Civile

Gratuito patrocinio e liquidazione del compenso all'avvocato per l'attività svolta

Con l'ordinanza n. 7829, resa lo scorso 10 marzo, la Cassazione ha affermato che ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, art. 4, la relazione dei servizi sociali, acquisita ed esaminata, durante l'udienza presidenziale di un giudizio di divorzio, è qualificabile come atto istruttorio, essendo assimilabile all'esame della c.t.u. o comunque alle attività difensive inerenti alle informazioni o atti istruttori compiuti d'ufficio

di Francesca Ferrandi*

Il caso

Un avvocato aveva chiesto la liquidazione del compenso per l'attività svolta in favore della propria cliente, ammessa al gratuito patrocinio, con riferimento ad un giudizio di divorzio, svoltosi a partire dal 2017. Il Tribunale, però, ha ritenuto che nulla fosse dovuto per le attività svolte nel 2017, dato che, in tale annualità, il reddito della richiedente andava sommato a quello del convivente e superava l'importo massimo per godere del beneficio, mentre, per quelle successive, ha liquidato il compenso per la sola fase decisoria.

Il provvedimento veniva, quindi, fatto oggetto di opposizione, successivamente respinta.L'avvocato, pertanto, decideva di promuovere ricorso per cassazione facendo valere due motivi di impugnazione. Con il primo, denunciava la violazione dell'art. 360 c.p.c., n. 3, del D.M. n. 55 del 2014, art. 4 e L. n. 27 del 2012, art. 9, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo che, con il passaggio del giudizio di divorzio alla fase contenziosa, era stato incardinato un nuovo procedimento, per il quale andavano remunerate le attività di studio e della fase introduttiva. A suo dire, infatti, era dovuto anche il compenso per lo svolgimento delle attività istruttorie, dato che all'udienza presidenziale, svoltasi nel 2018, era stata acquisita ed esaminata una relazione dei servizi sociali.

Con il secondo motivo, invece, lamentava la violazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76, comma 2, e art. 92, artt. 24 e 111 Cost., sollevando questione di legittimità costituzionale delle norme in tema di gratuito patrocinio nel processo civile, laddove non graduano i limiti di reddito per accedere al beneficio in base alla composizione del nucleo familiare, contrariamente a quanto previsto per il processo penale.

Il gratuito patrocinio. Come noto, l'istituto del patrocinio a spese dello Stato, (c.d. gratuito patrocinio), consente anche ai meno abbienti di agire in giudizio e difendersi di fronte all'autorità giudiziaria, sia essa civile, penale, amministrativa, o tributaria. Pertanto, le spese relative alla prestazione, resa dall'avvocato in tali giudizi, sono a carico dello Stato e il professionista non potrà chiedere compensi o rimborsi al proprio cliente ammesso a godere di tale beneficio. Eventuali patti contrari saranno affetti da nullità e la violazione di siffatto divieto costituirà un grave illecito disciplinare professionale (per un approfondimento cfr. M. VACCARI, Il patrocinio a spese dello Stato nei processi civili, Milano, 2020).

La disciplina del gratuito patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti risulta assoggettata, sin dal suo esordio, ad un regime differenziato a seconda del tipo di controversie cui il beneficio sia applicabile, con una sorta di summa divisio tra processo penale e altri tipi di giudizio.

Come si ricorderà, la L. n. 217 del 1900 (Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti), venne emanata a ridosso dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale: la novella de qua fu motivata, essenzialmente, dall'intento di soddisfare le esigenze che da esso scaturivano, tenuto conto del nuovo e tendenzialmente accresciuto impegno difensivo che un modello di processo di tipo accusatorio naturalmente presupponeva.

La relativa disciplina prevedeva, infatti, il gratuito patrocinio solo in riferimento al processo penale (esclusi i procedimenti concernenti le contravvenzioni, oltre che quelli relativi a reati fiscali: art. 1, commi 8 e 9). Nei procedimenti civili, il beneficio era, invece, previsto solo per il risarcimento dei danni e le restituzioni derivanti da reato, e "sempreché le ragioni del non abbiente risultino non manifestamente infondate" (art. 1, comma 2).

