Penale

Magistrati: la rilevanza penale del deposito tardivo della sentenza va apprezzata in concreto

L'offensività della condotta va misurata non solo sul piano generale del buon andamento, ma più specificamente in relazione alle ragioni di giustizia che qualificano l'azione o l'inazione

di Pietro Alessio Palumbo

Il codice penale delinea due fattispecie di rifiuto di atti d’ufficio. Il rifiuto indebito di un atto d'ufficio da compiersi senza ritardo per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o di ordine pubblico o di igiene e sanità; la condotta di chi entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse, non compia l'atto di ufficio e non risponda per esporre le ragioni dell’inerzia. Per un verso sono individuati valori di primario rilievo costituzionale, come la giustizia, la sicurezza e l'ordine pubblico, l'igiene e la sanità; per l’altro, pur senza individuare valori specifici, si fa riferimento alla diffida inviata dal soggetto interessato. Con la sentenza n. 8870 del 16 marzo scorso la Corte di Cassazione ha evidenziato che nel caso dell'attività del magistrato l'offensività della condotta va misurata non solo sul piano generale del buon andamento, ma più specificamente in relazione alle ragioni di giustizia che qualificano l'azione o l'inazione. E in tale ottica le “ragioni di giustizia” non possono essere intese come genericamente riferibili ad un bene di rilievo collettivo e diffuso e dunque inerenti alla nozione di corretto, valido, esercizio della giustizia ed al suo ordinato svolgersi, ma devono apprezzarsi in relazione al concreto dinamismo della funzione. Il parametro di riferimento è costituito dunque dalla concreta attuazione del diritto oggettivo, da correlare ad una determinata situazione e ad un determinato assetto di interessi, nonché all'evoluzione delle collegate attività strumentali.

Rifiuto e indifferibilità

Secondo la Suprema Corte va innanzitutto chiarito in cosa consiste effettivamente il “rifiuto” e quando ricorrono le concrete ragioni di indifferibilità che valgono a qualificare l’atto doveroso, indebitamente rifiutato. Ebbene nel far riferimento al rifiuto, la disciplina sembra presupporre un atteggiamento “oppositivo” ovvero “omissivo”. In tale prospettiva la nozione di rifiuto deve essere valutata insieme con l'indifferibilità, espressa dalla necessità che l'atto sia compiuto senza ritardo: è in considerazione quella situazione che impone un intervento “immediato”. È sufficiente verificare se il tardivo compimento dell'atto doveroso determini un effettivo pericolo per lo specifico interesse tutelato che, nella specie, è il “bene giustizia”. In questo senso l'espressione “senza ritardo” va intesa come sinonimo di “immediatezza”, che si materializza come dovere incombente sul pubblico ufficiale in relazione alle circostanze del caso concreto. E si badi, rileva il solo danno potenziale il quale può essere di tipo naturalistico o giuridico, non essendo necessario il danno effettivo.

Ragioni di giustizia e rilevanza disciplinare dei fatti
Con riguardo al rapporto tra la tutela delle cause di giustizia e la previsione di termini per il compimento dell’atto, le ragioni di giustizia devono essere prese in considerazione in funzione dell'attuazione del diritto positivo e dell'assetto nel quale deve essere calato l'intervento doveroso. A fronte di ciò, è rilevante che la stessa disciplina di riferimento imponga il compimento di un atto senza ritardo o entro termini ristretti, legati alla peculiare materia; mentre la previsione di termini, delineati in via generale, a prescindere da uno specifico riferimento all'oggetto dell'atto, non consente in linea di massima di ravvisare l'indifferibilità dell'atto, soprattutto nel caso di termini ordinatori, salvo che si manifestino situazioni che implichino comunque un sollecito intervento. Il problema può, peraltro, porsi anche dopo che il termine previsto sia scaduto, soprattutto se l'atto debba o comunque possa ancora essere utilmente compiuto. In tale specifico quadro valutativo si inserisce il tema del rispetto dei termini per il deposito dei provvedimenti. Va in proposito osservato che la stessa figura dell’illecito disciplinare del magistrato contemplata dalla normativa di riferimento del 2006 impone di valutare se il protratto ritardo possa assumersi come condotta anche penalmente rilevante. La previsione di carattere disciplinare prende in considerazione una pluralità di ritardi gravi e ingiustificabili, chiarendo che la gravità è correlata al superamento del triplo del termine previsto dalla normativa di riferimento. Ciò comporta che una pluralità di gravi ritardi può dar luogo di per sé a una figura di illecito disciplinare, la quale deve essere valutata concretamente alla luce del principio in forza del quale l'illecito deve escludersi quando sia di scarsa rilevanza; ciò che implica una condotta conforme al tipo, ma in concreto non punibile perché non connotata da un grado di offensività effettiva tale da giustificare una sanzione. La stessa sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura si è progressivamente attestata su un apprezzamento “in concreto” delle situazioni; correlato anche alla valutazione della rilevanza del fatto. È stato infatti affermato che non integra l'illecito disciplinare del reiterato grave ed ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni, la condotta posta in essere in un contesto di eccezionale difficoltà organizzativa. Va peraltro rilevato che l’illecito disciplinare muove dal riscontro di plurimi ritardi e che, per contro, il reato è collegato ad un determinato atto, oggetto di rifiuto. Sulla base di tali considerazioni è impossibile configurare il delitto di rifiuto di atti di ufficio per il solo fatto della protratta inosservanza dei termini di deposito, seppur riferita ad una pluralità di provvedimenti, a meno che non possa parlarsi “in concreto”, con riguardo ad uno o più di essi, di rifiuto di atto da compiersi senza ritardo.

