Casi pratici

Percosse e lesioni: elementi distintivi

Il reato di percosse: nozione

di Serena Gentile

la QUESTIONE
Quali sono gli elementi differenziatori tra il reato di percosse e quello di lesione personale? Qual è la nozione di "malattia nel corpo o nella mente" rilevante al fine di distinguere i due delitti?

Il Codice penale all'art. 581 punisce la condotta di chi percuote un soggetto, se dal fatto non deriva una malattia nel corpo o nella mente. Dalla lettera della norma, come ben può evincersi in prima battuta, traspare in maniera cristallina la ratio sottesa alla disposizione in parola. È evidente, difatti, l'intento del Legislatore impiegatosi, nel plasmare la fattispecie incriminatrice, a offrire una tutela ad ampio raggio dell'integrità psicofisica della persona.
D'altro canto, l'esigenza di una garanzia a tutto tondo del bene in parola, a oggi costituzionalmente protetto, ha da sempre preoccupato l'uomo del diritto. Si ricorderanno, a titolo esemplificativo, i sistemi giuridici vigenti in epoca romana - nel cui contesto le iniuriae trovavano punizione secondo la Legge delle XII Tavole - o, ancora prima, le previsioni normative di cui alla legislazione mosaica, contenenti in nuce gli odierni precetti di legge.
Ebbene, è proprio l'accennata pregnanza di cui si veste l'incolumità individuale a esigere previsioni quali quelle in rassegna, decise a sanzionare anche le condotte violente prive di sensibili ripercussioni sulla vittima di reato.
Così, assumeranno disvalore penale, siccome punibili a titolo di percosse, perfino quelle azioni aggressive ma non anche lesive della salute dell'individuo.
A segnare la sussistenza dell'elemento materiale del delitto, allora, basterà la violenza fisica esercitata dall'agente e consciamente diretta nei confronti di taluno, a prescindere dall'aver cagionato a costui un effettivo pregiudizio di natura fisica o mentale.
Quanto al termine "percuotere" esso viene solitamente utilizzato non solo con riferimento all'azione di picchiare, colpire o battere, ma nel senso più generale di manomettere violentemente l'altrui persona fisica, con ovvia estensione alle condotte dell'urtare, spintonare o afferrare (Cass. 29 marzo 2004, n. 15004). Sul punto, è stato anche affermato (Cass. 11 giugno 1985, Bellomo) che il reato di percosse sussisterebbe anche in assenza di percezione, da parte della vittima, della sensazione dolorosa. Fattore imprescindibile, secondo taluna dottrina, sarebbe l'idoneità dell'aggressione a produrre dolore, a prescindere dal fatto che il soggetto passivo lo abbia realmente avvertito, ben potendo avere una soglia di sopportazione superiore alla media. Più in particolare, circa l'oggettività della condotta, il reo potrà essere chiamato a risponderne per aver agito in modalità commissiva (colpendo) ovvero omissiva, per esser rimasto inerme di fronte al compiersi dell'atto delittuoso (sempre che, è inteso, avesse l'obbligo giuridico di impedire l'evento, in quanto soggetto titolare di una posizione di garanzia).
Tuttavia, come espressamente previsto dal secondo comma della norma incriminatrice, il delitto di percosse resterà inapplicabile «quando la legge considera la violenza come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un altro reato». Per l'effetto, la figura in parola resterà assorbita in presenza di talune fattispecie, quali la rissa o la violenza privata. In relazione alla seconda ipotesi, di sovente la Suprema Corte ha precisato come, sebbene in linea di massima non possa ritenersi configurabile il concorso formale tra i reati di cui agli artt. 581 e 610 c.p., non sarebbe consentito astrarsi dalle peculiarità della vicenda concreta.
Tanto è vero che in un caso affrontato qualche anno fa dalla Cassazione le due condotte materiali, proprio perché sostanzialmente difformi, erano state contestate all'imputato in via del tutto separata.
