Civile

Confermati i principi cardine sulla responsabilità

di Francesco Graziano

Con ordinanza n. 5056 del 2014, in considerazione di un evidente contrasto giurisprudenziale di legittimità, la questione della risarcibilità del danno tanatologico, inteso come danno da perdita della vita che segua in maniera immediata alla verificazione delle lesioni prodotte dall'illecito civile (ovvero dopo un brevissimo periodo di tempo), è stata rimessa alle sezioni Unite della Cassazione. Più esattamente, al vaglio del supremo organo di nomofilachia sono state sottoposte tutte le questioni trattate nella sentenza n. 1361 del 23 gennaio 2014 e, cioè, i presupposti necessari per la risarcibilità iure haereditario del danno biologico terminale e del danno catastrofale, con particolare riferimento alla durata del lasso di tempo intercorrente tra la lesione e la morte, alla necessità o meno della lucida agonia della vittima in consapevole attesa della morte, nonché del danno da perdita della vita allorquando il decesso sia immediata conseguenza delle lesioni, ovvero si verifichi, come già detto, dopo un breve lasso temporale da queste ultime.

L'ordinanza interlocutoria n. 5056 del 4 marzo 2014 - Sulla scia di quanto asserito fin dalla sentenza delle sezioni Unite n. 3475 del 22 dicembre 1925 e da molte altre successive, la terza sezione civile della Suprema corte aveva più volte ribadito «il principio di diritto della irrisarcibilità per via ereditaria del danno da morte immediata», già, peraltro, individuato dalla Corte costituzionale a fondamento della sua sentenza n. 372 del 1994. Quindi, l'ordinanza di rimessione ha sottolineato come la citata sentenza n. 1361 del 2014 fosse pervenuta a una conclusione contrastante con l'indirizzo giurisprudenziale assolutamente predominante, sulla premessa secondo cui «la perdita della vita non può lasciarsi, invero, priva di tutela (anche) civilistica», poiché «l diritto alla vita è altro e diverso dal diritto alla salute», così che la sua risarcibilità avrebbe dovuto «costituire realtà ontologica e imprescindibile eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni conseguenza».

Il collegio rimettente, anche in ragione della particolare importanza della questione, ha ritenuto, perciò, di dover investire le sezioni Unite del contrasto, delineatosi «sul tema del diritto della risarcibilità iure hereditatis del danno da morte immediata».

In particolare, l'ordinanza di cui si tratta ha evidenziato come la questione fosse stata già esaminata da Cassazione 11 novembre 2008 n. 26972 la quale aveva affermato, tra l'altro, che, per costante giurisprudenza di legittimità (Cassazione 25 febbraio 1997 n. 1704, 20 gennaio 1999 n. 491, 29 novembre 1999 n. 13336, 25 gennaio 2002 n. 887 e 13 gennaio 2006 n. 517) e alla quale non poteva non darsi seguito in ragione della mancata emersione di valide argomentazioni di dissenso, era da escludersi il risarcimento del danno biologico da perdita della vita nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo.
Del resto, occorre rammentare come le cosiddette “sentenze di S. Martino” avessero sostanzialmente confermato la distinzione tra danno catastrofale (o danno morale terminale, o danno da lucida agonia) - suscettibile di essere riconosciuto in base alla morte intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo - e danno biologico terminale, che si verifica solo se la vittima dell'illecito sia rimasta in vita per un apprezzabile periodo di tempo. Anzi, in tali pronunce, il danno catastrofale era stato indicato come uno strumento attraverso il quale il giudice del merito poteva ovviare al “vuoto di tutela” determinato dal consolidato orientamento giurisprudenziale che non ammetteva la risarcibilità del danno da perdita della vita nelle ipotesi di morte immediata o intervenuta a breve distanza di tempo dalle lesioni. Al riguardo, infatti, le sezioni Unite del 2008 avevano chiarito che: «il giudice potrà correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine. Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita (sentenza 1704/97 e successive conformi), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura (sentenza 6404/98 e successive conformi). Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione».

L'intervento delle sezioni Unite - La motivazione della pronuncia in esame è essenzialmente incentrata sulla confutazione degli argomenti sviluppati dalla sentenza n. 1361 del 2014 a sostegno della risarcibilità del danno da perdita della vita e a seguito dei quali era insorto il contrasto nella giurisprudenza di legittimità.

