Società

La linea sottile fra la discrezionalità nelle scelte imprenditoriali e i doveri fiduciari degli amministratori

La business judgement rule si basa sulla concezione, prettamente anglosassone, secondo cui il rapporto tra amministratori e soci di una società si fonda essenzialmente sui concetti di trust e di agency

di Gabriella Opromolla *

L'equilibrio che sta a base del buon funzionamento di una impresa deriva dal bilanciamento fra la discrezionalità concessa al management e il controllo dell'operato degli amministratori da parte degli azionisti.

Da una parte, gli azionisti devono necessariamente delegare le decisioni imprenditoriali a soggetti che posseggono maggiori competenze e professionalità nella gestione di una impresa e che sono in grado di assumere decisioni con una propensione al rischio, dall'altra devono essere messi nelle condizioni di effettuare un controllo ex post dell'operato degli amministratori. Del resto, la netta separazione fra il ruolo degli azionisti e quello dei managers porta sovente di fatto a non trovare una esatta rispondenza ed allineamento fra gli interessi di tutte le parti coinvolte. In particolare, le scelte dei managers possono in concreto a volte non essere allineate del tutto con la finalità di massimizzazione della ricchezza degli azionisti.

Uno degli strumenti utilizzati dalla giurisprudenza del Delaware per contemperare queste opposte esigenze è la cosiddetta "business judgment rule", una regola che si potrebbe definire procedurale, in base alla quale i giudici non entrano nel merito delle decisioni gestionali degli amministratori se queste sono state adottate "on an informed basis, in good faith and in the honest belief that the action taken was in the best interests of the company."

La business judgement rule si basa sulla concezione, prettamente anglosassone, secondo cui il rapporto tra amministratori e soci di una società si fonda essenzialmente sui concetti di trust e di agency. Si applica in sostanza una presunzione – superabile se gli attori provano il contrario (ad esempio, si deve dimostrare l'assenza di "procedural due care", se il consiglio ha deliberato senza avere informazioni essenziali che era ragionevole ottenere, oppure dedicando un tempo palesemente insufficiente alla materia) - che gli amministratori abbiano, agito informati, in buona fede, e nell'onesto convincimento che l'azione intrapresa fosse nel migliore interesse della società.

Tralasciando, per motivi di spazio e tempo - per quanto sia di estremo interesse - di ripercorrere l'excursus storico della "business judgement rule" così come il suo razionale, come pure il percorso (anch'esso utile ed interessante) che ha visto svilupparsi in Italia il tema della "responsabilità degli amministratori", ci soffermiamo in questo scritto esclusivamente a segnalare la natura del particolare vincolo che lega gli amministratori alla società. Si tratta in sostanza di un rapporto di natura contrattuale che sorge con l'accettazione, da parte del destinatario (ossia l'amministratore), della proposta formulata dalla società di gestire la società stessa, così come prescritto dalla legge e dallo statuto, che fa sorgere correlativamente l'obbligo della società, salvo patto contrario, di remunerare l'amministratore per l'attività svolta.

Dal carattere contrattuale del rapporto consegue la natura squisitamente contrattuale della responsabilità nella quale l'amministratore incorre nei confronti della società, per la violazione dei doveri inerenti alla sua funzione.

Spetta, quindi, a chi agisce con l'azione di responsabilità dover provare:

a) l'inadempimento degli amministratori (ossia che non abbaino adempiuto con diligenza agli obblighi loro imposti dalla legge o dall'atto costitutivo);

b) il danno derivato all'attore da tale inadempimento.

La disciplina della responsabilità degli amministratori, deve essere necessariamente inquadrata e ricompresa nell'ambito della tematica dei cd. "costi di agenzia" poiché il benessere degli azionisti dipende da ciò che viene posto in essere dagli amministratori; in estrema sintesi, gli azionisti si attendono dagli amministratori che il loro operato sia orientato non solo a tutelare la propria individuale responsabilità, ma anche a gestire in modo efficiente l'impresa.

Anche la giurisprudenza italiana (come per quella statunitense) ha prestato molta attenzione alla valutazione della responsabilità degli amministratori in relazione alla propria competenza decisionale nella gestione di una società.