Nello specifico, il delitto di percosse era conseguente all'aver schiaffeggiato la vittima; quello di violenza privata, invece, nell'aver costretto la persona offesa ad allontanarsi dal domicilio, mediante calci e parole sgradevoli (Cass. 28 aprile 2004, n. 28351). Quanto, infine, all'elemento soggettivo del reato, si vorrà notare come l'atto violento peculiare del percuotere non può che concretarsi, sempre e comunque, in un'azione volontaria, intenzionalmente diretta a colpire e picchiare un individuo. Non sussiste, difatti, nel sistema penalistico, alcuna forma di percossa "colposa", a differenza di quanto accade per il delitto di lesione personale che ci accingiamo ad analizzare.

La lesione personale: condotta ed elemento soggettivo
Memori di quanto appena rilevato circa il delitto di percosse, sarà sufficiente rivolgere un fugace sguardo al testo di cui all'art. 582 del Codice penale, per comprendere l'esatta valenza del termine lesione personale, anche e soprattutto ai fini distintivi rispetto alla figura appena delineata. Risponde di lesione, reato indubbiamente più severo in termini sanzionatori rispetto al precedente, colui che, nell'adoperare violenza sulla vittima, le abbia provocato una «malattia nel corpo o nella mente». Sia consentito ricordare come la formulazione attuale della norma sia stata forgiata per dissipare i dubbi interpretativi sorti in cagione della lettera del previgente art. 372 del Codice Zanardelli, il quale - nell'unificare le odierne condotte di lesioni e di percosse - puniva a titolo di lesione chi avesse prodotto nella vittima un "danno" nel corpo o nella mente.
Di qui, giusta l'indeterminatezza del termine adoperato, le annose diatribe sorte attorno all'esatta determinazione dell'alveo applicativo della norma. Ombre che si dissolvono a opera del Legislatore penale, artefice della distinzione tra le due figure criminose e della sostituzione del fumoso termine "danno" con quello più lineare di "malattia". Tuttavia, come si vedrà nel prosieguo di trattazione, neppure l'intervento nominato è riuscito nell'intento di offrire agli operatori del diritto certezze di movimento assolute.
Non si potranno tacere, in effetti, le perplessità insite nella nozione stessa di malattia.: In via preliminare, si deve doverosamente evidenziare che, nell'ambito della disamina dell' elemento di discrimine tra i reati in discussione, due fattori acquisteranno un indubbio rilievo: il nesso causale corrente tra l'insorgenza della malattia (nei termini che specificheremo) e la condotta dell'agente, nonché l'elemento soggettivo del reato.
Sotto il primo aspetto, e sulla scorta di saldi principi penalistici, si assumerà come dato certo l'imprescindibile esigenza, ai fini integrativi del delitto di lesione, di un'indagine circa l'accertamento del legame tra l'azione e/o omissione del soggetto attivo e l'evento malattia.
Il nesso, è ovvio, si intenderà sussistente altresì in costanza di vicende in cui la patologia insorta nella vittima non sia dipesa esclusivamente dalla condotta del reo, ma anche dall'intervento di fattori, ritenuti concausali dell'evento (non interruttivi) .
Parla chiaro, in termini esemplificativi, la fattispecie in cui l'azione del soggetto agente abbia semplicemente riattivato una latente sofferenza o aggravato una disfunzione già in atto. Nell'intento di tradurre in termini pratici quanto rilevato, è d'uopo richiamare una vicenda affrontata dalla Corte di Cassazione sul finire degli anni Ottanta (il riferimento è a Cass. 6 febbraio 1987, Di Maria).
Nel caso specifico, l'agente aveva posto in essere un'aggressione nei confronti della vittima, a seguito della quale erano insorte alterazioni psicopatiche causalmente ricollegate alla condotta violenta. In realtà, il processo aveva portato alla luce un aspetto di assoluto rilievo: il trauma subito dal soggetto passivo aveva avuto l'effetto di far riemergere una preesistente patologia.
Ciò nonostante, il titolo di reato riportato nella sentenza di condanna inferta all'imputato era quello di lesioni personali, peraltro aggravate giusta l'insanabilità della malattia. La pronunzia interviene a rafforzare, è evidente, l'assunto appena esposto.
