Civile

Acqua pubblica, spetta al gestore risarcire il Comune per la mancata fornitura

di Daniela Casciola

Ricade sul gestore dell'acquedotto il risarcimento de i danni per la mancata fornitura di acqua potabile, anche se dovuta all'inquinamento prodotto da insediamenti industriali. Il contratto di servizio lo impegna alla somministrazione dell'acqua e a cercare fonti di approvvigionamento alternative in caso di emergenza. È questo il principio fissato dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 2182/2016, depositata ieri.

La vicenda - Nel caso esaminato dalla Corte, spetta all'ente acquedotti siciliani (Eas) risarcire il danno legato alla mancata fornitura di acqua potabile nel periodo in cui il comune di Gela aveva ordinato alla cittadinanza di astenersi dall'uso dell'acqua «in quanto i parametri chimici e i caratteri organolettici erano difformi da quelli previsti dalla legge».
Il danno era già stato quantificato dal giudice di pace di Gela, nel settembre 2004.
Senza successo, l'Eas ha contestato la sentenza con la quale il Tribunale di Gela, nel luglio del 2007, confermando la decisione emessa dal Giudice di pace nel settembre 2004, aveva condannato l'ente a risarcire per una somma pari a 853 euro. L'ex gestore dell'acquedotto aveva declinato la colpa del disservizio addebitandola all'attività del polo petrolchimico di Gela.

La decisione - La Cassazione mette in evidenza, innazitutto, l'estraneità della raffineria al contratto di somministrazione e, quindi l'impossibilità di essere coinvolta nella responsabilità dell'accaduto.
Fondamentale è poi il principio secondo cui, «ai sensi dell'articolo 1218 del codice civile, il debitore, in quanto tenuto a dimostrare di non aver potuto adempiere la prestazione dovuta per causa a lui non imputabile, non può limitarsi a eccepire la semplice difficoltà della prestazione dovuta o il fatto ostativo del terzo, ma deve provare di aver impiegato la necessaria diligenza per rimuovere gli ostacoli frapposti all'esatto adempimento».
L'Eas, hanno proseguito i giudici, non ha minimamente dimostrato di essersi adoperata in alcuna «attività doverosamente diligente per superare le difficoltà, così come non è stata neppure dedotta l'oggettiva impossibilità di ricorrere ad approvvigionamenti alternativi per eseguire le prestazioni dovute».
Alla stessa maniera non è stata accolta l'obiezione dell'ente circa il fatto che la raffineria avrebbe dovuto «captare l'acqua marina e procedere alla sua dissalazione», mentre all'ente spettava il compito «di miscelare l'acqua, una volta dissalata, in modo da renderla potabile». Un'obiezione alla quale i supremi giudici hanno ribattuto che «non risulta che il contratto di somministrazione prevedesse esclusivamente la fornitura di acqua dissalata»

Corte di Cassazione – Sezione I civile – Sentenza 4 febbraio 2016 n. 2182

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