Penale

Sì ai depositi digitali della difesa: verso il processo penale telematico

di Guido Camera

Da giovedì 25 giugno gli atti difensivi indicati dall’articolo 415-bis, comma 3, del Codice di procedura penale - che disciplina la chiusura delle indagini preliminari - potranno essere depositati in formato telematico sul Portale deposito atti penali del ministero della Giustizia (Pdp). Lo ha stabilito il decreto ministeriale del 9 giugno 2020, che ha, di fatto, implementato il processo penale telematico dando esecuzione all’articolo 83, comma 12-quater1, del decreto cura Italia: questa disposizione, introdotta dal decreto legge 28/2020, prevede che, sino al 31 luglio 2020, presso ciascun ufficio del Pm che ne faccia richiesta sarà autorizzato il deposito telematico degli atti previsti dall’articolo 415-bis. Si tratta di atti difensivi il cui scopo è quello di convincere il Pm a chiedere l’archiviazione, invece del rinvio a giudizio.

La prima Procura che ha aderito è quella di Napoli; la nutrita serie di protocolli emanati dall’inizio dell’emergenza a livello locale e nazionale, che hanno generalmente previsto la possibilità di notificare tutti gli atti difensivi all’autorità giudiziaria con posta elettronica certificata, fa sperare che presto altre Procure seguiranno l’esempio partenopeo. Le modalità del deposito telematico (che è facoltativo) sono indicate nel provvedimento 5477 del 12 maggio 2020 del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del ministero della Giustizia.

In precedenza, il prevalente orientamento della Cassazione aveva escluso che alle parti private fosse consentito l’uso della Pec quale forma di comunicazione e/o notificazione «stante la preclusione alla adozione di forme di comunicazione non espressamente previste dalle norme processuali», che riservano l’utilizzo della trasmissione telematica alle comunicazioni di cancelleria ai difensori, e non viceversa (tra le tante, Cassazione 37126/2019). Un orientamento minoritario aveva offerto una timida apertura alle comunicazioni elettroniche del difensore alla cancelleria, ritenendo che non fossero irricevibili, ma che era onere dell’interessato accertarsi che fossero state poste materialmente all’attenzione del giudice da parte del cancelliere (Cassazione, 2951/2019).

Questo scenario è stato spazzato via dall’epidemia. Le principali misure di sicurezza volte a proteggere la salute del personale amministrativo sono state il lavoro da remoto e il contingentamento degli accessi alle cancellerie degli utenti; in assenza di una previsione legislativa che autorizzasse le notificazioni degli atti dei difensori in formato telematico (la prima è proprio quella contenuta nell’articolo 12-quater1 del decreto cura Italia) la questione è stata risolta con numerosi protocolli conclusi da magistratura e avvocatura, sia a livello locale che nazionale, che prevedono la possibilità di effettuare tutte le notificazioni dei difensori alle cancellerie e alle segreterie del pubblico ministero a mezzo posta elettronica certificata, tranne le impugnazioni. Anche la Cassazione ha adottato un protocollo, d’intesa con il Cnf, che ha previsto la trasmissione di copia informatica alla cancelleria, da parte del difensore, degli atti di impugnazione già depositati nelle forme ordinarie e, direttamente in formato telematico, dei motivi nuovi e delle memorie relativi ai giudizi di legittimità trattati durante l’emergenza con le modalità previste dall’articolo 12-ter del decreto cura Italia.

Il decreto ministeriale del 9 giugno ha quindi autorizzato un’attività digitale che era già stata sdoganata dalla prassi emergenziale; ma non va sminuito, perché pone una base per l’effettiva digitalizzazione del fascicolo del Pm. Il deposito telematico di un atto all’interno di un fascicolo digitale, infatti, è cosa diversa da un messaggio di posta elettronica stampato e inserito dal cancelliere nel fascicolo cartaceo. Il passo successivo dovrà essere garantire ai difensori l’agevole, e integrale, accesso da remoto al fascicolo digitale del Pm, senza gravare i loro assistiti di costi di copia eccessivi, che rischiano di trasformarsi in forme discriminatorie di accesso alla giustizia.

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