D'altro canto, si badi, l'azione criminosa non poteva dirsi mera occasione dell'evento manifestatosi, bensì tratto causale del suo verificarsi. Per ciò che concerne il profilo soggettivo del reato, invece, preme sottolineare come, a differenza di quanto assunto in relazione al delitto di percosse, nel caso delle lesioni il Codice penale contempla espressamente sia la forma colposa che quella dolosa.
Al fine di chiarificare l'assunto, risponderà del reato a titolo di colpa il conducente che, in violazione delle regole stradali e di quelle di comune prudenza, abbia investito un pedone ledendone l'integrità psicofisica ovvero il datore di lavoro che, mancando di predisporre le necessarie misure antinfortunistiche, abbia cagionato il decesso dell'operaio privo del casco di protezione.
La lesione, invece, assumerà i contorni ben più gravi del dolo quando l'atto violento sia stato scagliato con la precisa volontà di ledere l'altrui incolumità (Cass. 13 febbraio 2004, n. 12558), purché non se ne consti l'intenzione di provocare il decesso della vittima, ipotesi che lascerebbe il posto alla diversa figura del tentato omicidio. A ogni modo, tornando al tema sul quale indugiamo in questa sede, e allontanandoci da rilievi interessanti ma estranei al corrente discorso, possiamo sostenere senza ombra di dubbio che il principale fattore distintivo tra i reati in parola sia l'insorgere dello stato di malattia. Soffermiamoci, allora, a carpirne il senso.

La malattia come elemento distintivo tra i due delitti
Come accennato, assumono un peso non indifferente le problematiche cui il legale, il giudice o il perito vengono a confrontarsi ogniqualvolta siano chiamati a operare nell'ambito di processi attivatisi a seguito della doglianza della vittima, percossa e/o lesa dall'altrui condotta.
In termini semplicistici, ciò che più preoccupa sotto il profilo strettamente giuridico è proprio la difficoltà di un'esatta individuazione del confine tra ciò che è suscettibile di rilevare a titolo di percosse e ciò che, invece, assurge al ruolo di lesione personale. Sarà dunque un passaggio imprescindibile, quello di comprendere quali condizioni dell'essere umano possano considerarsi malattie idonee a configurare il delitto di cui all'art. 582 del Codice penale.
La questione non è di poco conto. Basterà pensare a fenomeni di non rado accadimento, quali le ecchimosi o i graffi sulla cute. È lecito e spontaneo che un soggetto non esperto, spoglio di conoscenze mediche approfondite, si ponga similari domande: l'escoriazione o l'ematoma sono da reputarsi malattie?
Se sì, sono considerate tali solo dalla medicina clinica o anche da quella legale? E le soluzioni offerte dalla scienza medica sono trasportabili nel diritto penale? In che limiti? Come si vede, i quesiti sono molteplici e le risposte non sempre univoche. È a questo punto essenziale, per tentare di offrire un responso ai quesiti sopra estesi, o quantomeno fornirne gli strumenti, rivolgere lo sguardo all'attuale pensiero giurisprudenziale.
Orientamenti giurisprudenziali: l'interpretazione estensiva del termine "malattia"
I due più importanti filoni giurisprudenziali formatisi in ordine all'individuazione dei confini tra il reato di percosse e quello di lesione corrispondono, invero, alle ricostruzioni medico-scientifiche sorte attorno al concetto di malattia.
A ben riflettere, difatti, se l'insorgenza della malattia consente di ricondurre un determinato fatto reato all'una piuttosto che all'altra fattispecie incriminatrice, è ben logico che l'esito dell'operazione dipenda dall'esatta individuazione di quali stati fisici, sofferenze o disturbi possano essere ricondotti nell'alveo del patologico.
È importante, allora, richiamare l'attenzione su quanto, inizialmente, era stato postulato circa la nozione di malattia.
