Amministrativo

Permessi di soggiorno, la dichiarazione dei redditi non offre completa garanzia sull'autosostentamento dello straniero

Perché la stessa – ha evidenziato il Consiglio di Stato con la sentenza n.7859 del 9 settembre scorso – potrebbe rappresentare un fatto diverso dalla realtà

di Pietro Alessio Palumbo

La mera dichiarazione dei redditi non può ritenersi sufficiente in sé per provare l'attendibilità del reddito dichiarato dallo straniero ai fini del rilascio o del rinnovo del permesso di soggiorno. Ciò perché la stessa – ha evidenziato il Consiglio di Stato con la sentenza n.7859 del 9 settembre scorso – potrebbe rappresentare un fatto diverso dalla realtà. Di qui l'esigenza di rappresentare elementi ulteriori, consistenti nell'allegazione di una documentazione specifica di natura contabile e fiscale, idonea a comprovare quanto (solo asseritamente) dichiarato. Nello specifico, devono essere documentate sia le entrate percepite, sia le uscite sostenute inerenti all'attività lavorativa esercitata (es. costi per l'acquisto di materie prime). A ben vedere – evidenzia il massimo giudice amministrativo - solo attraverso tali adempimenti, la dichiarazione dei redditi può attestare la veridicità di quanto in essa figurato.

Lo scopo, le condizioni, le garanzie
La disciplina di cui al Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero prevede che l'Italia, in armonia con gli obblighi assunti con l'adesione a specifici accordi internazionali, consente l'ingresso nel proprio territorio allo straniero che dimostri di essere in possesso di idonea documentazione atta a confermare lo scopo e le condizioni del soggiorno; nonché la disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno; e, fatta eccezione per i permessi di soggiorno per motivi di lavoro, anche per il ritorno nel Paese di provenienza. Il requisito reddituale minimo costituisce condizione soggettiva non eludibile, in quanto attiene alla sostenibilità dell'ingresso dello straniero nella comunità nazionale, essendo finalizzato a evitare l'inserimento di quei soggetti che non siano in grado di offrire una adeguata contropartita in termini di lavoro ma anche di compartecipazione fiscale alla spesa pubblica; d'altra parte, la dimostrazione di un reddito di lavoro o di altra fonte lecita di sostentamento è garanzia che il cittadino extracomunitario non si dedichi ad attività illecite ovvero criminose. A tal proposito il Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero attribuisce all'Amministrazione un potere ispettivo volto a verificare la congruità della documentazione prodotta dallo straniero, laddove dispone che l'autorità di pubblica sicurezza, quando vi siano fondate ragioni, può richiedere agli stranieri informazioni e atti comprovanti la disponibilità di un reddito da lavoro o da altra fonte legittima, sufficienti al sostentamento proprio e dei suoi familiari conviventi nel territorio dello Stato.

La valutazione autonoma dell'Amministrazione
Tutto quanto descritto, secondo il Giudice amministrativo di Palazzo Spada induce nella vicenda trattata a disattendere le doglianze contenute nell'atto di appello, laddove si afferma che il requisito reddituale andrebbe desunto dall'Amministrazione solo e unicamente sulla base delle dichiarazioni dei redditi prodotte dallo straniero; e che la Questura avrebbe operato illegittimamente nel richiedere ulteriore documentazione all'appellante in sede di preavviso di rigetto. E neppure possono considerarsi pertinenti sul punto, le doglianze in merito a un asserito difetto di istruttoria procedimentale, fondate sulla circostanza che le verifiche effettuate dall'Amministrazione in relazione alle ditte emittenti hanno avuto a oggetto fatture intestate a soggetti diversi dall'appellante. Invero secondo il Consiglio di Stato una simile eccezione potrebbe avere rilievo solo se le risposte da parte delle ditte avessero fatto riferimento all'indicazione di non provenienza da parte loro dei documenti esibiti.
In tali circostanze a ben vedere non può nemmeno eccepirsi che la falsità della documentazione prodotta potrebbe essere dichiarata solo in esito ad accertamenti in sede penale o amministrativo-tributaria. Infatti nel caso di produzione, in sede procedimentale, di documentazione falsa attestante un rapporto di lavoro in realtà insussistente la pubblica amministrazione può legittimamente rifiutare il rilascio del titolo senza che sia necessario che la falsità degli atti risulti dichiarata da una sentenza penale definitiva di condanna. Il tanto ben potendo l'Autorità amministrativa procedere a una valutazione autonoma che, se condotta alla stregua di criteri di ragionevolezza e confortata da idonei elementi di riscontro, neppure è soggetta al sindacato del giudice amministrativo. In questo senso dunque non è richiesto né l'accertamento in sede penale della falsità, né il superamento dello stringente parametro probatorio in materia di dimostrazione probatoria al di là di ogni ragionevole dubbio.
Dalla sentenza in rassegna può dunque ricavarsi il principio generale secondo cui l'utilizzo di documentazione contraffatta, quale l'allegazione di rapporti di lavoro fittizi, è sufficiente a motivare il diniego di rilascio ovvero di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero nel nostro Paese.

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