Giustizia

Referendum, battaglia in cerca del quorum

di Barbara Fiammeri, Giovanni Negri

Anche stavolta decisivo sarà il quorum. Al momento - stando ai sondaggi - nessuno dei 5 quesiti presentati un anno fa Lega e Radicali sembrerebbe riuscire a tagliare il traguardo del 50% più uno degli elettori. Non è una sorpresa. La popolarità dei referendum degli anni ’70, a partire dal divorzio, è stata man mano sostituita da una crescente disaffezione. E anche Il traino del voto amministrativo, che si terrà in contemporanea domenica e coinvolge circa 9 milioni di italiani, non sembra al momento sufficiente a invertire questa tendenza.

Colpa della «censura» mediatica, sostiene Matteo Salvini che già mette le mani avanti. Certo c’è sconfitta e sconfitta. Se anche non fosse raggiunto il quorum ma una parte rilevante degli elettori si esprimesse a sostegno delle richieste dei promotori (solitamente chi va a votare è per il sì), il leader della Lega potrebbe giocarsi il risultato come una mezza vittoria. Non sarà facile però. Anche perché la stessa coalizione di centrodestra è divisa. Se infatti Silvio Berlusconi invita a votare a sostegno di tutti e 5 i quesiti, Giorgia Meloni ha schierato Fratelli d’Italia contro due referendum: quello che limita l’applicazione della custodia cautelare e l’abrogazione della legge Severino sulla incandidabilità dei condannati. Un posizionamento che non sorprende visto che su entrambi i temi la destra ha da sempre posizioni più “giustizialiste”.

Paradossalmente a venire incontro ai referendari- oltre ai renziani di Italia Viva, ad Azione di Carlo Calenda e a Più Europa di Emma Bonino - è quella parte del Pd che proprio su questi due referendum e su quello della separazione delle carriere si è espressa per il sì. Il segretario dem Enrico Letta - premettendo i suoi «5 no» - ha lasciato liberta di coscienza. «Il Partito democratico non è una caserma e men che meno su questi temi. C’è la libertà dei singoli, essa rimane a maggior ragione per una materia come questa, così complessa, rispetto a quesiti molto diversi tra di loro», disse in occasione dell’ultima Direzione al Nazareno. Schierato per il «no» è invece M5s .Giuseppe Conte ha bollato la consultazione come una «vendetta della politica nei confronti della magistratura».

Fatto sta che comunque vada il 15 giugno si torna in Parlamento, al Senato per il via libera definitivo alla riforma della Giustizia voluta dalla Guardasigilli Marta Cartabia e che tocca in modo significativo anche alcuni dei quesiti presentati da Lega e Radicali. Tre in particolare: sulla separazione delle funzioni, rendendo possibile un solo passaggio, al posto dei 4 attuali, da esercitare entro 10 anni dall’ingresso in magistratura; sul diritto di voto degli avvocati nei consigli giudiziari, che la riforma ammette dopo delibera del locale Ordine forense; sul minimo di firme per candidarsi al Csm, che si intende cancellare.

Il verdetto dell’Aula arriverà a tre giorni dalla chiusura delle urne e la discussione che si terrà a Palazzo Madama ne risentirà certamente. Al Senato peraltro c’è anche Matteo Salvini ovvero il principale esponente del fonte del sì. A influire sull’affluenza è anche l’assenza di due quesiti - quello sulla cannabis e la responsabilità civile dei magistrati - dichiarati inammissibili dalla Corte costituzionale. In ogni caso per il segretario della Lega sarà un passaggio non facile. Qualcuno lo ha accusato di essersi svegliato troppo tardi, di aver parlato troppo poco dei referendum nei mesi scorsi.

Ma molto dipenderà non solo - come si è detto - dall’affluenza ma anche dall’esito delle amministrative. Se infatti il Carroccio dovesse subire contemporaneamente assieme alla sconfitta nei referendum sulla Giustizia anche un arretramento sui territori il malessere nel partito potrebbe esplodere. Anche perché una parte dell’elettorato leghista non si riconosce in battaglie come quella contro la legge Severino e la riduzione della custodia cautelare che non fanno certo parte del bagaglio storico culturale del Carroccio.

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