Civile

La giustizia italiana locomotiva d’Europa nell’intelligenza artificiale

di Amedeo Santosuosso

Negli ultimi anni non vi è istituzione europea, in senso ampio, Unione europea, Consiglio d’Europa o Network dei Consigli superiori delle magistrature dei singoli Paesi Ue, che non abbia preso posizione circa l’uso dell’intelligenza artificiale (Ia) nell’amministrazione della giustizia.

È un segno delle preoccupazioni che sono presenti nelle nostre società e che fino a poco tempo fa impedivano persino la semplice associazione di Ia e diritto.

Oggi, probabilmente, quel tabù è infranto. Ma tra infrangere un tabù e usare effettivamente l’Ia nei sistemi giudiziari vi è un gran salto.

La stessa Commissione europea per l’efficienza della giustizia (Cepej, 2018) intitola, un po’ pomposamente, un suo documento come Carta etica europea sull’Ia nei sistemi giudiziari, ma poi deve riconoscere che «nel 2018, l’uso di algoritmi di intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari europei rimane principalmente un’iniziativa commerciale del settore privato rivolta a compagnie assicurative, dipartimenti legali, avvocati e singoli individui».

Per il momento i giudici negli Stati membri del Consiglio d’Europa non sembrano fare alcun uso pratico e quotidiano di software predittivi e di tecniche di machine learning.

Questo è il punto di partenza realistico, che avrebbe forse consigliato un titolo un po’ meno altisonante.

E l’intelligenza artificiale? Al momento si tratta spesso di discussioni ipotetiche, che non aiutano la comprensione e talora creano allarmi ingiustificati.

Non vi è necessariamente Ia nei processi di digitalizzazione, se essi sono meramente intesi a trasferire su supporto digitale le tradizionali attività cartacee o le comunicazioni (giudici-avvocati-cancellerie-cittadini).

È bene chiarire che si può parlare di Ia solo laddove la grande quantità di dati prodotti quotidianamente, in sistemi digitalizzati, sia organizzata in un modo che consenta operazioni di big data analytics usando tecniche di machine learning, al fine di estrarne informazioni.

Ciò richiede una struttura di raccolta e organizzazione di quei dati, cioè di grandi insiemi sui quali applicare algoritmi.

Il ministero della Giustizia italiano ha costituito il datawarehouse della giustizia civile per scopi statistici e di analisi organizzativa, e attualmente si propone di «basare lo sviluppo dei nuovi sistemi sulla condivisione dei dati e la circolarità delle informazioni: la valorizzazione del dato e della sua aggregazione si tradurrà nella progettazione, realizzazione ed evoluzione di datawarehouse sempre più performanti. La gestione del dato, nella prospettiva futura e più aderente alle attuali tecnologie deve infatti superare la dicotomia di sistemi registro-centrici o documento- centrici. In particolare, gli sviluppi in corso tendono […] alla costruzione di sistemi di rappresentazione cognitiva» (2018).

Questo è il salto oggi possibile, sapendo che a livello internazionale l’Italia è in una posizione che potrebbe essere ottima e che sarebbe un peccato se non si passasse dalle intenzioni alla loro realizzazione valorizzando la grande quantità di dati che il processo civile telematico ogni giorno produce.

A livello accademico pubblico si può citare, tra alcuni pochi altri, il progetto Laila, finanziato dal ministero dell’Università (Prin 2019), promosso dalle Università di Pavia, Torino, Napoli e Bologna (“principal investigator” Giovanni Sartor) e avente a oggetto proprio la sperimentazione di tecniche di machine learning alla casistica giudiziaria e alla legislazione italiana.

Sarebbe una sinergia importante tra istituzioni pubbliche nell’interesse della giustizia.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©