La Corte di Cassazione nel 1965 ha riconosciuto il principio dell'insindacabilità nel merito delle scelte di gestione affermando che "il giudice investito dell'esame di un'azione sociale di responsabilità non può sindacare il merito degli atti o dei fatti compiuti dagli amministratori e dai sindaci nell'esercizio del loro ufficio; non può, cioè, giudicare sulla base di criteri discrezionali di opportunità o di convenienza, poiché in tal modo sostituirebbe ‘ex post' il proprio apprezzamento soggettivo a quello espresso o attuato dall'organo all'uopo legittimato; deve, invece, accertare e valutare se gli amministratori abbiano violato l'obbligo di adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dall'atto costitutivo con la diligenza del mandatario". L'amministratore non potrebbe essere chiamato a rispondere unicamente per il fatto in sé che la gestione dell'impresa sociale abbia avuto un esito negativo.

Tale principio, è stato poi ribadito e chiarito in una successiva sentenza della stessa Corte di Cassazione del 1982, nella quale si è precisato che, in linea di principio, al giudice non è inibita la possibilità di esaminare gli atti di gestione o di esaminare le specifiche situazioni, le circostanze di fatto e le ragioni connesse agli atti in questione, ma tale esame deve essere condotto solamente per confrontare tali atti con un modello di condotta astratto cui si dovrebbe conformare un coscienzioso e prudente amministratore.

Si avvicendano poi nel tempo altre correnti giurisprudenziali di merito fino a che nel 1997 la Corte di Cassazione interviene di nuovo e, avallando il medesimo orientamento della Corte d'Appello di Milano del 16 giugno 1995, individua i parametri in base ai quali valutare la responsabilità degli amministratori; segnatamente, nella "violazione di obblighi giuridici" e nella "omissione da parte dell'amministratore di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel genere".

Di fatto, respinge l'orientamento di altre corti di merito che in passato si erano spinte fin verso un sindacato del merito della gestione. Ed ancora nel 2004, la Suprema Corte precisa che la discrezionalità riconosciuta nella gestione agli amministratori "vuole dire libertà di identificare le scelte, senza esonerare l'amministratore dall'osservanza del dovere di diligenza. Pertanto, se anche il giudice non può sindacare la scelta in sé, deve però controllare il percorso attraverso il quale essa è stata preferita."[..]"la responsabilità può essere generata dall'eventuale omissione, da parte dell'amministratore, di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni preventive normalmente richieste prima di procedere a quel tipo di scelta: in altre parole, il giudizio sulla diligenza non può investire le scelte di gestione, ma il modo in cui sono compiute".

Sia i giudici di merito che la Cassazione hanno poi sviluppato un altro importante corollario del principio sopra esposto: ovvero la regola secondo la quale la insindacabilità delle scelte di gestione da parte del giudice trova un limite allorquando gli amministratori abbiano agito in modo palesemente irragionevole.

Recentemente, con ordinanza dell' 8 aprile 2020 il Tribunale di Roma ha avuto modo di pronunciarsi sulla business judgement rule applicata alle scelte organizzative degli amministratori nell'ambito della gestione sociale che attiene alla struttura organizzativa della società, e non all'attività economica svolta dalla medesima.

Il tema è di particolare attualità anche alla luce del nuovo art. 2086 c.c. (ex artt. 375 e 377 del D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 – " Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza") che ha posto il dovere di istituire assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla natura dell'impresa e alle sue dimensioni, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi d'impresa e della perdita della continuità aziendale.

In particolare, il Tribunale di Roma afferma che la predisposizione degli assetti organizzativi "non costituisce l'oggetto di un obbligo a contenuto specifico, ma al contrario, di un obbligo non predeterminato nel suo contenuto, che acquisisce concretezza solo avuto riguardo alla specificità dell'impresa esercitata e del momento in cui quella scelta organizzativa viene posta in essere". Si segnala, a supporto di tale interpretazione, che il tenore letterale dell'art. 2086 c.c. (ed anche dell'art. 2381 c.c.) pone sul medesimo piano di correlazione

(i) l'obbligo di dotare l'impresa di un assetto interno ("l'imprenditore (…) ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile"),

(ii) le caratteristiche che devono necessariamente connotare detto assetto (il quale deve essere "adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa") e (iii) gli obiettivi di tale assetto (che deve essere predisposto "anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale").