La problematica, in realtà, origina già in sede di stesura dei lavori preparatori al Codice penale, nel cui contesto la malattia viene definita come qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell'organismo, ancorché localizzata e non impegnativa delle condizioni organiche generali. Ebbene, nonostante la formulazione in parola consentisse all'interprete di muoversi più agevolmente tra le maglie della ricostruzione fattuale e giuridica del caso via via esaminato, la dicitura "ancorché" aveva fatto propendere per un riconoscimento dello stato di malattia in costanza di qualsivoglia alterazione, anche ove assente una benché minima lesione della funzionalità umana.
A confondere le acque, poi, aveva concorso lo stesso Legislatore penale quando, riferendosi alla malattia tout court, aveva dato vita a una dicitura suscettibile di discordanti letture.
D'altro canto, perplessità in merito a una puntuale nozione di malattia sono state frequentemente riscontrate perfino nell'ambito della stessa medicina legale. Ed è sulla base di detta impostazione "estensiva" del concetto di malattia, supportata dalle indicazioni fornite dalla scienza medica del momento, che i giudici di legittimità giungevano a contestare il reato di lesione personale anche a carico di chi avesse cagionato a taluno solamente blande escoriazioni, prive di cagionevoli effetti sulla salute. Ben si comprendono, perciò, i limiti di una tale ricostruzione in aderenza alla quale si finisce per estendere oltremodo l'alveo applicativo del reato di lesione a discapito del diverso delitto di percosse, ravvisabile in via del tutto residuale nei radi casi in cui l'atto violento non abbia provocato nella vittima la minima alterazione. Di qui la necessità di un deciso cambio di rotta.
Lettura restrittiva del concetto di "malattia"
Un forte contributo all'affermarsi di un'impostazione dottrinale e giurisprudenziale nettamente opposta a quella finora descritta è giunto, senza dubbio, dal mutato orientamento della scienza medica. Noti studiosi, difatti, consci dell'errore di fondo sotteso alla primordiale teoria, iniziarono a esplicitare un'innovata visione della malattia, non più intesa come mera alterazione, bensì come un'alterazione suscettibile di essere fonte e causa di limitazioni funzionali.
Pronta a reagire al novello pensiero, è la giurisprudenza di legittimità che, aggiustando il tiro rispetto a precedenti pronunce, si assesta su posizioni indubbiamente più coerenti rispetto alle indicazioni mediche attuali. A norma degli stessi, deve ritenersi "malattia" quello stato dell'individuo che sia peggiorativo (dunque connotato da condizione anomala), dinamico (quindi soggetto a evoluzione ovvero a cronicizzazione), necessitante di un'adeguata terapia medica, e recante un disturbo funzionale atto a incidere sulla conduzione della vita quotidiana della vittima.
Pressoché contemporaneo è l'allinearsi della Cassazione all'esposto percorso. Come anticipato, i giudici iniziano a espungere dal concetto di malattia ogni alterazione fisica o mentale priva di significativo pregiudizio sulla salute dell'individuo.
Si assiste, così, al moltiplicarsi di decisioni costanti nel respingere l'idea della sussistenza di una malattia penalmente rilevante - con conseguente esclusione delle relative condotte criminose dall'alveo di cui all'art. 582 c.p. - in costanza di blande abrasioni o di mere sofferenze dolorose, e dunque di alterazioni prive di apprezzabili ripercussioni.
Pregiata esemplificazione di quanto affermato la si può riscontrare in memorabili pronunce di legittimità, meglio note come sentenze "Franciolini" e "Rocca".
Con la prima decisione (Cass. 14 novembre 1996, n. 10643) la Suprema Corte aveva assolto gli imputati, medici chirurgi, dall'accusa di lesione personale "perché il fatto non è previsto dalla legge come reato".
Ai prevenuti era stata contestata la condotta colposa per aver cagionato a una paziente, sottopostasi a intervento al seno, l'asimmetria delle mammelle. In quel caso, aveva sottolineato il Collegio, la donna aveva subito certamente un'alterazione peggiorativa della preesistente condizione fisica, ma non anche una malattia, posto che l'unico inestetismo cutaneo permanente di rilevanza penale è la lesione gravissima a danno del viso e non del corpo.
