Professione e Mercato

Etica e impresa: un binomio vantaggioso

Il binomio etica-impresa richiama alcuni obiettivi ben determinati: uno sviluppo sostenibile, una realizzazione del profitto di impresa compatibile nei tempi e nei modi con le esigenze degli stakeholders, l'attuazione di un principio di equità intergenerazionale.

di Lamberto Lambertini*


Da un secolo, ormai, il binomio etica-impresa ha originato la definizione di responsabilità sociale dell'impresa medesima, definizione che implica andare oltre l'adempimento degli obblighi giuridici, investendo nel capitale umano, nell'ambiente e nei rapporti con le parti interessate.

Il binomio etica-impresa richiama alcuni obiettivi ben determinati: uno sviluppo sostenibile, una realizzazione del profitto di impresa compatibile nei tempi e nei modi con le esigenze degli stakeholders, l'attuazione di un principio di equità intergenerazionale.

Da qui il fiorire di codici etici che definiscono i valori fondamentali che dovrebbero essere rispettati nella gestione degli affari, tramite un governo dell'impresa che sappia gestire i rischi industriali, sociali, ambientali.

Il tutto nella convinzione che la responsabilità economica è conveniente (be profitable) come lo è la conformità ai dati normativi (obey the law) e ad una base etica (be etichal).

In quest'ottica acquista valore anche la comunità nella quale l'impresa vive e si sviluppa (si veda: Carnevale, Etica e impresa, in www.unicef.it).

Su questi principi si sono scritte infinite regole di corporate governance e si sono contemporaneamente verificati casi di malaffare, di corruzione, di pirateria finanziaria. (Sulla sostanziale inutilità dei codici etici: G. Rossi, Il gioco delle regole, Milano, 2006: "Sui principi etici di qualsiasi forma – e specie se di forma thin – appare dunque pericoloso fondare, o modificare, orientamenti giuridici. Le due sfere debbono rimanere separate: è bene che la prima continui ad orientare, per chi vi aderisce, il comportamento di tutti i giorni e la seconda le varie modalità del vivere associato. Benché il mondo – degli affari, ma non solo – appaia sempre meno controllabile, pensare di ricondurlo all'ordine redigendo manuali (etici), per qualsiasi circostanza… (omissis) nella realtà che ci circonda provoca, tuttalpiù, un fiorire di casi paradossali". )

Il binomio etica-impresa non può infatti essere un'etichetta, una medaglia da appuntarsi preventivamente sul bavero della giacca, non può sostituire un progetto sul tipo di società che si vuole realizzare, sul tipo di amministratore che si vuole essere, riallineando una pratica specifica con valori intrinseci ed autovalutati, senza aver condiviso una impostazione etica coerente esterna a quei valori.

Il fine dell'economia è la ricchezza, diceva Aristotele nell'Etica Nicomachea. Ci si può chiedere allora in che senso la produzione di beni e servizi, a scopo commerciale, sia un bene per la collettività e non solo per il produttore.

L'impresa economica, per definizione, mira al profitto, ma – a ben vedere - non solo a questo, perché il profitto si ottiene non solo per il prodotto o servizio in sé, ma anche per la qualità e il modo in cui si è realizzato quel prodotto.

La misura del profitto, infatti, è in proporzione con la qualità dei processi produttivi.
Le teorie sul capitalismo temperato (creating shared value) leggono l'impresa non come un agente di sfruttamento delle risorse, dei dipendenti e dell'ambiente ma, quasi al contrario, come un'opportunità per realizzare benefici sociali: occupazione, infrastrutture, benessere, cultura. (Leggiamo queste tematiche sul capitale temperato in Mordacci,"Etica e impresa", Etiche applicate. Una guida, Roma, 2018, 199 ss., che riporta la tesi di Porter e Kramer, Creating Shared Value, in Harvard Business Review, 2011, 1, 17).

Afferma Mordacci: "Fanno parte quindi dello scopo del profitto valori come il capitale immateriale, ovvero non solo il patrimonio dell'azienda, i suoi beni, i suoi mezzi di produzione, ma anche quel valore decisivo che è la reputazione", ivi, p. 202.

Questa lettura, meno ingenua di quanto possa a prima vista apparire, supporta la teoria della responsabilità sociale di impresa.

Dunque lo scopo di fare impresa ha un valore, che è relativo al modo in cui l'impresa realizza profitti e che può comportare una dimensione morale e sociale (questa sì) intrinseca.

La reputazione del produttore e dell'impresa costituisce un capitale immateriale che è parte del profitto e consiste nel modo in cui l'attività imprenditoriale è percepita e in riferimento a valori morali quali l'onestà, la trasparenza, il rispetto dei dipendenti, il senso di responsabilità.

Dunque il bene, secondo questa argomentazione, consiste nel come si fanno le cose e questo comporta l'assunzione di responsabilità per l'attività di impresa e per le ricadute che questa attività ha sui terzi ed il territorio.

Da questo si genera quella fiducia che è alla base di ogni attività innovativa e dunque del progresso.

Pur sottolineando l'ingenuità apparente di una lettura dell'economia che sembra prescindere da una analisi della realtà concreta e che sembra dimenticare lo sfruttamento delle risorse e degli uomini, si deve pur riconoscere che l'etica dei principi (dalla filosofia greca alla tradizione giudaico-cristiana) non può essere abbandonata, se non ci si vuole affidare ad un'etica à la carte e cioè senza soluzioni definitive, come chi affronta ogni problema senza un metodo e senza un riferimento.

Quindi la ricerca di valori fondamentali, universali per l'agire umano è importante e produttivo, a patto che si tenga ben separato il diritto dalla valutazione etica.

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* A cura di Lamberto Lambertini, Fondatore e senior partner dello Studio Lambertini e Associati

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