Con l'introduzione della riforma della crisi delle imprese, la business judgement rule assume maggior rilievo in quanto gli amministratori, come i sindaci, sono obbligati ad attivarsi e scegliere lo strumento più idoneo predisposto dall'ordinamento per superare la crisi. Tale regola, pertanto, rappresenta un parametro con cui valutare l'operato di amministratori e sindaci per fronteggiare una crisi di impresa.

Come puntualizzato dall'ordinanza, è opportuno sottolineare che l'insindacabilità della scelta gestoria/organizzativa vale "pur sempre nella vigenza dei limiti" fissati dalla giurisprudenza, ossia a condizione che "la scelta effettuata sia razionale (o ragionevole), non sia ab origine connotata da imprudenza tenuto conto del contesto e sia stata accompagnata dalle verifiche imposte dalla diligenza richiesta dalla natura dell'incarico".

Alla luce della disamina che precede, sarebbe auspicabile l'introduzione di una normativa che - prendendo spunto dagli orientamenti che si sono avvicendati in ambito giurisprudenziale - preveda il giusto contemperamento (o per lo meno i criteri per giungere ad una corretto contemperamento) fra l'incentivo che gli amministratori dovrebbero avere nell' intraprendere progetti innovativi e redditizi seppur potenzialmente molto rischiosi, e l'esigenza di poter porre un argine preventivo ai medesimi mediante la applicazione di una analisi accurata preventiva di tali progetti, al fine di prevenire (per quanto possibile) iniziative che possano danneggiare gli investitori; la minaccia di azioni risarcitorie da parte degli investitori danneggiati dovrebbe in sé diventare sufficientemente credibile da delineare la giusta disciplina cui il comportamento degli amministratori dovrebbe attenersi.

Sarebbe inoltre utile che tale normativa venga forgiata in base alla tipologia ed alle caratteristiche delle imprese (se start up o imprese di piccola o grande dimensione), in modo da essere il più possibile elastica e adeguata alle diverse casistiche. Ai giudici dovrebbe infine spettare il compito di applicare la business judgement rule tradotta nella normativa al singolo caso sottoposto al loro giudizio.

Sarebbe infine suggeribile che tale disciplina possa essere in grado di sanzionare gli abusi più significativi, senza tuttavia limitare eccessivamente la discrezionalità degli amministratori, altrimenti questi ultimi sarebbero indotti ad adottare scelte eccessivamente prudenziali, di per sé incompatibili con la propensione al rischio tipica di qualsiasi iniziativa imprenditoriale di successo.

Ad oggi, in Italia, si è ispirata alla esperienza nordamericana della business judgement rule la disciplina delle operazioni con parti correlate introdotta da parte della Consob dieci anni fa, sebbene la stessa non ricalchi nella sostanza la disciplina americana sul conflitto di interessi ed abbia una sfera di applicazione limitata. La funzione della disciplina delle operazioni con parti correlate è quella di prevenire o reprimere una particolare forma di conflitto di interessi, ossia quella che potrebbe condurre l'amministratore a favorire un soggetto legato alla società a scapito dei propri azionisti di minoranza.

I rischi derivanti dalle operazioni con parti correlate sono principalmente il tunnelling, ovvero il trasferimento di ricchezza a favore delle parti correlate ed, in generale, l'esecuzione di operazioni non nell'interesse della società.

Tale disciplina tuttavia non ha una portata generale avendo un ambito oggettivo (le operazioni con parti correlate) e soggettivo (si applica alle le società aperte) di applicazione ben delimitato, e un enforcement altrettanto limitato in quanto consente alla Consob di sanzionare le società per le violazioni delle regole che impongono l'informativa al mercato sulle operazioni con parti correlate, mentre per quanto concerne le violazioni di tipo procedurale consente di sanzionare soltanto i sindaci per l'omessa vigilanza sul rispetto della procedura da parte degli amministratori e non anche gli amministratori o la parte correlata.

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*Eptalex Garzia Gasperi & Partners

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