Le sezioni Unite premettono, anzitutto, come non rientrino nell'ambito del thema decidendum le «questioni relative al risarcimento dei danni derivanti dalla morte che segua dopo un apprezzabile lasso di tempo alle lesioni». E ciò in quanto, in ordine a tali questioni, non si registra alcun contrasto, nell'ambito della giurisprudenza di legittimità, che riconosce, in maniera sostanzialmente pacifica, il diritto iure haereditatis al risarcimento dei danni che abbiano a verificarsi durante il periodo temporale che intercorre tra il momento in cui, alla vittima dell'illecito, vengano inferte le lesioni e il momento della morte che, a tali lesioni, consegua. Tale diritto, infatti, «si acquisisce al patrimonio del danneggiato e quindi è suscettibile di trasmissione agli eredi».

In secondo luogo, dunque, la sentenza in commento passa a confermare la distinzione - di cui si è già sopra ampiamente detto - tra il «danno biologico terminale» e il «danno catastrofale», non senza evidenziare, peraltro, come, in base ad alcune pronunce di legittimità, quest'ultimo abbia natura di danno morale soggettivo, mentre, alla stregua di altri arresti (anche essi specificamente indicati), al predetto debba essere riconosciuta natura di danno biologico di tipo psichico.

Le sezioni Unite, quindi, affermano di voler ribadire l'orientamento secondo cui, in caso di morte immediata, ovvero che segua entro un brevissimo lasso temporale alle lesioni inferte alla vittima dell'illecito, non è possibile invocare un diritto al risarcimento del danno iure haereditatis . Proseguono, evidenziando come tale irrisarcibilità fosse stata già affermata da Cassazione 22 dicembre 1925 n. 3475 (già sopra richiamata), trovando, poi, conferma nella sentenza della Corte costituzionale 27 ottobre 1994 n. 372, nonché nella sentenza delle sezioni Unite n. 26972 dell'11 novembre 2008 e nella successiva giurisprudenza di legittimità. Chiariscono, infine, come, in realtà, non siano stati ancora sviluppati argomenti valevoli a giustificare il superamento di detta irrisarcibilità.

La sentenza passa, quindi, a esaminare - con espressa finalità di confutazione - le motivazioni addotte da Cassazione 23 gennaio 2014 n. 1361 a sostegno dell'affermata risarcibilità iure haereditario del danno da perdita della vita nell'ipotesi di morte immediata ovvero che segua, dopo un brevissimo lasso temporale, alle lesioni subite dalla vittima dell'illecito.

Fondamentale, ad avviso di chi scrive, è, al fine di ben comprendere i postulati di partenza del ragionamento seguito dalle sezioni Unite, il seguente passaggio motivazionale: «l'attuale impostazione, sia dottrinaria che giurisprudenziale, (che nelle sue manifestazioni più avanzate concepisce l'area della responsabilità civile come sistema di responsabilità sempre più spesso oggettiva, diretto a realizzare una tecnica di allocazione dei danni secondo i principi della teoria dell'analisi economica del diritto) evidenzia come risulti primaria l'esigenza (oltre che consolatoria) di riparazione (e redistribuzione tra i consociati, in attuazione del principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost.) dei pregiudizi delle vittime di atti illeciti, con la conseguenza che il momento centrale del sistema della responsabilità civile è rappresentato dal danno, inteso come «perdita cagionata da una lesione di una situazione giuridica soggettiva» (Corte costituzionale n. 372 del 1994).
E poiché una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, è necessario che sia rapportata a un soggetto legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l'irrisarcibilità deriva (non dalla natura personalissima del diritto leso, come ritenuto da Cass. n. 6938 del 1998, poiché, come esattamente rilevato dalla sentenza n. 4991 del 1996, ciò di cui si discute è il credito risarcitorio, certamente trasmissibile, ma) dall'assenza di un soggetto al quale sia collegabile, nel momento in cui si verifica, la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito, ovvero dalla mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo (Cass. n. 4991 del 1996)».

In particolare, con un riferimento di tipo filosofico-letterario, l'estensore della sentenza pone in rilievo altresì come la seconda affermazione sopra riportata (cioè quella delle necessaria esistenza di un soggetto legittimato a far valere il credito risarcitorio) sia stata definita, dalla dottrina civilistica, come argomento “epicureo”, poiché essa appare riecheggiare le considerazioni sviluppate, con riguardo alla morte, dal filosofo Epicuro nella Lettera sulla felicità a Meneceo («Quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è la morte, quando c'è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c'è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci»).

