso dai contenuti riconducibili all'attività parlamentare (Cassazione n. 35523/2007; Corte costituzionale n. 249/2006 che ha chiarito che “l'uso del turpiloquio non fa parte del modo di essere delle funzioni parlamentari”).

Arrivando al merito, la domanda è fondata in quanto l'utilizzo del termine «feccia» è «offensiva e umiliante, poiché il paragone con un elemento spregevole quale la “feccia” è tale da mortificare, e dunque offendere, la dignità dell'etnia rom; in secondo luogo, tale affermazione è idonea a creare un clima ostile e intimidatorio nei confronti della collettività rom, veicolando l'idea negativa che tale collettività costituisca la “parte peggiore della società” e che, in quanto tale, rappresenti una minaccia per la società medesima». Infine, «gettando discredito sul popolo rom, è idonea a ingenerare infondate distinzioni su base sociale del tutto estranee e contrarie ai precetti della Carta costituzionale». Né può giustificarsi l'utilizzo dell'espressione con «l'atmosfera surriscaldata» della trasmissione, che anzi ne costituisce una conseguenza, considerato anche che il politico chiamato dal conduttore a scusarsi ha declinato l'invito.

Il giudice dunque ha condannato l'eurodeputato a pubblicare, a sue spese, intestazione e dispositivo dell'ordinanza sul “Corriere della Sera” ed a risarcire a titolo di danno non patrimoniale - «per aver visto frustrato l'oggetto della propria attività e le finalità perseguite» - con 6mila euro ciascuna delle due associazioni. Nella quantificazione, conclude il provvedimento, si è tenuto conto «dell'elevato contenuto discriminatorio delle affermazioni, della loro portata diffamatoria e denigratoria, della reiterazione per ben quattro volte della frase offensiva, del fatto che le offese sono state pronunciate nel corso di una trasmissione televisiva in onda su di una importante emittente televisiva, con un buon indice di ascolto (4-5% di share ) in prima serata».

Tribunale di Milano - Ordinanza 19 aprile 2016

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©