Civile

Veicoli rimossi, niente compenso al custode senza contratto scritto

di Maurizio Caprino

L’operatore privato che custodisce veicoli fatti rimuovere (senza essere sequestrati) da un ente pubblico proprietario di strade non ha diritto a un compenso se non ha con questo ente un contratto scritto. Lo ha chiarito la Cassazione in due sentenze della Seconda sezione civile depositate negli ultimi giorni (la 21660 del 23 agosto e la 21710 del 26 agosto), che chiudono altrettante analoghe controversie di due operatori di rimozione e custodia con il Comune di Terni.

Controversie di questo genere sono tutt’altro che rare: i veicoli affidati in custodia sono molti e le pubbliche amministrazioni non hanno risorse per pagare (o anche solo anticipare, se poi riesce a rivalersi sul trasgressore o sul proprietario del mezzo) le spese relative. Così ci sono stati vari interventi normativi per limitare o evitare gli esborsi (lasciando nel maggior numero possibile di casi che il mezzo venisse affidato al suo stesso proprietario o prevedendo che il custode divenisse automaticamente acquirente del veicolo, per poterlo vendere sul mercato e realizzare qualcosa).

Ma il meccanismo del custode-acquirente, introdotto nel Codice della strada nel 2003 con l’articolo 214-bis (e nel suo Regolamento di esecuzione, nell’articolo 394) e più volte modificato, ha sempre generato contenzioso. Inoltre, vale per veicoli sottoposti a fermo amministrativo, sequestro o confisca.

Nei casi decisi dalla Cassazione, invece, si trattava di veicoli rimossi per motivi diversi da quelli che fanno scattare questa misura cautelare. Di qui l’importanza delle sentenze 21660 e 21710.

I ricorsi degli operatori facevano leva soprattutto sul fatto che tra le parti ci fosse un contratto di deposito tacito «perfezionatosi per fatti concludenti», che nasceva dall’obbligo del Comune (in quanto ente proprietario) di mantenere le proprie strade in stato di pulizia e sicurezza. L’obbligo è previsto dall’articolo 14 del Codice della strada e la Cassazione conferma l’interpretazione secondo cui anche la rimozione rientra fra gli obblighi dell’ente. Ma ciò non basta a far ritenere fondate le pretese delle aziende.

Infatti, non si può «prescindere dalla valida assunzione di un’obbligazione contratta in conformità delle regole che presiedono all’attività negoziale» della pubblica amministrazione. È un principio già stabilito dalla Cassazione (sentenze 5766/2016 e 9751/2011) nel caso dei veicoli rimossi per sosta vietata e che ora la Seconda sezione civile intende seguire anche per i mezzi rimossi per altri motivi che anch’essi non danno luogo a fermi amministrativi o sequestri.

Le regole sono state fissate dall’interpretazione data dalla Corte varie volte agli articoli 16 e 17 del regio decreto 2440/1923: la decisione di contrarre deve venire dall’organo che ha la legale rappresentanza dell’ente e la forma deve essere scritta. Invece la sentenza d’appello, che aveva dato torto al Comune, si era soffermata solo sul fatto che l’amministrazione non aveva formalizzato un impegno di spesa per rimozione e custodia dei veicoli.

La sentenza di appello aveva tralasciato tutto il resto, considerando che le rimozioni erano state effettuate per motivi urgenti. Ma la Cassazione ricorda che in questi casi i lavori ordinati con somma urgenza vanno poi regolarizzati entro 30 giorni.

Né si può argomentare - come fatto nei ricorsi delle aziende - che si tratta di debiti fuori bilancio perché relativi ad attività doverose come la rimozione dei veicoli che creano intralcio o pericolo sulla strada: la Cassazione ricorda la propria giurisprudenza (sentenza 1510/2015) secondo cui il riconoscimento di tali debiti è un’attività discrezionale che «non introduce una sanatoria per o contratti nulli o, comunque, invalidi».

Corte di cassazione, sentenza 23 agosto 2019, n. 21660

Corte di cassazione, sentenza 26 agosto 2019, n. 21710

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