Civile

L'evoluzione del fine-vita: dal sostegno audace della giurisprudenza alla legge sul testamento biologico

di Dott.ssa Michela Moretti

Premessa

L'Italia risulta essere uno dei pochi ordinamenti occidentali in cui ad oggi non è presente una legge sull'eutanasia ovvero la conclusione del ciclo vitale di un essere umano mediante un trattamento che provochi la "dolce morte" priva di sofferenza nei casi in cui ci si ritrova in una situazione irrimediabilmente difficile e dolorosa compromessa da una malattia o da un evento traumatico.


Il tema del c.d. fine-vita, che ha una connotazione fortemente etica e che spesso viene affrontato con pregiudizi di natura ideologica, oggi più che mai risulta essere centrale nel dibattito politico in considerazione della sensibilità che l'argomento ha suscitato nell'opinione pubblica a causa di fatti di cronaca divulgati dai mass-media negli ultimi anni.


Sono state sollevate questioni politiche, religiose e di coscienza; dibattiti sul fatto che la tecnologia sia in continua evoluzione e pertanto la tenuta in vita di un soggetto con metodi artificiali potrebbe raggiungere tempi lunghissimi sfiorando così il c.d. accanimento terapeutico.
Nell'ordinamento italiano, il presupposto di partenza per il quale è sempre stata rifiutata l'introduzione di una legge che disciplini l'eutanasia, è l'indisponibilità assoluta del bene quale principio ritenuto da sempre incontestabile. Si tratta di un assunto visibile nella formulazione originaria delle norme del codice Rocco. Non si prevedono infatti condotte scriminanti rispetto alla disciplina dell'omicidio del consenziente ex. art. 579 c.p. e dell'istigazione o aiuto al suicidio ex. art. 580 c.p.


L'indisponibilità del bene vita: un principio cardine dell'ordinamento oggi mitigato dalla giurisprudenza


La giurisprudenza, in seguito a numerosi casi divenuti mediatici, riguardanti per l'appunto le scelte di fine vita, ha enunciato il principio dell'indisponibilità relativa del bene vita. Nel nostro ordinamento, tale dogma sebbene risulti ancora cristallizzato per via di un assoluto vuoto normativo che regoli il fine-vita è stato tuttavia nel tempo mitigato dal diritto vivente per via di una serie di decisioni che ne hanno sconfessato l'assolutezza per effetto di un contro-bilanciamento di interessi contrapposti e meritevoli di tutela.


Il Supremo Collegio, infatti, ha messo in luce che il bene vita, seppur dotato di "sacralità" nella Carta fondamentale, se contrapposto a beni di altrettanta rilevanza costituzionale deve subire un giudizio di bilanciamento tale per cui è possibile che ceda il passo in favore di questi ultimi.
Oggetto di attenzione da parte della Corte di Cassazione, in particolare, sono stati il diritto all'autodeterminazione e il rispetto della dignità umana.


Il primo è cristallizzato all'art. 32 in combinato disposto con l'art. 13 della Costituzione, prevedendo che la Repubblica tuteli la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività e nessuno possa essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge.


Seppur è vero che a tale principio si possa opporre il diritto alla salute, quale elemento imprescindibile per la tutela del bene vita e a sostegno di interessi collettivi, di contro un individuo non può essere obbligato a sottoporsi a cure mediche senza aver fornito il suo consenso ed un trattamento sanitario non si può mai scontrare con la dignità della persona. In caso contrario si tratterebbe infatti di un'invasione del medico nella sfera privata ed inviolabile del paziente. Da qui l'importanza del consenso informato alle cure e del diritto all'autodeterminazione. Dunque, il diritto ad essere curato ha come rovescio della medaglia il diritto a non essere curato ed al rifiuto delle cure.


Il vuoto normativo in materia ha posto non poche difficoltà per pazienti e familiari decisi ad interrompere le cure ed apporre fine alla vita e spesso parte della società civile ha denunciato la mancanza di una norma ad hoc anche tramite associazioni a sostegno dell'autodeterminazione dell'individuo a porre fine alla sua esistenza a seguito di grave e invalidante malattia.


Per i sostenitori dell'Eutanasia la stessa, dunque, resta una scelta del soggetto titolare del diritto disponibile e non un'imposizione e pertanto non si potrebbe obbligare nessuno a sottoporsi a tale trattamento, ma garantirebbe a chi non vuole continuare a vivere in uno stato irreversibile e doloroso, di porre fine alla sua vita senza soffrire.


