Società

Esterovestizione e società di gestione patrimoniale, il problema dell'assenza di specifiche norme sul tema

L'inadeguatezza, nei numerosi accertamenti emessi in materia, dei criteri individuati dagli Enti impositori per l'individuazione di una società esterovestita in caso di società di gestione patrimoniale

di Tommaso Landi*

In tema di esterovestizione, ed in particolare riferimento alle società di gestione patrimoniale di immobili, occorre precisare come tale fattispecie non trovi, nel nostro ordinamento, una sua puntuale configurazione.

Il fatto, dunque, che società estere detengano uno o più immobili in Italia comporta notevoli problematiche interpretative e, negli ultimi tempi è fonte di numerosi contenziosi.

Questa scelta del Legislatore, infatti, lascia il contribuente in balia di autonome interpretazioni da parte dell'Amministrazione finanziaria, privandolo di certezza in merito alle conseguenze del comportamento tenuto.

Prima di proseguire nell'analisi della fattispecie, quindi, è necessario richiamare alcuni concetti giuridici ai quali, per prassi consolidata, gli uffici finanziari e la Guardia di Finanza fanno appello nel tentativo di motivare i propri atti di recupero.

1. Esterovestizione, ovvero lo strumento utilizzato dall'ente impositore al fine del recupero di base imponibile.

Per intercettare base imponibile in capo a un soggetto societario estero è ormai prassi, per gli Enti accertatori, utilizzare il concetto di esterovestizione, fattispecie che qualifica la struttura estera come un soggetto economico effettivo, la cui residenza fiscale, però, è collocata in Italia.

Gli Uffici, al fine di fornire una base giuridica alle proprie conclusioni, nelle motivazioni dei propri atti, sempre più spesso individuano un possibile supporto normativo interno nell' art. 5, comma 3, lett. d), e nell'art. 73, comma 3 e 4, del Testo Unico, richiamando, nel contempo, a livello convenzionale, la specifica riserva al paragrafo 25 delle osservazioni all'art. 4 del modello OCSE, voluta dall'Italia al fine di determinare la residenza fiscale di una società e, secondo cui, per individuare la sede di direzione effettiva di un'entità, occorrerebbe tenere conto anche del luogo di svolgimento della sua attività principale.

La richiamata normativa di riferimento prevede tre criteri (di cui uno avente carattere formale e gli altri aventi carattere sostanziale) per collegare fiscalmente le persone giuridiche al territorio nazionale:

• la sede legale (criterio formale);

• la sede dell'amministrazione;

• l'oggetto principale.

Funzionalmente al presente scritto e in riferimento alla richiamata specifica riserva formulata dall'Italia al paragrafo 25 delle osservazioni all'art. 4 del modello OCSE, è opportuno osservare che il criterio dell'oggetto principale (ammesso e non concesso che possa assumere rilievo a questo fine, essendo considerato, dal comma 3 dell'art. 73 del T.U.I.R., come alternativo e non complementare a quello della sede dell'amministrazione) non potrebbe che essere utilizzato soltanto in via subordinata, e cioè soltanto quando non sia risolutivo l'indice indicato nel Commentario, posto che il criterio della sede di direzione effettiva, essendo stato adottato per risolvere i casi di doppia residenza fiscale, dovrebbe essere interpretato secondo il contesto e non secondo la normativa fiscale dello Stato contraente che applica la convenzione in quanto, altrimenti, ne sarebbe vanificata la funzione.

Pertanto se le decisioni più rilevanti in riferimento alla vita e alla gestione della società sono assunte all'estero il luogo di svolgimento dell'attività principale non può assumere rilevanza, come invece gli uffici tendono erroneamente a concludere.

Recentissima, sul punto è la CTP di Trapani, Sentenza n. 72, Sez. IV del 19.01.2021, la quale ha statuito che: "in tema di esterovestizione, ai fini delle Imposte sul reddito, si considerano "residenti" le società che per lamaggior parte del periodo di imposta hanno la "sede legale" o dell'amministrazione nel territorio dello stato.Per "sede legale" deve intendersi quella "effettiva": ovvero il luogo dove hanno concreto svolgimento le attività amministrative, decisionali e di direzione della società. L'onere della prova della sussistenza dei presupposti impositivi previsti dall' art. 73 del Tuir e dell'eventuale "controllo di fatto" spetta all'Agenzia delle entrate".