Successivamente, nei giudizi civili ed amministrativi, con la L. n. 134 del 2001 (Modifiche alla L. 30 luglio 1990, n. 217 recante istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti), venne stabilito che le ragioni del non abbiente dovessero risultare "non manifestamente infondate" (art. 15-bis, comma 1, L. n. 217 del 1990, introdotto dalla L. n. 134 del 2001): valutazione, questa, da svolgersi, in sede di ammissione anticipata, da parte del Consiglio dell'ordine degli avvocati (art. 15-decies e art. 15-quater, comma 3), fermo restando che, in caso di provvedimento reiettivo, l'istanza potesse essere riproposta al giudice della causa (art. 15-undecies).

Quanto, poi, alle condizioni di reddito, si stabilì, per il patrocinio in sede civile ed amministrativa, che il limite di reddito fosse determinato, in caso di convivenza, dalla somma dei redditi conseguiti, nel medesimo periodo, da ogni componente del nucleo stabilmente convivente (art. 15-ter, comma 2: salvo che la causa abbia per oggetto diritti della personalità, ovvero quando gli interessi del richiedente siano in conflitto con quelli degli altri componenti il nucleo, evenienze per le quali si tiene conto solo del reddito dell'interessato); mentre, per il processo penale, che, in caso di conviventi (salva, anche qui, l'ipotesi del conflitto di interessi), il limite di reddito complessivo venisse aumentato di un certo ammontare per ognuno dei familiari conviventi (art. 3, conforme a quanto previsto dal testo originario della L. n. 217 del 1990).

L'assetto appena descritto è rimasto, nella sua articolazione, pressoché immutato nelle vicende normative che si sono susseguite nel tempo.

Ciò posto, nel caso in esame, il compenso per l'attività di introduzione e di studio era stato richiesto dall'avvocato con riferimento alle attività svolte nel 2017, allorquando l'assistita non era risultata in possesso dei requisiti di reddito previsti dalla legge in quanto, in detta annualità, il suo reddito andava, in realtà, sommato a quello del convivente e superava l'importo massimo previsto dalla disciplina.

Tuttavia, sebbene il tema della spettanza di un importo autonomo, sempre per studio ed introduzione, relativamente alla sola fase contenziosa (e quindi in aggiunta a quello riguardante la fase presidenziale) non poteva avere ingresso in sede di legittimità, non essendo stato oggetto di domanda né di pronuncia, secondo gli Ermellini, risultava, al contrario, fondata la censura sollevata dall'avvocato circa la spettanza del compenso per l'esame delle relazioni dei servizi sociali.

Al riguardo, infatti, il ricorrente ha documentato che tale attività era stata svolta all'udienza presidenziale nel 2018 (allorquando la sua cliente possedeva i requisiti reddituale per l'ammissione al beneficio): sebbene, dunque, il processo, transitato alla fase contenziosa, fosse stato rinviato immediatamente all'udienza di precisazione delle conclusioni, senza svolgimento di istruttoria, ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, art. 4, anche l'esame della relazione era da qualificarsi come atto istruttorio, essendo assimilabile all'esame della c.t.u. o comunque alle attività difensive inerenti alle informazioni o atti istruttori compiuti d'ufficio (per un approfondimento v. M. VACCARI, I parametri comportamentali: un contributo alla definizione della natura dell'obbligazione del professionista legale, in Corriere Giur., 2015, 4, 531).

Difatti, come si ricorderà, l'art. 4 dispone, con previsione non tassativa, che l'istruttoria comprende l'esame degli scritti o documenti delle altre parti o dei provvedimenti giudiziali pronunciati nel corso e in funzione dell'istruzione, gli adempimenti o le prestazioni connesse ai suddetti provvedimenti giudiziali, le partecipazioni e assistenze relative ad attività istruttorie, gli atti necessari per la formazione della prova o del mezzo istruttorio (anche quando disposto d'ufficio), l'esame delle corrispondenti attività e designazioni delle altre parti, nonché l'esame delle deduzioni dei consulenti d'ufficio o delle altre parti.La S.C., quindi, ha accolto, nei limiti appena ricordati, il primo motivo di ricorso.

