Società

Who is engaging who?

Riflessioni a margine delle linee guida Assonime e Assogestioni sul dialogo tra società quotate e investitori

di Pietro Caliceti*

1. E' sempre più ricorrente, nei consigli delle società quotate, l'annotazione per cui occorre mantenere, favorire, stimolare il dialogo con gli investitori istituzionali, che costituiscono la spina dorsale dell'azionariato.

La parola d'ordine è engagement, una parola che in inglese ha molte sfumature: può voler dire ingaggio, nel senso appunto di dialogo, di confronto, ma significa anche impegno, fino a quello di natura più personale come il fidanzamento; un afflato in qualche modo etico (e non stupisce infatti che di engagement si parli soprattutto a proposito dei temi ESG).

Negli USA, questa consapevolezza si è maturata da tempo; e al fine di favorire questo dialogo, e al contempo di dargli una disciplina ordinata e trasparente, si sono elaborati svariati protocolli comportamentali, di cui il più noto è il Shareholders-Director Exchange (SDX), frutto della collaborazione tra alcuni dei più autorevoli amministratori indipendenti e i principali gestori di fondi operanti negli Stati Uniti.In Europa, il punto di partenza è la Direttiva 2017/828/EU (c.d. Shareholders Rights II, o SHRD2), la quale obbliga gli investitori istituzionali ad adottare e comunicare al pubblico una politica di engagement che descriva le modalità con cui integrano l'impegno di azionisti nella loro strategia di investimento.

In Italia, le indicazioni della SHRD2 hanno trovato un primo riflesso nel nuovo Codice di Corporate Governance approvato da Borsa Italiana a gennaio 2020, il quale affida all'organo di amministrazione il compito di promuovere il dialogo delle società con azioni quotate con i propri azionisti e altri stakeholders rilevanti (art. 1, principio IV) e suggerisce altresì che gli emittenti adottino una politica dedicata alla gestione del dialogo con la generalità degli azionisti (art. 1, raccomandazione 3).

L'idea è che, specularmente a quanto prescrive la SHRD2 agli investitori, anche le società emittenti dovrebbero adottare una politica di engagement (considerata aspetto di primaria valenza organizzativa e dunque rilevante anche sotto il profilo dell'adeguatezza degli assetti) per definire forme, ambito, e modalità di tale engagement. Sulla scia del Codice, si sono mosse anche le principali associazioni di categoria coinvolte, nel tentativo di elaborare una serie di raccomandazioni tese appunto a favorire e disciplinare l'engagement: in particolare Assonime, l'associazione italiana delle società per azioni, con la sua circolare n. 23 del 19 luglio 2021 (Principles for Listed Companies' Dialogue with Investors), e quasi parallelamente Assogestioni, l'associazione italiana del risparmio gestito, con il suo I-SDX, o Italian Shareholder-Director Exchange, presentato nei mesi scorsi in alcuni convegni istituzionali, quantunque non ancora, per quanto mi consta, reperibile in rete in una versione definitiva. Seppur accomunati – mi pare – dalla medesima visione di fondo, i due protocolli la declinano in modi per certi versi differenti. I Principles di Assonime vedono l'engagement essenzialmente come un dialogo, come uno scambio di vedute, e dunque squisitamente bidirezionale; per l'I-SDX di Assogestioni, come già per il suo omologo USA, la bidirezionalità non è sempre necessaria né opportuna, essendo concepibili forme di engagement "one way", in cui sono solo gli investitori a esporre agli amministratori la propria visione (ed anzi raccomandando il protocollo di procedere in tal senso quando gli investitori intendono rappresentare agli emittenti la propria visione su operazioni strategiche o questioni rilevanti ancora in corso di valutazione da parte del consiglio dell'emittente, ovvero quando gli amministratori intendono per il momento solo ascoltare l'opinione degli investitori, riservandosi di definire in seguito modalità e tempistiche di eventuali risposte, o ancora durante i black out period).

Ancora, secondo Assonime il dialogo deve essere necessariamente aperto alla generalità degli azionisti, ancorché sia possibile diversificarne le procedure a seconda dei vari tipi di azionisti. L'I-SDX di Assogestioni sembra invece tarato squisitamente sul rapporto con gli investitori istituzionali: rimandando, per quanto attiene al rapporto con altri tipi di azionisti, alle forme ordinarie di interazione (investor relation, comunicati, ecc.), di cui l'I-SDX si dichiara apertamente complementare e non sostitutivo. Entrambi i protocolli sottolineano, in ogni caso, la necessità che in qualsiasi scambio di informazioni si rispettino gli eventuali limiti normativi, regolamentari e/o di autodisciplina applicabili.Tutto questo parlare di engagement mi ha ispirato alcune riflessioni che, a costo di apparire provocatorio, mi fa piacere condividere su queste pagine, anche solo per stimolare un dibattito. In fondo, è engagement anche questo.

