Famiglia

Una discriminazione escludere il solo cognome materno

Strasburgo ha giocato un ruolo fondamentale perché ha proceduto a un’interpretazione delle norme convenzionali adatta ai tempi e non arroccata al passato

a cura diMarina Castellaneta

La spinta al cambiamento del diritto di famiglia è arrivata in Italia anche dagli interventi della Corte di Strasburgo che ha interpretato sia l’articolo 8 della Convenzione dei diritti dell’uomo, che garantisce il diritto di ogni persona al rispetto della sua vita privata e familiare, sia l’articolo 12 sul diritto al matrimonio tra uomini e donne, in linea con i mutamenti della realtà sociale dei quali il legislatore nazionale deve tenere conto. Tanto più che la Corte europea ha anche chiarito che non esiste un unico modello familiare.

Strasburgo ha giocato un ruolo fondamentale perché, affermando che la Convenzione europea è uno strumento vivente, ha proceduto a un’interpretazione delle norme convenzionali adatta ai tempi e non arroccata al passato. Proprio con riguardo ai diritti delle coppie dello stesso sesso, il 21 luglio 2015, con la sentenza Oliari e altri contro Italia (ricorsi n. 18766/11 e 36030/11), la Corte ha accertato una violazione dell’articolo 8 della Convenzione a causa del mancato riconoscimento legale, in Italia, di qualsiasi diritto alle coppie dello stesso sesso. Questa pronuncia ha avuto un ruolo centrale e ha spinto in via definitiva il Parlamento verso l’approvazione della legge 20 maggio 2016 n. 76, evitando nuove condanne da Strasburgo. Ma la Corte è andata anche oltre perché ha tracciato i criteri ai quali un legislatore nazionale dovrebbe attenersi, chiarendo che i mutamenti sociali nella concezione della famiglia richiedono interventi degli Stati volti a impedire forme di discriminazione. E questo anche in settori in cui gli Stati godono di un “certo margine di apprezzamento”, che certo è più ampio se si tratta di materie sensibili dal punto di vista etico o morale, ma nelle quali è comunque imposto di tenere conto dell’impatto che l’assenza di una misura può avere sull’esistenza e sull’identità dell’individuo.

Già in passato Strasburgo aveva stabilito che «sarebbe artificiale mantenere l’opinione secondo la quale, a differenza delle coppie eterosessuali, quelle dello stesso sesso non possono godere del diritto alla vita familiare secondo l’articolo 8». È stata esclusa, invece, la violazione dell’articolo 12 della Convenzione il quale riconosce che «uomini e donne in età adatta hanno diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto», perché la norma non impone un obbligo sugli Stati nel senso di prevedere il matrimonio per le coppie dello stesso sesso.

In altre occasioni, nell’affrontare violazioni legate al diritto alla vita familiare, la Corte ha riconosciuto l’importanza dell’unicità dello status personale conseguito all’estero, che pure può contrastare con valori dell’ordinamento nazionale e la necessità di evitare situazioni claudicanti, ma ha anche lasciato spazio agli Stati. Così, nella sentenza del 24 gennaio 2017, nel caso Paradiso e Campanelli contro Italia (ricorso n. 25358), la Grande Camera, il massimo organo giurisdizionale della Corte, ha stabilito la conformità alla Convenzione europea di una misura che comporta l’allontanamento di un bambino dai genitori nei casi in cui questi ultimi facciano ricorso alla maternità surrogata all’estero. La Corte, infatti, ha osservato che spetta allo Stato decidere di tutelare solo i vincoli frutto di legami biologici o di adozione, escludendo ogni riconoscimento per i rapporti derivanti dalla pratica dell’utero in affitto (vietata in Italia dalla legge n. 40/2004). In particolare, poi, Strasburgo ha stabilito che, in assenza di legami biologici con la coppia che ha fatto ricorso alla maternità surrogata, della breve durata del rapporto e della stessa incertezza del vincolo sotto il profilo giuridico, è da escludere l’inquadramento della fattispecie nell’ambito della vita familiare anche perché non risulta possibile qualificare un legame di pochi mesi (aspetto che è stato centrale nella conclusione della Corte) come una famiglia de facto.

Sul diritto a una famiglia, la Corte è intervenuta con la sentenza Costa e Pavan contro Italia (ricorso n. 54270/10) del 28 agosto 2012 con la quale ha bocciato le incongruenze dell’ordinamento italiano in materia di procreazione assistita, in un caso in cui a una coppia fertile portatrice sana di fibrosi cistica era stato impedito il ricorso alla fecondazione omologa in vitro e, di conseguenza, la possibilità di avvalersi della diagnosi preimpianto. Riconosciuto l’ampio margine di apprezzamento in questa materia, la Corte, però, ha ribadito l’obbligo del rispetto dei diritti convenzionali. La legge italiana ammette il ricorso alla procreazione assistita solo per le coppie sterili o per quelle in cui l’uomo ha una malattia trasmissibile per via sessuale, ma questo determina un’incoerenza anche perché, come sottolineato dalla Corte, le esigenze invocate dall’Italia non si conciliano poi con la possibilità concessa alle donne di ricorrere all’aborto terapeutico. Così, la Corte, in quell’occasione, ha accertato che l’attuazione di quel divieto procurava danni anche psicologici sulla madre e una sicura violazione del diritto al rispetto della vita familiare.

Sulla presenza di norme anacronistiche in Italia, va ricordata la sentenza del 7 gennaio 2014, Cusan e Fazzo contro Italia (ricorso n. 77/07), con la quale la Corte ha chiarito che l’assegnazione al figlio del solo cognome paterno è una discriminazione sulla base del sesso e costituisce una violazione degli articoli 8 e 14 (divieto di discriminazione). In quell’occasione, Strasburgo aveva chiarito l’esistenza di un obbligo per lo Stato in causa di adottare misure generali e, quindi, procedere a un’immediata modifica legislativa, rimuovendo il divieto di attribuzione del solo cognome materno, al fine di rispettare la Convenzione.

Sul diritto a conoscere le proprie origini, con la sentenza del 25 settembre 2012 (Godelli contro Italia, ricorso n. 33783/09), la Corte europea ha rilevato che è contraria alla Convenzione una legge che impedisce a chi è stato abbandonato alla nascita di conoscere le circostanze della nascita e l’identità della madre. Nel bilanciare due diritti ugualmente rilevanti, ma contrapposti, da un lato quello della madre all’anonimato, dall’altro quello del figlio a conoscere un elemento importante della propria identità, la Corte ha precisato che il diritto a conoscere le proprie origini rientra in quello all’identità personale, che è protetto dall’articolo 8 della Convenzione in quanto elemento essenziale della vita privata e familiare di un individuo. Per la Corte, il desiderio di conoscere le proprie radici non solo non si estingue nel corso degli anni ma, se disatteso, procura senza dubbio sofferenze fisiche e psicologiche, anche se non dimostrate scientificamente. Pertanto, non può essere garantita una protezione assoluta dell’anonimato della madre senza contemperarla con le esigenze del bambino che, cresciuto, vuole conoscere elementi della propria identità.

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