Ancora nel senso della necessità di una riduzione apprezzabile di funzionalità al fine di ravvisare l'evento-malattia, costitutivo del delitto di lesioni, è la seconda sentenza citata (Cass. 15 ottobre 1998, n. 714). Suo tramite, i giudici, sulla falsariga della precedente pronuncia, avevano ribadito che non costituiscono malattia le alterazioni anatomiche cui non sia susseguita un'apprezzabile riduzione delle funzioni vitali. E nel sostenerlo, avevano ritenuto sussistenti le lesioni per difficoltà respiratorie, durate alcuni minuti, a seguito di stretta al collo e scuotimento della vittima.

Le indicazioni delle Sezioni Unite
La querelle giurisprudenziale in ordine all'esatta accezione del significato penale, prima che medico, di malattia sembra dunque essersi composta per effetto e in virtù del nutrito numero di pronunce, tutte volte nella medesima direzione di un'interpretazione restrittiva del termine, con ogni accennato effetto. Tuttavia, le Sezioni Unite Penali della Cassazione hanno inteso offrire il loro contributo pronunciandosi sulla questione affrontata (Cass. 18 dicembre 2008, n. 2437).
In realtà, in quell'occasione, i giudici erano stati chiamati a decidere su una differente questione: l'ipotizzabilità del reato di lesioni a carico del medico accusato di aver sottoposto il paziente a un trattamento chirurgico diverso da quello acconsentito, e conclusosi con esito fausto.
A prescindere dai rilievi inerenti alla citata sentenza, estranei alla trattazione ora estesa, vale la pena focalizzare l'attenzione sulla parte motiva della pronuncia.
A sostegno delle conclusioni rassegnate, la Corte, nel gettare le basi argomentative del proprio convincimento, si è soffermata nel corso della disamina sul concetto di malattia, come plasmato e modificato dalle mutevoli interpretazioni susseguitesi in dottrina e in giurisprudenza.
Nel farlo, il Collegio ha in prima battuta preso le mosse dalle problematiche inerenti la nozione di malattia originariamente offerta dalla relazione ministeriale sul progetto del Codice penale, sulla quale ci siamo già espressi.
Secondariamente, ha ripercorso i contrapposti orientamenti giurisprudenziali, traendone le conseguenze motivazionali della sentenza. In altre parole, a mezzo della pronunzia de qua, i giudici si sono assestati sulla posizione espressa in via prevalente dalle più recenti decisioni di legittimità, accordando preferenza alla ricostruzione nozionistica suggellata dall'attuale scienza medica.
A ben vedere, trattasi di un iter precorso da datate decisioni di merito già affiancatesi, con notevole anticipo rispetto ai tempi, alle successive posizioni c.d. restrittive circa la valenza penale del termine malattia (tra le altre, si ricordi la pronuncia del Tribunale di Ferrara del 3 marzo 1977, in Foro it., 1977). Piena conferma di quanto esposto, si trae dal testo stesso della sentenza emessa a Sezioni Unite, che accoglie una concezione restrittiva di malattia, da intendersi come «un processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una più o meno rilevante compromissione dell'assetto funzionale dell'organismo».
Di tutta evidenza è il corollario derivante ed espressamente esteso: «le mere alterazioni anatomiche che non interferiscano in alcun modo con il profilo funzionale della persona non possono integrare la nozione di malattia, correttamente intesa».
E' pur vero, tuttavia, che nell'ambito di tale concezione restrittiva di malattia del corpo in ottica di compromissione dell'effettiva funzionalità organica la giurisprudenza inserisce la c.d. ecchimosi o ematoma. Deve precisarsi che l'ecchimosi è meno grave dell'ematoma, ma in entrambi i casi è stato affermato che tali manifestazioni fisiche rientrino nella nozione di "malattia" in quanto consistenti in un versamento ematico nei tessuti sottocutanei che comporta un'alterazione anatomica alla quale segue un naturale processo riabilitativo" (in tal senso, Cass. Sez. 1°, Sentenza n. 31008 del 25/09/2020 Ud., dep. 06/11/2020, Rv. 279795 - 01). Deve concludersi, quindi, che gli operatori di giustizia da un lato abbiano accolto una tesi più restrittiva dell'evento lesivo del delitto di lesioni, ma dall'altro hanno ricondotto nel concetto di malattia accadimenti fisici come l'ecchimosi  che, da un punto di vista pratico, difficilmente comportano l'effettiva compromissione delle attività quotidiane.