La scadenza del termine non può valere di per sé a qualificare l'atto come indifferibile
La mera scadenza del termine non può di
per sé interpretarsi come rifiuto di compimento dell'atto ove non qualificato dalla peculiarità dell'esigenza di attuazione del diritto positivo. In altre parole la scadenza del termine non può valere di per sé a qualificare l'atto come indifferibile, ma pone il problema del rispetto dei canoni interni di disciplina, aventi rilievo ordinamentale, tuttavia di per sé inidonei a proiettarsi all'esterno sul dinamismo funzionale dell'atto, in relazione al quale il bene-interesse della giustizia, avente carattere generale, si concretizza in una specifica situazione sottostante. Tutto ciò porta alla conclusione per cui le ragioni di giustizia non possano identificarsi in quelle generali correlate al regolare andamento dell'attività giudiziaria, ma devono concretizzarsi rispetto all'atto omesso senza che lo stesso possa automaticamente assumere connotazione di indifferibilità. Il ritardo, in specie quando significativo, non costituisce un dato irrilevante e neutro, ma deve essere valutato nella realtà della situazione, in modo da verificare se in rapporto ad essa, lo stesso per il suo protrarsi, possa influire sull'attuazione del diritto oggettivo nel caso concreto e se dunque l'ulteriore ritardo possa assumere il significato di vero e proprio rifiuto di un atto divenuto indifferibile. In tale cornice possono assumere concreta rilevanza le “sollecitazioni” rivolte al giudice affinché provveda al deposito del provvedimento. Le stesse possono provenire da organi sovraordinati, o preposti al controllo e al coordinamento dell'attività giudiziaria, ovvero direttamente da soggetti coinvolti nell'attività giudiziaria. La manifestazione di un interesse, ulteriormente qualificata dalla “richiesta” del provvedimento, può dar luogo a “diniego di giustizia”.

Il momento consumativo del reato
Secondo la Suprema Corte di Cassazione è dunque possibile superare i profili di incertezza che si manifestano nell'individuazione del momento consumativo del reato
. Non può essere la pluralità dei ritardi a conferire rilievo al termine di comporto ai fini dell'individuazione della consumazione del reato. Non il mero fatto della decorrenza del termine può costituire idonea sollecitazione, tale da rendere configurabile un atto “indifferibile” in assenza di un riferimento alla contingente e concreta situazione nella quale l'atto dovrebbe essere calato. Il magistrato ben potrebbe anche prescindere da una sollecitazione dall'esterno per avere piena contezza e consapevolezza degli effetti concreti e dell’incidenza del ritardo o della protratta inerzia. E comunque la concreta rappresentazione dell'urgenza e delle sue ragioni ove specificamente proveniente da organi preposti o da soggetti interessati varrebbe a rendere “inequivoco” il significato dell'ulteriore inoperosità con riguardo agli atti specificamente oggetto di sollecitazione. Ciò con la conseguenza che il superamento dell'ulteriore termine di comporto eventualmente concesso, ben al di là del rilievo disciplinare, verrebbe ad assumere carattere di vero e proprio “rifiuto” come tale idoneo ad integrare il reato in esame. Al di là di casi peculiari di per sé evocativi di rifiuto di atto indifferibile, la mera decorrenza dei termini e del periodo di comporto rilevante a fini disciplinari non è idonea a proiettarsi all'esterno dell'ambito ordinamentale; salvo che venga in rilievo una situazione concreta sulla quale il mancato tempestivo deposito del provvedimento potrebbe influire, alterando l'assetto dei rapporti sottostanti o rendendo più difficile l'attuazione del diritto positivo . In proposito possono essere richiamate situazioni nelle quali in ambito penale venga in rilievo il pericolo di prescrizione o di decorrenza di termini di custodia cautelare; o in ambito civile vengano in rilievo peculiari esigenze di tutela di soggetti deboli; o in ambito di giurisdizione amministrativa si tratti di non frapporre ostacoli all'esercizio di libertà costituzionali o di poteri di intervento funzionali al pubblico interesse. Nella vicenda sulla scorta di tali coordinate la Corte di Cassazione ha disposto l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello.

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