La tesi del contrasto con la coscienza sociale - sostenuta nella motivazione della sentenza 23 gennaio 2014 n. 1361 - viene, poi, confutata dalle sezioni Unite, osservando che:
1) il criterio della rispondenza alla coscienza sociale in un determinato momento storico, pur potendo assumere rilevanza sul piano assiologico (cioè dei valori da perseguire) e, dunque, delle modificazioni normative auspicabili de iure condendo, certamente n on costituisce un parametro valevole a guidare l'attività dell'interprete del diritto positivo;
2) la morte di un soggetto rimasto vittima di un illecito civile determina una perdita, di tipo patrimoniale e non patrimoniale, a carico dei congiunti che devono, pertanto, di tale perdita essere risarciti, mentre non risultano comprensibili (anche perché non sufficientemente esplicitate da Cassazione 23 gennaio 2014 n. 1361) le ragioni per le quali la coscienza sociale sarebbe pienamente soddisfatta solo qualora tale risarcimento, oltre che ai congiunti della vittima dell'illecito, per le perdite subite iure proprio, fosse riconosciuto anche agli eredi di quest'ultima e, quindi, in ultima analisi (cioè in mancanza di successibili entro il sesto grado), allo Stato (articolo 586 del Cc).

Del resto - prosegue la sentenza - se è certamente vero che la vita rappresenta, nel nostro ordinamento giuridico, un bene meritevole di tutela nell'interesse della collettività, risulta nondimeno altrettanto innegabile come tale affermazione comporti la necessità della previsione di una sanzione penale, la cui funzione è proprio «quella di soddisfare esigenze punitive e di prevenzione generale della collettività nel suo complesso», senza escludere il diritto ex articolo 185, comma 2, del Cp al risarcimento dei danni in favore dei soggetti direttamente danneggiati dalla commissione del reato, ma senza imporre necessariamente anche il riconoscimento della tutela risarcitoria dell'interesse collettivo di cui si tratta.
Ancora, l'argomento secondo cui «è più conveniente uccidere che ferire» viene liquidato dalle sezioni Unite in poche righe, evidenziando come risulti del tutto indimostrato che «la sola esclusione del credito risarcitorio trasmissibile agli eredi comporti necessariamente una liquidazione dei danni spettanti ai congiunti di entità inferiore».

D'altronde (e anche tale rilievo non sfugge all'attenzione delle sezioni Unite), la giurisprudenza del giudice delle leggi ha più volte chiarito come il principio dell'integrale risarcibilità dei danni non risulti fornito, nell'ambito del nostro ordinamento giuridico, di copertura costituzionale (in tal senso, Corte costituzionale 30 aprile 1999 n. 148), cosicché l'esclusione della risarcibilità del danno da perdita della vita, in quanto scaturente, come già detto, dalla stessa struttura della responsabilità civile - che richiede, ai fini dell'affermazione della sussistenza di un credito risarcitorio, l'emersione di una perdita suscettibile di essere ricollegata all'esistenza di un soggetto a carico del quale tale perdita si sia prodotta - non può ritenersi incompatibile con il suddetto principio.

Da ultimo, la pronuncia in esame si occupa di confutare le affermazioni - anche esse contenute e sviluppate nella motivazione della sentenza 23 gennaio 2014 n. 1361 - secondo cui il credito risarcitorio per la perdita della vita verrebbe acquistato, dalla vittima dell'atto illecito, in maniera istantanea al momento del verificarsi dell'evento lesivo (che, secondo la Corte, «salvo rare eccezioni, precede sempre cronologicamente la morte cerebrale») e costituirebbe altresì un'eccezione al principio della risarcibilità del solo danno conseguenza. In tale ottica di confutazione, dunque, si evidenzia come, da un lato, la suddetta eccezione sarebbe di tale portata da porre in crisi l'attendibilità stessa della regola generale (stante l'evidente contrasto con il sistema della responsabilità civile, basato, come già detto, sulla necessità del verificarsi di una perdita suscettibile di essere ricollegata a un soggetto), e, dall'altro, come «l'anticipazione del momento di nascita del credito risarcitorio al momento della lesione verrebbe a mettere nel nulla la distinzione tra il bene salute e il bene vita sulla quale concordano sia la prevalente dottrina che la giurisprudenza costituzionale e di legittimità». Del resto, la distinzione appena menzionata risultava essere stata accolta dalla stessa sentenza n. 1361 del 2014, nella parte in cui aveva chiarito che «il danno da perdita della vita è altro e diverso, in ragione del diverso bene tutelato, dal danno alla salute, e si differenzia dal danno biologico terminale e dal danno morale terminale (o catastrofale o catastrofico) della vittima, rilevando ex se nella sua oggettività di perdita del principale bene dell'uomo costituito dalla vita, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia».