Del resto, anche la Cassazione tributaria ( Cass., Sez. trib., 7 febbraio 2013, n. 2869 e Id., 19 giugno 2019, n. 16697 ) è conforme sul punto, avendo concluso che la nozione interna di sede dell'amministrazione e quella convenzionale di sede di direzione effettiva sono sostanzialmente corrispondenti, laddove ha precisato che "le due discipline, quella interna e quella pattizia, a ben vedere, sono sostanzialmente equivalenti, perché la seconda rinvia, come criterio generale, alla legislazione interna ed assume, poi, come criterio sussidiario nel caso di accertata doppia residenza, quello della sede ‘effettiva' della società".

E ancora, in senso conforme, la Suprema Corte con recenti pronunce sul tema ha chiarito che "In tema di imposte sui redditi, ricorre l'ipotesi di esterovestizione solo allorché una società, la quale ha nel territorio dello Stato la sede dell'amministrazione, da intendersi come luogo in cui si svolge in concreto la direzione e gestione dell'attività di impresa e dal quale promanano le relative decisioni, localizzi la propria residenza fiscale all'estero al solo fine di fruire di una legislazione tributaria più vantaggiosa." ( Cassazione civile, sez. trib., 21/06/2019, n. 16697 ).

Ed ancora, "Ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, nell'ipotesi di esterovestizione, ossia di localizzazione fittizia della residenza fiscale di una società all'estero al solo fine di fruire di una legislazione tributaria più vantaggiosa, non è necessario accertare la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma occorre verificare l'effettività del trasferimento, cioè se la singola operazione sia meramente artificiosa, risolvendosi nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica, fermo restando che la società esterovestita non è, per ciò solo priva di autonomia giuridico-patrimoniale e, quindi, automaticamente qualificabile come "schermo" creato con l'unico obiettivo di farvi confluire i profitti degli illeciti fiscali"( Cassazione civile, sez. trib., 21/12/2018, n. 33234 ).

Occorre, inoltre tenere in considerazione che, in ambito internazionale, per dirimere casi di dual residence e, simmetricamente, evitare profili di doppia imposizione economica, l'articolo 4, paragrafo 3, del modello Ocse di Convenzione prevede che, nell'ipotesi in cui una società sia considerata residente in due diversi Stati, la residenza fiscale della persona giuridica sarà individuata sulla base di un accordo tra le autorità competenti (denominato mutual agreement), che dovrà tenere conto del luogo di direzione effettiva (place of effective management), del luogo di costituzione (the place where it is incorporated or otherwise constituted) e di ogni altro fattore rilevante (any other relevant factors).

Sempre la giurisprudenza di legittimità ( Corte di cassazione, sentenza n. 14527/2019 ), ha stabilito che una holding di partecipazioni che non svolge una reale attività commerciale, disponendo di una struttura amministrativa modesta con limitati costi di gestione, che consegue in un altro Stato membro specifici benefici fiscali, non costituisce di per sé una costruzione di puro artificio, attribuendo preminente valore alla libertà di stabilimento prevista dal diritto comunitario.

Alla luce di tali principi assume, quindi, specifico rilievo la nozione di "sede dell'Amministrazione" che coincide con quella di "sede effettiva" (di matrice civilistica) intesa come il luogo ove hanno corretto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell'ente.

2.L'inadeguatezza, nei numerosi accertamenti emessi in materia, dei criteri individuati dagli Enti impositori per l'individuazione di una società esterovestita in caso di società di gestione patrimoniale.

Chiarito che i criteri utilizzati sia dal diritto interno che in ambito internazionale-convenzionale per stabilire la residenza fiscale di una società sono coincidenti, occorre osservare che, altrettanto chiaramente, essi sono stati pensati per un ente che svolga un'effettiva attività di impresa e non per una società intestataria di patrimoni immobiliari.

Tale circostanza ha consentito l'ambigua interpretazione normativa data dall'Agenzia delle entrate alla fattispecie in oggetto per giungere alla soluzione del caso in suo favore.

