Civile

Mps, ok sanzioni Consob per conflitto di interesse in bond "Casaforte"

Francesco Machina Grifeo

La Cassazione, con una serie di sentenze, certifica il conflitto di interessi della Banca Monte Paschi di Siena nell'operazione "Casaforte". Fu la prima cartolarizzazione collocata ai piccoli risparmiatori (per un totale di 1,5mld di euro), portata avanti dalla banca nel tentativo di risollevarne i ratios patrimoniali dopo l'acquisto di Antonveneta. L'operazione denominata «Chianti classico» prevedeva la dismissione di 683 filiali del Gruppo a un veicolo consortile (Perimetro) grazie a un finanziamento della Banca stessa. Mps poi cedette pro soluto alla società veicolo Casaforte i crediti derivanti da quel finanziamento. Con le sentenze da 16322 a 16326, dunque, la Cassazione ha respinto i ricorsi di Giancarlo Pompei, Federico Vitto e Giovanni Conti, tutti nel Comitato Finanza della Banca (Conti, responsabile anche dell'Area management risk) contro le sanzioni (3mila euro ciascuno, Conti 10.500 euro), irrogate da Consob e confermate in appello, per violazione delle procedure di pricing. Ma ha anche bocciato il ricorso di Lorenzo Gorgoni, sanzionato nel 2014 per 150mila euro dalla Consob, perché nella sua qualità di componente del Cda di Mps aveva violato le disposizioni del Tuf relative agli intermediari.

In particolare, nel collocamento sul mercato primario dei titoli Casaforte e nella successiva negoziazione sul mercato secondario, la Banca aveva «omesso di identificare e gestire adeguatamente i conflitti di interesse che, già insiti nell'operazione, hanno assunto rilevanza e dimensioni ancora maggiori a causa di specifiche iniziative commerciali e di pressioni nella rete distributiva».

Un conflitto di interesse che, secondo la Corte di appello di Firenze che aveva già rigettato l'opposizione di Gorgoni, sussisteva «in ragione della contrapposizione tra l'impegno incondizionato al riacquisto dei titoli assunto dalla Banca e l'interesse della stessa a che i sottoscrittori non si avvalessero della facoltà di disinvestimento, tenuto conto che l'istituto aveva necessità di non superare il limite di detenibilità dei titoli del 10% e che a tal fine aveva stipulato con la Banca IMI un accordo di riacquisto in caso di superamento della soglia del 9% a condizioni particolarmente onerose». Tale conflitto non era stato «portato a conoscenza della clientela» mentre «risultava provata l'adozione di una serie di iniziative aventi lo scopo di disincentivare la vendita dei titoli», essendo stati fissati target precisi per ciascuna filiale. Iniziative, prosegue la decisione, «idonee ad impedire agli operatori di agire in modo indipendente senza pregiudizio per i clienti».

Tornando invece al primo gruppo di manager, la Cassazione ha confermato la sanzione perché la banca «non si era dotata di una procedura per il pricing dei prodotti emessi dal gruppo oggettiva, coerente e stabile nel tempo, concedendo così alle strutture deputate ampi margini di discrezionalità nella scelta delle metodologie da utilizzare e creando i presupposti per la realizzazione di condotte non corrette, favorite dall'assenza dei necessari vincoli e di idonei presidi di controllo». In tutti i casi infatti la Banca aveva adottato modifiche della «profilatura dei prodotti e dei clienti» che «non corrispondevano a protocolli generali e obiettivi, ma avevano carattere discrezionale e strumentale al solo fine di agevolare la collocazione dei titoli sul mercato».

In particolare, la Banca aveva adottato una nuova metodologia con l'effetto di «ridurre il livello di rischio associato ai prodotti della banca e quindi di allargare la platea dei clienti potenzialmente adeguati all'acquisto». I titoli erano così stati classificati in classi inferiori a F4 «a fronte di un profilo assegnato dalla procedura formalmente vigente pari a F4-F5». Al punto che nel maggio 2012 «il 98% dei titoli avrebbe dovuto essere classificato nelle classi F4-F5 mentre, per via delle suddette modifiche, l'88% era stato mantenuto nelle classi F1-F2». (Leandro Polidori, Responsabile compliance, condannato a 90 mila euro, ha invece rinunciato al ricorso).

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