Penale

Si allarga il diritto al silenzio per gli indagati

È questo l’effetto della sentenza della Corte costituzionale depositata ieri, la n. 111, con la quale sono stati ritenuti parzialmente illegittimi gli articoli 64, terzo comma, del Cpp e l’articolo 495 del Cp

di Giovanni Negri

Si allarga il diritto al silenzio, sino a comprendere anche le domande sulle condizioni personali della persona indagata o imputata. È questo l’effetto della sentenza della Corte costituzionale depositata ieri, la n. 111, scritta da Francesco Viganò, con la quale sono stati ritenuti parzialmente illegittimi gli articoli 64, terzo comma, del Codice di procedura penale e l’articolo 495 del Codice penale. Sinora, secondo la giurisprudenza costante della Cassazione, il diritto a non rispondere era stato ritenuto circoscritto alle sole domande relative ai fatti di accusa, ma non anche a quelle relative alle condizioni patrimoniali, familiari, sociali, all’esercizio di incarichi pubblici, ai precedenti penali.

A sollevare la questione di legittimità era stato il tribunale di Firenze, chiamato a decidere sulla responsabilità penale di un imputato per il reato di false dichiarazioni a un pubblico ufficiale sulla propria identità o le proprie qualità previsto dall’articolo 495 del Codice penale. L’uomo accompagnato in Questura per l’identificazione nell’ambito di un procedimento penale aveva dichiarato alla polizia di non avere mai subito condanne, senza essere stato avvertito della facoltà di non rispondere. Successivamente era emerso che, in realtà, era stato già condannato due volte in via definitiva.

Per i giudici toscani i limiti al diritto al silenzio erano a forte rischio di contrasto con il diritto di difesa riconosciuto, tra l’altro, dall'articolo 24 della Costituzione, dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dall’articolo 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato dalle Nazioni Unite.

La Consulta ricorda che se il diritto al silenzio è diritto dell'individuo «a non essere costretto» non solo a «confessarsi colpevole», ma anche «a deporre contro sé stesso», questo diritto è necessariamente in gioco quando l’autorità giudiziaria che procede in relazione alla commissione di un reato pone alla persona sospettata o imputata di averlo commesso domande su circostanze che, pur non riguardando direttamente il fatto di reato, possono essere successivamente utilizzate contro di lei nell’ambito del procedimento o del processo penale, e sono comunque suscettibili di avere «un impatto sulla condanna o sulla sanzione» che le potrebbe essere inflitta.

Situazione che si verifica, appunto, rispetto alle domande indicate nell’articolo 21 delle norme attuative del Codice di procedura penale, che riguardano condizioni personali del sospetto o dell’imputato diverse dalle sue generalità, ma la cui conoscenza da parte delle autorità può provocare conseguenze pregiudizievoli proprio per l’inesistenza del divieto di utilizzare le risposte a queste domande.

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