I criteri citati e posti a base delle motivazioni dei vari atti impositivi emessi, infatti, non risultano di facile applicabilità nel caso di società di mera intestazione di patrimoni immobiliari, ove non è immediatamente identificabile un'attività "aziendale" così come pensata dal legislatore; un siffatto ente, infatti, si limita a sfruttare le potenzialità reddituali dei cespiti posseduti, analogamente a quanto farebbe un investitore privato privo della qualifica di imprenditore.

In tali casi, individuare la "sede dell'amministrazione", quale luogo in cui vengono assunte le decisioni strategiche dell'ente non è molto agevole, considerato che tali enti si limitano a detenere immobili riscuotendone, eventualmente, un affitto.

E lo stesso si potrebbe dire in relazione al criterio dell'oggetto principale dell'attività, che necessariamente presuppone l'esistenza di una concreta attività d'impresa, totalmente assente nel caso che ci occupa.

Le società di mera gestione patrimoniale hanno, infatti, la legittima possibilità di localizzare ovunque gli elementi strumentali alla propria attività, non essendo necessaria alcuna struttura concreta per lo svolgimento dell'oggetto sociale; l'organo amministrativo può agire agilmente e la gestione dell'attività sociale si concretizza quasi esclusivamente in adempimenti più formali che sostanziali (firmare atti, impartire direttive o autorizzazioni, rilasciare deleghe e poco altro).

In relazione, dunque, alla tipologia di enti in esame, va riscontrata la tendenziale inadeguatezza dei criteri di collegamento territoriali sostanziali previsti dall'art. 73, comma 3, e dalle norme convenzionali.

Tali criteri, infatti, per i motivi sopra esposti, risultano difficilmente provabili e, dunque, eccessivamente discrezionali.

Proprio in forza di ciò, l'intera ricostruzione operata dagli Uffici accertatori e posta quale motivazione dei propri atti appare illegittima, ed anzi nettamente in contrasto con specifici orientamenti forniti dalla stessa Agenzia delle Entrate e dalla Giurisprudenza, che di seguito esponiamo:

- In riferimento alla prassi dell'Agenzia, infatti, corre l'obbligo di citare la Risoluzione del 13/12/1989 n. 460196 - Min. Finanze – la quale specifica come, affinché si individui nel territorio italiano un'attività, occorre l'esistenza di una attività che possa effettivamente definirsi imprenditoriale, non essendo sufficiente il semplice possesso di un immobile, anche dato in affitto, per dare origine ad un collegamento tale da qualificare un soggetto estero quale meramente esterovestito;

Prassi in linea anche con quanto espresso dalla circolare 46/2007 Assonime che, in proposito, ha osservato come l'oggetto principale dell'attività non sia necessariamente coincidente con quello in cui si trovano i beni principali posseduti dalla persona giuridica, dovendosi avere riguardo alle caratteristiche dell'attività svolta e alla natura dei beni posseduti, per poter verificare se il loro utilizzo, ai fini dello svolgimento dell'attività dell'ente, richieda o meno una presenza in loco, ai fini della collocazione in Italia di una stabile organizzazione.

- In riferimento alla sopra richiamata Giurisprudenza corre l'obbligo di citare la Cassazione civile sez. I - 27/11/1987, n. 8820, la quale ha statuito che il requisito della stabile organizzazione in Italia di società estera, richiesto ai fini della loro soggezione alla (soppressa) imposte sulle società (ora IRES), deve essere ritenuto esistente nel caso l'ente straniero svolga abitualmente attività nel territorio nazionale, avvalendosi di una struttura organizzativa materiale e/o personale, qualunque ne sia la dimensione, purché non abbia carattere precario e temporaneo e costituisca, quindi, un centro di imputazione di rapporti e situazioni giuridiche riferibili al soggetto straniero, titolare del patrimonio o del reddito cui va commisurato il contributo.

In particolare, per ciò che riguarda l'acquisto e il possesso di immobili, la Cassazione esclude, però, la possibilità di configurare una stabile organizzazione quando il possesso si esaurisse nella mera gestione dell'immobile.