In ordine invece alle ragioni poste a fondamento di una tesi di segno opposto, il tema legato all'eutanasia, è di natura morale e dunque tale pratica viene vista come moralmente inaccettabile, paragonabile all'omicidio ed al suicidio.


Vi sono inoltre riflessioni inerenti alla piena consapevolezza della scelta e che dunque partono dal presupposto che tale cognizione è ardua da definire, altre considerazioni evidenziano invece l'importanza delle cure palliative ed infine, da non sottovalutare, sono gli spunti di matrice teologica che considerano l'eutanasia come atto peccaminoso e quindi atto illecito per l'ordinamento religioso.


Il testamento biologico: un passo importante a sostegno dell'autodeterminazione


Seppur, come visto, il diritto all'eutanasia si è affermato per impulso del diritto vivente e dunque della giurisprudenza di legittimità, ad oggi si può dire che non vi sono stati concreti riscontri d'apertura verso una legge sul fine-vita, se non relativi all'entrata in vigore il 31 gennaio 2018 della legge sul testamento biologico ovvero la legge 22 dicembre 2017, n. 219.


Con essa alcuni principi, che la giurisprudenza aveva contrapposto al bene vita e che hanno prevalso nel giudizio di bilanciamento, hanno trovato piena cittadinanza sotto il profilo legale nelle ipotesi previste dalla stessa norma.


Per testamento biologico, noto anche come "dichiarazione anticipata di trattamento" o "testamento di vita", si intende la manifestazione della volontà del testatore e quindi della persona che lucidamente esprime il suo consenso o meno alle terapie alle quali potrebbe essere sottoposto se si dovesse trovare in uno stato di incapacità di esprimere il consenso.
Si evidenzia infatti che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se non vi è il consenso libero ed informato dell'interessato, eccetto nei casi espressamente previsti dalla legge. Tutto ciò in ossequio ai principi contenuti negli artt. 2, 13, 32 Cost. e della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea posti a fondamento della tutela del diritto alla vita, alla salute, all'autodeterminazione, alla dignità. Si tratta appunto di un consenso informato che viene manifestato per malattie o lesioni traumatiche cerebrali irreversibili o invalidanti, le quali impongano l'utilizzo di macchine per trattamenti permanenti o l'impiego di sistemi artificiali che ostacolino una normale vita di relazione.


La legge in questione ha come punto centrale la disciplina delle disposizioni anticipate di trattamento, le c.d. DAT, mediante le quali il testatore fornisce indicazione sui trattamenti sanitari che vuole ricevere o che rifiuta se si dovesse trovare in una condizione di incapacità di autodeterminarsi. Le indicazioni fornite dalla persona vertono in merito alle scelte terapeutiche, agli accertamenti diagnostici ed ai singoli trattamenti sanitari come la nutrizione e l'idratazione artificiale.


Per poter effettuare disposizioni anticipate di trattamento è necessaria anzitutto una consultazione medica finalizzata a rendere edotta la persona sulle conseguenze delle proprie scelte ed è imprescindibile inoltre la maggior età e la capacità di intendere e di volere.
Se la persona non è in grado di firmare è possibile la stipulazione dell'atto in presenza di due testimoni e la DAT può essere manifestata mediante una videoregistrazione; altrimenti la forma utilizzabile può essere l'atto pubblico, la scrittura privata autenticata o la scrittura privata semplice con consegna all'Ufficio dello Stato Civile del Comune di residenza del disponente. Tali disposizioni sono revocabili in ogni momento anche con forma differente rispetto alla quella del rilascio, ma tale variazione di forma è consentita unicamente per motivi di urgenza o di impossibilità.


La legge prevede altresì la possibilità di nominare un fiduciario, revocabile o modificabile in qualsiasi momento dal disponente, il quale ha il compito di rapportarsi con il medico nel caso in cui il testatore non risulti più capace di interfacciarsi con il sanitario. Il fiduciario, con consenso del disponente, può disattendere le disposizioni, obbligatoriamente in accordo con il medico, se queste sono palesemente incongrue, se sono sopravvenute terapie non prevedibili alla data di rilascio della DAT, oppure se le disposizioni non corrispondono alla condizione clinica del paziente.


Il diritto alla salute ed il consenso dell'avente diritto


Il diritto alla salute, ove per salute si intende il benessere psico-fisico, è un diritto fondamentale dell'individuo garantito dall'art. 32 Cost. Il singolo può essere sottoposto ad un trattamento sanitario solo per sua scelta e per questo vi è il consenso informato il quale deve essere libero, attuale e revocabile.