2.Sia chiaro subito che, personalmente, considero l'engagement fondamentale, nella dinamica moderna delle società quotate, ed encomiabili gli sforzi compiuti in questo senso sia da Assonime che da Assogestioni. Non tanto e non solo, a mio avviso, perché lo richieda la SHRD2: ma perché la Storia va in quella direzione, e sarebbe miope e pericoloso non rendersene conto. Tuttavia, proprio in una prospettiva storica, le connotazioni pratiche dell'engagement inducono, secondo il mio modesto parere, a chiedersi (o a ri-chiedersi: non pretendo di scoprire l'acqua calda), se e fino a che punto le società in cui si attua o si deve attuare questo engagement rispecchino ancora il tipo delineato dal nostro codice civile agli artt. 2325 e ss.. O, detto in altri termini, se questa non sia la (ennesima) prova che ormai nel nostro sistema non si può più parlare della società per azioni al singolare, ma si deve parlare delle società per azioni, al plurale.

3. Incominciamo con un rilievo: il nostro codice civile, all'art. 2380-bis, statuisce che "la gestione dell'impresa… spetta esclusivamente agli amministratori."

E sappiamo che quell'"esclusivamente" riflette una ben precisa scelta, operata sin dalla riforma del 2003, nel senso di sottrarre agli azionisti quei pochi possibili spazi decisionali in materia gestoria che erano stati lasciati loro dal legislatore del 1942. Ora, invece, l'engagement porta gli azionisti dentro il consiglio di amministrazione: in altre parole, porta qualcuno che non è amministratore a concorrere alle decisioni del consiglio, o comunque a concorrere a formare le opinioni di chi quella volontà formerà. Si può ancora dire che la gestione è "esclusivamente" del consiglio? Certo, si può sostenere (e in effetti si è sostenuto) che il contributo dell'azionista engaged si limita ad ampliare il bagaglio informativo del consiglio; ci si può spingere anche più in là, affermando che ascoltare l'azionista sarebbe per gli amministratori addirittura un obbligo, scaturente dal dovere di agire informati di cui all'art. 2381, c.c.. Ma, personalmente, né l'uno né l'altro argomento mi convincono.

Se la ratio del principio di collegialità sta nel fatto che, attraverso il dialogo, si assicura la formazione di una volontà più ponderata, allora tutto ciò che concorre al dialogo concorre a formare quella volontà. E l'unica informazione che il consiglio può ricavare dall'azionista engaged è come quell'azionista lo potrebbe giudicare se fa o non fa una certa cosa che, in ipotesi, non sarebbe altrimenti censurabile (altrimenti si applicherebbero altre regole): qualcosa, quindi, che attiene squisitamente alla business judgement rule. Non mi pare che l'art. 2381 c.c. possa essere interpretato in tal senso.

4.Ancora. Ricordavo prima i limitati margini decisionali in materia gestoria che il testo originario del codice civile consentiva fossero lasciati agli azionisti. Quei diritti, com'è noto, andavano esercitati per il tramite dell'assemblea: ancora una volta, nel rispetto del principio di collegialità; e lo stesso vale per quel loro scolorito residuo rappresentato dalle "autorizzazioni" cui fa riferimento il punto 5) dell'art. 2364, primo comma, c.c. L'azionista engaged, invece, agisce come individuo, sottraendosi a un confronto collegiale coi suoi peers.

Ma agisce pur sempre all'interno della società: molto diversamente, ad esempio, dall'azionista che promuove un'azione individuale di responsabilità, dove per definizione l'azionista agisce dall'esterno. Anche questo, se non mi sbaglio, è uno schema atipico rispetto al modello codicistico.

5.E visto che abbiamo citato i peers, parliamo di parità di trattamento.