La questione di legittimità costituzionale. Come anticipato, con il secondo motivo di impugnazione, il ricorrente aveva denunciato altresì la violazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76, comma 2, e art. 92, artt. 24 e 111 Cost., e sollevato questione di legittimità costituzionale delle norme in tema di gratuito patrocinio nel processo civile, laddove non graduano i limiti di reddito per accedere al beneficio in base alla composizione del nucleo familiare, contrariamente a quanto previsto, invece, per il processo penale.

La questione, però, è stata ritenuta manifestamente inammissibile.

Con il D.P.R. 30-5-2002 n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia) il legislatore, al fine di riconoscere il beneficio del gratuito patrocinio a coloro che non possono far fronte al costo economico della loro difesa, ha voluto tenere conto della capacità economico-finanziaria di tutti coloro che, per legami giuridici o di fatto, comunque, possono concorre a formare il reddito familiare. Del resto, non sarebbe conforme ai principi costituzionali di solidarietà, equa distribuzione e di partecipazione di ogni cittadino alla spesa comune attraverso il prelievo fiscale, il fatto di gravare i contribuenti del costo della difesa di un cittadino che può contare sull'apporto economico dei vari componenti il nucleo familiare, ancorché il suo reddito personale gli consenta di accedere al beneficio in questione.

Ne consegue, quindi, che il termine "familiare", secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata, deve riferirsi non solo a coloro che sono legati al richiedente da vincoli di consanguineità o, comunque, giuridici, ma anche a coloro che convivono con lui e contribuiscono al menage familiare (cfr. P. PITTARO, Patrocinio a spese dello Stato cumolo dei redditi familiari, in Fam. e dir., 2017, 12, 1139 e Cass. pen., 11 gennaio 2022, n. 418 e Cass. pen., 8 ottobre 2021, n. 36559).

Sul punto, poi, gli Ermellini hanno richiamato quanto già affermato dalla Consulta con la pronuncia n. 237 del 2015 e il fatto che il legislatore abbia, ab origine, differenziato il trattamento del patrocinio dei non abbienti, mostrando di privilegiare le esigenze di tutela legate all'esercizio della giurisdizione penale, in ragione delle peculiarità che lo caratterizzano rispetto ai procedimenti civili o amministrativi.

Il legislatore, quindi, proprio in considerazione delle particolari esigenze di difesa di chi "subisce" l'azione penale, ha ritenuto necessario approntare un sistema di garanzie che ne assicurasse al meglio l'effettività, anche sotto il profilo dei limiti di reddito per poter fruire del gratuito patrocinio.

La finalità di tutela giurisdizionale sancita dall'art. 24, comma 1, Cost., ma, soprattutto, la necessità di assicurare ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione, prevista dallo stesso art. 24, comma 3, Cost., non presuppongono affatto che "gli appositi istituti" siano modellati in termini sovrapponibili per tutti i tipi di azione e di giudizio, potendo, al contrario, apparire sostanzialmente incoerente un sistema che assegni lo stesso tipo di protezione, sul piano economico, all'imputato di un processo penale, che vede chiamato in causa il bene della libertà personale, rispetto alle parti di una controversia che coinvolga, o possa coinvolgere, beni o interessi di non equiparabile valore (cfr. Corte Cost. n. 237/2015).

Conclusioni.

La Suprema Corte ha, quindi, accolto parzialmente il primo motivo di ricorso, mentre ha dichiarato inammissibile il secondo. L'ordinanza è stata, pertanto, cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa al Tribunale di Milano, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese di legittimità.

*a cura Francesca Ferrandi, Avvocato e Dottore di ricerca

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