Le scelte di fine vita sono dunque strettamente correlate alla causa di giustificazione del "consenso dell'avente diritto", tema caldo relativo proprio alla possibilità di procedere con le cure esclusivamente in presenza di un consenso che, se ci si ritrova in uno stato vegetativo, è materialmente impossibile rilasciare. Il consenso dell'avente diritto è appunto una causa di giustificazione e dunque una norma che permette di risolvere l'apparente contrasto che si crea all'interno dell'ordinamento giuridico quando vi è una norma che vieta un comportamento ed una che, come l'art. 50 c.p. facoltizza un comportamento in quanto vi è un bene preminente.
Si scrimina così il comportamento di chi agisce se vi è un "consenso dell'avente diritto".


L'ordinamento risolve tali antinomie, attribuendo la prevalenza alla norma che facoltizza il comportamento. L'art. 50 c.p. stabilisce infatti che "non è punibile chi pone o lede un diritto, con il consenso della persona che può validamente disporne". Ciò significa che il fatto tipizzato dalla norma penale seppur posto in essere non è contra ius in quanto il consenso fa venire meno l'antigiuridicità.

Il consenso può essere rilasciato in ogni forma a patto che sussista nel momento della realizzazione del fatto, è revocabile e deve essere immune da vizi della volontà. Quanto al tema in oggetto è necessario porre l'attenzione sulla "disponibilità del bene", rimarcando il fatto che, come già illustrato, quando si tratta del bene vita non si può più parlare di un'indisponibilità assoluta dello stesso.

I casi mediatici e l'intervento della Corte costituzionale

Molti casi di cronaca, come visto, oltre ad avere suscitato un acceso dibattito nell'opinione pubblica hanno conferito, per le loro peculiarità, notevole impulso alla giurisprudenza di legittimità in merito ad enunciazioni di principi di diritto dirompenti rispetto alla tradizione giuridica consolidatasi nel tempo.

Nel 2007 la Corte di Cassazione, proprio in relazione al tema del consenso dell'avente diritto, ha risolto un famoso caso di cronaca noto come il "caso Englaro" ovvero la battaglia legale iniziata del padre della giovane Eluana Englaro per porre fine alla vita della figlia ormai priva di speranze di ripresa. Era infatti stato interrotto il trattamento sanitario terapeutico ed il sostegno vitale era assicurato dalle macchine. Si trattava di una situazione irreversibile e la giovane era incapace di intendere e di volere, sottoposta a respirazione ed alimentazione artificiale. Il padre richiedeva di terminare l'alimentazione forzata, la quale è comunque un trattamento sanitario.

Il caso di Englaro ha assunto un'importanza notevole per la qualificazione di temi quali il consenso, l'indisponibilità relativa del bene vita e l'interruzione del trattamento sanitario. In primis la Cassazione ha affermato un importante principio sulla base dell'art. 32 Cost. secondo il quale l'attività medico-chirurgica deve sempre avere una giustificazione positiva anche se è un'attività a fin di bene poiché è un trattamento invasivo della sfera giuridica altrui ed inoltre non si può sottoporre una persona ad un trattamento sanitario senza consenso informato, indispensabile per legittimare l'attività medico-chirurgica.

Se il consenso non può essere espresso, questo può essere manifestato dal rappresentante legale. Il padre aveva infatti ottenuto la rappresentanza legale ed aveva agito per manifestare il consenso ad interrompere le cure, consenso che la Cassazione precisava che deve essere manifestato "con l'incapace" e non "per l'incapace".

Nel caso mediatico enunciato il padre, attraverso testimoni, infatti ha dovuto ricostruire la personalità della figlia quando era nel pieno delle sue forze a conferma della sua univoca volontà e dunque del suo consenso.

In questo caso è stato dimostrato come la ragazza si era chiaramente espressa con amici e parenti circa il suo rifiuto di essere sottoposta ad un mantenimento in vita artificiale.
Questo significa infatti che tale consenso deve essere ricercato nella personalità della figlia, in quelle che erano le sue idee ed i suoi valori rispetto alla scelta di fine vita.

Sempre argomentando in merito a casi di natura mediatica che hanno fatto scuola in riferimento agli attuali orientamenti, sul tema è opportuno citare il "caso Welby" il quale, affetto da una malattia degenerativa, ma comunque ancora lucido mentalmente, chiedeva all'anestesista di interrompere la somministrazione delle cure per accelerare il decesso.
L'anestesista, effettuando quanto richiesto dal paziente, venne imputato per omicidio del consenziente ai sensi dell'art. 579 c.p., il quale prevede che "chiunque cagiona la morte di un uomo, con il consenso di lui, è punito con la reclusione da 6 a 15 anni". In tale occasione fu evidenziato il fatto che l'anestesista avesse agito in adempimento di un dovere. Il protagonista della vicenda aveva manifestato la sua volontà di interrompere le cure e l'anestesista aveva agito in presenza della causa di giustificazione dell'adempimento di un dovere.