Su questo tema, come ho detto, mi pare di poter registrare una differenza tra la posizione di Assogestioni e quella di Assonime (per quanto, come visto, anche quest'ultima lasci la porta aperta a diversificazioni tra azionisti in funzione della rispettiva tipologia, sia pur non specificando cosa con ciò si intenda). Ma il punto è che, come si è visto, l'esigenza di una politica di engagement in capo alle società quotate si pone in rapporto di specularità diretta con le omologhe politiche richieste dalla SHRD2 agli investitori istituzionali; e che certamente, di fatto, saranno solo le istanze di questi ultimi a poter trovare udienza, presso i consigli di amministrazione, in quella atipica sede extra-assembleare di cui parlavo sopra.

Certo, se poi oltre che oltre che dare informazioni ne ricevessero anche, si aprirebbe tutta un'altra serie di problematiche sulla compatibilità di tale flusso (per definizione selettivo) con la normativa sugli abusi di mercato (ciò di cui, peraltro, sia il protocollo Assonime che quello Assogestioni mostrano di essere ben consapevoli, probabilmente anche perché proprio mentre i loro protocolli venivano elaborati la Consob pubblicava le sue Q&A in materia, dando mostra di un approccio tutt'altro che permissivo), e in ultima analisi sul rapporto tra quella normativa la SHRD2. Ma supponiamo pure che, in quella sede atipica, il consiglio si limiti ad ascoltare: quanto sopra osservato significa che, non solo dal punto di vista delle sue basi normative, ma anche e soprattutto in pratica, l'engagement non riguarda tutti.

E' pane solo per gli istituzionali: il piccolo risparmiatore, la casalinga di Voghera, ne sono esclusi. E quindi, si può parlare ancora di uguaglianza tra azionisti, se non in senso orwelliano? Il nostro sistema, non solo interno ma anche europeo (v. ad es. l'art. 4 della SHRD2, l'art. 17 della direttiva Transparency, l'art. 85 della direttiva UE 2017/1132, l'art. 92 del TUF) è cresciuto nel mito di quella uguaglianza.

Ma tanti anni fa, Natalino Irti scrisse un libro stupendo intitolato Idola Libertatis, in cui metteva in risalto come alcuni principii giuridici, comunemente ritenuti indiscussi, fossero in realtà dei falsi miti. Che anche quello della parità tra azionisti rientri in questo novero?

6.Lo ripeto ancora una volta: nelle società quotate, per me l'engagement è sacrosanto; e mi pare ovvio che possa e debba rivolgersi solo agli investitori istituzionali.

Ma il fatto stesso di riconoscerlo dovrebbe, a mio avviso, indurci a rivedere qualcosa nel nostro quadro normativo per assicurare che l'engagement possa espletarsi in armonia col sistema, e senza rischio di pericolosi boomerang in capo agli amministratori (ad esempio, perché il fatto di aver parlato con il fondo X o quello Y sia dedotto da qualcuno quale fonte di responsabilità ).

Che le società quotate siano ormai un tipo diverso (più che un sottotipo) della società per azioni di stampo codicistico, del resto, emerge da più parti nelle fonti: per restare al tema della gestione, la stessa SHRD2, nei suoi Considerando, ammette chiaramente che nelle società quotate le decisioni gestorie devono in qualche modo coinvolgere anche soggetti diversi dal consiglio di amministrazione.

Ma questa specialità non è ancora statuita in maniera sistemica; e, per converso, la tendenziale applicabilità, in via residuale, di tutte le norme codicistiche, può essere fonte di pericolose storture.7.E per finire, una brevissima nota sull'altro lato della medaglia – voglio dire, dell'engagement.

Le società si impegnano, d'accordo; ma gli investitori? Chi garantisce che, a fronte di tutto quanto fanno le società, gli investitori premieranno i loro sforzi? Allo stato attuale, nessuno.

Sì, certo, la SHRD2 impone loro di dar conto al pubblico di come hanno attuato la propria politica di impegno e di come hanno esercitato i propri diritti di voto; ma nei confronti della società partecipata gli investitori non hanno alcun obbligo, e, soprattutto, nulla impedisce loro di vendere la propria partecipazione, quand'anche la partecipata abbia adempiuto in tutto e per tutto ai propri impegni e non ci sia nulla da ridire sulla sua gestione. Quindi, per concludere da dove eravamo partiti, sarà anche un fidanzamento, questo engagement; ma l'anello ce l'ha solo uno dei due.

Anche su questo, soprattutto in un mondo dove un altro ripetuto mantra è quello della sostenibilità, mi sembra che ci sarebbe da fare una riflessione.

a cura di Pietro Caliceti, Avvocato in Milano Studio Greenberg Traurig Santa Maria

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