Considerazioni conclusive - La sentenza in commento con ferma quelli che sono i principi cardine del sistema della responsabilità civile: il danno è una conseguenza della lesione del bene giuridico tutelato e non la lesione stessa.

Peraltro, la sentenza non si sofferma, in modo alcuno, sull'argomento, pure desumibile dalla trama argomentativa dalla sentenza 1361/2014 e secondo cui il principio della risarcibilità del solo danno conseguenza avrebbe dato luogo a evidenti aporie di sistema, come, ad esempio, nell'ipotesi di danno biologico, ritenuto, dalla giurisprudenza di legittimità, risarcibile in re ipsa e, cioè, per il solo fatto dell'avvenuta lesione del diritto alla salute. Tale affermazione, del resto, risultava pienamente condivisa dalla dottrina civilistica mostratasi favorevole al revirement scaturito dalla “sentenza Scarano”, la quale dottrina aveva, infatti, già da tempo stigmatizzato le conclusioni raggiunte dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, poiché - sosteneva - quest'ultima ammetteva il risarcimento del danno biologico, per il solo verificarsi della lesione della salute e, dunque, indipendentemente dalle conseguenze che ne derivano a carico della vittima della stessa.

In realtà, anche se la sentenza in commento non ne fa menzione, la giurisprudenza di legittimità della terza sezione civile della Suprema corte aveva, a ben vedere, già ampiamente sviluppato gli “anticorpi” nei confronti di tale tendenza allo spostamento del baricentro della risarcibilità del danno biologico sul piano della lesione del diritto alla salute (piuttosto che sulle conseguenze pregiudizievoli che ne derivano a carico del soggetto inciso) e lo aveva dimostrato, in particolare, con la sentenza 20 novembre 2012 n. 20292 nella quale, infatti, era stato chiarito che «un danno biologico propriamente considerato - un danno, cioè, considerato non sotto il profilo eventista, ma consequenzialista - non sarebbe legittimamente configurabile (sul piano risarcitorio, non ontologico) tutte le volte che la lesione (danno evento) non abbia procurato conseguenze dannose risarcibili al soggetto: la rottura, da parte di un terzo, di un dente destinato di lì a poco a essere estirpato dal (costoso) dentista è certamente una «lesione medicalmente accertabile», ma, sussunta nella sfera del rilevante giuridico (id est, del rilevante risarcitorio), non è (non dovrebbe) essere anche lesione risarcibile, poiché nessuna conseguenza dannosa (anzi..), sul piano della salute, appare nella specie legittimamente predicabile (la medesima considerazione potrebbe svolgersi nel caso di frattura di un arto destinato a essere frantumato nel medesimo modo dal medico ortopedico nell'ambito di una specifica terapia ossea che attende di lì a poco il danneggiato)».

Da ultimo, è appena il caso di evidenziare come, secondo quanto recentemente chiarito da attenta dottrina, alcuna rilevanza possa essere attribuita, ai fini della risarcibilità del danno da perdita della vita, al disposto dell'articolo 2 della Carta di Nizza, contenuta nel Trattato di Lisbona (ratificato dall'Italia mediante la legge 2 agosto 2008 n. 190) e che solennemente afferma: «ogni individuo ha diritto alla vita». Se è certamente vero, infatti, che il diritto alla vita è munito di copertura costituzionale e anche sovranazionale, risulta nondimeno altrettanto innegabile che «nell'ipotesi di lesione del diritto alla vita, le nostre Carte costituzionali non prendono posizione su quali siano i soggetti legittimati (attivi e passivi) nel successivo giudizio avente a oggetto il risarcimento del danno consequenziale; in altre parole lasciano al diritto interno dei singoli Stati stabilire i presupposti e i criteri di risarcimento del danno da morte, in favore degli eredi e/o dei prossimi congiunti. Non è dunque in discussione la (pacifica) sussistenza del diritto alla vita e la tutela dell'individuo per preservare questo diritto, bensì (e innanzitutto) su quale soggetto nasca il diritto al risarcimento del danno allorché vi sia stata la lesione (soppressione) del diritto alla vita!» (Spera).

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