Tale causa di giustificazione rende però non punibile solo il comportamento del medico e non del privato cittadino che realizza la medesima condotta del medico in quanto il cittadino non agirebbe per l'appunto in "adempimento di un dovere" ex. art. 51 c.p. Veniva quindi esclusa la punibilità del medico per l'adempimento del dovere, scriminato dall'art. 32 co. 2 Cost. il quale prevede espressamente il diritto di rifiuto alle cure, tutelando l'autodeterminazione e la dignità del paziente.

Recentemente un caso di rilevante impatto mediatico è stato il c.d. "caso Dj Fabo", ridotto in stato vegetativo a causa di un incidente stradale e che ottenne l'aiuto materiale di Marco Cappato il quale, essendo un noto sostenitore dell'eutanasia, si recò insieme al protagonista della vicenda in una clinica Svizzera per la pratica del trattamento fine-vita.
Marco Cappato, come risulta dai fatti di cronaca giudiziaria, venne imputato per aiuto al suicidio ai sensi del 580 c.p. il quale al comma 1 prevede che "chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. "

È evidente in questa norma il richiamo all'agevolazione "in qualsiasi modo" del suicidio che significa anche "agevolazione materiale". Il protagonista aveva piene facoltà mentali e la scelta di rinunciare alla vita è stata presa autonomamente e l'aiuto di Cappato è stato un aiuto materiale e non psicologico. Nel caso di specie è stato messo in luce come il fatto di non poter disporre della propria vita liberamente anche in situazioni limitanti e non degne come nel caso di una grave malattia degenerativa che non permette all'individuo di porre fine alla sua vita, è una violazione dell'art. 3 della Costituzione ovvero del principio fondamentale di eguaglianza tra cittadini. Inoltre, è stato rilevato che l'aiuto psicologico e l'aiuto morale sono differenti e l'art. 580 c.p. è stato creato proprio al fine di tutelare le persone fragili a livello psicologico e che dunque un aiuto materiale a chi ha manifestato nel pieno delle sue facoltà mentali ed in maniera informata il suo consenso non può essere punito allo stesso modo di un aiuto psichico con contributo morale.

La Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 207/2018, ha espresso importanti principi a sostegno della successiva dichiarazione di incostituzionalità.

Innanzitutto, evidenziò il fatto che la CEDU riconosce l'esistenza del diritto alla vita, sottolineando che però non si riconosce il diritto a morire; in secondo luogo analizzò come per gli articoli 32 e 13 della Costituzione vi è il diritto ad interrompere le cure e, dunque, l'aiuto del terzo contemplato all'art. 580 c.p. è utile per risparmiare alla persona un trapasso non dignitoso.

La Corte costituzionale in questa occasione però rilevò l'incostituzionalità dell'art. 580 c.p., ma rinviò la decisione di un anno per consentire al Parlamento di riformare la fattispecie dell'art. 580 c.p., ma nulla accadde e dunque i giudici decisero di porre in essere una sentenza manipolativa dell'art. 580 c.p. il quale collocava infatti sullo stesso piano l'aiuto al suicidio e l'istigazione al suicidio, punendoli entrambi con la pena da cinque a dodici anni.
Successivamente, la Corte Costituzionale, con la sentenza 22.11.2019 n. 242 evidenziò la ratio dell'art. 580 c.p. e dunque la tutela della vita soprattutto per le persone più fragili e vulnerabili e dichiarò l'illegittimità costituzionale del suddetto articolo "nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psichiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente". L'art. 580 c.p. è costituzionalmente illegittimo nella parte sopraindicata per la violazione dell'art. 2, 13 e 32 comma 2 della Costituzione. L'aiuto al suicidio non è dunque punibile in questi casi per il diritto all'autodeterminazione sanitaria del soggetto anche se resta da evidenziare che in Italia non esistono le strutture che la sentenza indica come le uniche utilizzabili per effettuare tale trattamento di fine vita.

Oltretutto, tutto quanto sopra indicato può avvenire solo con la garanzia della procedura medicalizzata stabilita nella L. 219/2017, la quale prevede che si possa esprimere la scelta di rifiutare le cure, che la manifestazione di volontà del paziente venga inserita nella cartella clinica e che il medico fornisca informazioni sulle possibili alternative a disposizione del paziente.

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