"Malattia di mente" ai fini della configurabilità del delitto di lesione personale
Sebbene le tematiche di maggior rilievo siano state finora esaminate, per quanto consentito dalla sede espositiva, preme accennare brevemente alla questione inerente non già la malattia intesa nel senso finora attribuitole, bensì come peculiare patologia connessa ai disturbi della mente.
Anche l'accertamento della malattia mentale, in linea con quanto rilevato circa quella di natura prettamente fisica, si riscontra essere un'operazione di estrema rilevanza al fine di ricondurre la vicenda concreta nell'alveo delle percosse (dalle quali sia derivato, ad esempio, uno stato di paura) ovvero in quello delle lesioni (laddove la violenza esercitata sulla vittima le abbia cagionato una vera e propria patologia mentale).
La problematica, però, non è delle più agevoli, ove si consideri che la mente umana può restare soggetta a diverse disfunzioni - manie, psicosi, ossessioni - non tutte qualificabili, però, come malattia rilevante nei termini di cui all'art. 582 c.p. Senza contare le discrasie terminologiche rilevabili tra l'accezione di "malattia" mentale utilizzata dalla psicopatologia forense e quella di "infermità" adoperata dal Legislatore penale in punto di vizio di mente.
Basterà, per il momento, il richiamo alla parola delle Sezioni Unite Penali (Cass. 25 gennaio 2005, n. 9163) aventi il merito di aver ricondotto nell'ambito dell'infermità mentale anche i gravi disturbi della personalità , così leggendo la stessa infermità come un concetto decisamente più ampio rispetto a quello di malattia nel senso più classico del termine.
Ancora in punto di patologie mentali, i giudici di legittimità hanno precisato che - ai fini integrativi del reato di lesione - non rileva solo l'offuscamento o il disordine mentale conseguente all'atto violento, ma altresì stati di depressione o inerzia con effetto permanente, temporaneo o brevissimo.
Ne consegue che, secondo costante giurisprudenza, potranno assumere pregnanza anche eventi di svenimento o mero shock nervoso.

Considerazioni conclusive
Sulla scorta dei rilievi svolti, risulta evidente che sui tratti distintivi tra il reato di lesioni e quello di percosse sia stato delineato un univoco tracciato ermeneutico.
La direzione, senza ombra di perplessità, è quella di offrire massima tutela concreta al bene giuridico protetto dal Legislatore a mezzo delle figure incriminatrici in questa sede trattate: l'incolumità individuale.
Nel contempo la giurisprudenza, consapevole di trascorsi errori di impostazione, ha corretto la direzione delle pronunzie arrivando a soluzioni in grado di definire in maniera limpida i confini che segnano il passaggio dall'alveo applicativo del reato di percosse a quello di lesione.
Dato ormai certo, in effetti, è quello per cui il delitto di percosse si ritiene pacificamente ravvisabile nelle sole ipotesi in cui dalla violenza fisica sia insorta un'alterazione priva di menomazioni funzionali, purché idonea a produrre sensazioni dolorose nei termini già specificati.
Diversamente, laddove l'alterazione psicofisica abbia arrecato alla vittima un'apprezzabile riduzione della funzionalità umana, verrà a concretizzarsi l'evento-malattia e, di conseguenza, il reato di lesione personale. A tal proposito, di recente la giurisprudenza ha fugato ogni dubbio circa il valore da attribuirsi alla c.d. ecchimosi, rientrante nella nozione di "malattia" in quanto consiste in un versamento ematico nei tessuti sottocutanei che comporta un'alterazione anatomica alla quale segue un naturale processo riabilitativo, tanto da configurare il reato di lesioni e non quello di percosse.