Sul punto è anche intervenuta con chiarezza la Corte di Giustizia comunitaria la quale, da un lato, attesta come non costituisca abuso della libertà di stabilimento la collocazione della sede legale di una società in un determinato Stato membro allo scopo di poter fruire di una legislazione più vantaggiosa, e, dall'altro specifica che le restrizioni nazionali alla libertà di stabilimento sono ammissibili solo se dirette ad impedire "costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica" (cfr. CGUE, C-196/04 Cadbury Schweppes, Sent. 12 settembre 2006, pt. 37 e 55), circostanza evidentemente non riscontrabile nel caso in oggetto.

3. Individuazione del più corretto criterio sostanziale applicabile al caso di specie.

Visto tutto quanto sopra premesso, e ribadendo che comunque, anche in forza degli ordinari criteri per l'individuazione di una eventuale esterovestizione, nel caso di immobili siti in Italia e detenuti da società straniere, pur con tutte le difficoltà probatorie dovute all'esiguità di tale attività, il luogo ove è collocabile il concreto svolgimento delle attività amministrative, decisionali e di direzione della società è spesso lo stato straniero (il quale può anche essere uno stato a tassazione privilegiata), appare evidente come la questione venga spesso trattata in modo eccessivamente generalista da parte dei soggetti accertatori, i quali ritengono legittimo applicare una motivazione per così dire "standard" ad un caso peculiare che non vi poteva essere ricompreso.

La normativa nazionale e convenzionale in vigore, infatti, presenta, come visto, numerosi aspetti di problematicità applicativa al caso in oggetto, dai quali emerge il pericolo di possibili contrasti con i principi costituzionali (capacità contributiva, diritto di difesa, diritto ad un giusto processo) e comunitari (libertà di stabilimento, proporzionalità), ignorati con troppa leggerezza dall'Ufficio.

Le suddette criticità derivano, in particolare, dalla inammissibile difficoltà per il contribuente di fornire prova contraria idonea a disinnescare le presunzioni legali relative in materia di esterovestizione.

Significative lacune normative, infatti, emergono circa la specifica fattispecie in oggetto, soprattutto se si considera come appaia evidente l'inadeguatezza dei generici criteri sostanziali previsti dalla legge in caso di società di gestione, ciò a causa della difficile individuazione di una vera e propria attività di gestione aziendale.

Per le molteplici ragioni sopra esposte, dunque, le attuali norme giuridiche di riferimento non garantiscono efficacemente piena armonia da un punto di vista sistematico, con la conseguenza che il fenomeno dell'esterovestizione di società di mera gestione immobiliare costituisce un argomento di rilevante criticità nell'ambito del diritto tributario nazionale e internazionale risolvibile, però, grazie all'intervento chiarificatore della sopra citata sentenza della Corte di Giustizia europea (vedi la citata CGUE, C-196/04 Cadbury Schweppes, sent. 12 settembre 2006, pt. 37 e 55).

Volendo, quindi, per la risoluzione della vicenda, rinvenire un criterio sostanziale più corretto rispetto a quello che, ormai per prassi, gli Uffici utilizzano per motivare i loro accertamenti in tema di società di gestione di immobili reputate esterovestite, si ritiene necessario individuare specifici "criteri residenziali" per le società di "mera intestazione di beni", considerate le significative differenze tra tali soggetti e le "classiche" società operative.

In tal senso si osserva che, proprio per l'assenza o l'estrema riduzione di una effettiva attività imprenditoriale, per queste tipologie di società i criteri di collegamento classici volti ad individuare il territorio statale entro i cui confini si svolge concretamente una certa attività direzionale (sede dell'amministrazione) o materiale (oggetto principale), non risultano efficaci.

Come criteri attendibili, quindi, ai fini dell'individuazione di una potenziale esterovestizione illegittima, a parere dello scrivente, andrebbero sondati e verificati:

- il luogo in cui effettivamente vengono goduti i frutti derivanti dallo sfruttamento passivo del patrimonio intestato alla società accertata;

- la provenienza della provvista per far fronte ai costi di gestione.

Se entrambi i criteri conducessero all'estero la società non potrebbe essere considerata fittiziamente esterovestita, e ciò con maggior attendibilità rispetto a quanto viene fatto ad oggi dagli Uffici accertatori.

Solo in questo modo si potrebbe garantire al soggetto accertato un tollerabile margine di certezza, nonché la possibilità di una adeguata difesa sul punto.

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*A cura dell'Avv. Tommaso Landi , Partner 24 ORE Avvocati

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