Penale

Social-network, mai insultare l'avvocato accomunandolo al suo assistito

Dopo l'arresto dei responsabili di un grave episodio di violenza sessuale erano apparsi commenti dal contenuto offensivo e minatorio rivolto agli avvocati che avevano assunto la difesa degli indagati

di Pietro Alessio Palumbo

Quali che siano le frasi e locuzioni adoperate, il delitto di diffamazione può realizzarsi, quando esse abbiano capacità di ledere o mettere alla berlina l'altrui reputazione. Cosa questa che, secondo il comune sentire, si verifica anche nella forma dell'allusione e dell'insinuazione; atteso che l'intento diffamatorio può essere raggiunto anche con mezzi indiretti. Su queste basi secondo il Giudice per le Indagini Preliminari di Viterbo (ordinanza del 13 giugno 2022) deve ritenersi che abbiamo contenuto diffamatorio quei commenti sui blog o sui social network nei quali gli autori, augurando agli avvocati di finire in galera o ai loro familiari di fare la stessa fine delle vittime dei gravi reati in questione, in sostanza insinuano che il comportamento dei difensori sia riprovevole tanto quanto quello dei soggetti che assistono; così assimilando moralmente la figura del difensore a quella di chi si macchia di gravi reati.

Il caso esaminato
Nella vicenda il procedimento traeva origine dalla denuncia-querela sporta dal Presidente di Camera Penale. Nell'atto di querela veniva esposto che, a seguito degli arresti dei responsabili di un grave episodio di violenza sessuale, in calce ad alcuni articoli pubblicati sui noti quotidiani online erano apparsi commenti dal contenuto offensivo e minatorio rivolto agli avvocati che avevano assunto la difesa degli indagati. Commenti che mettevano a rischio, non solo della reputazione individuale dei legali coinvolti nel procedimento, ma persino della figura stessa dell'avvocato penalista quale garante del diritto di difesa. Il Pm avanzava richiesta di archiviazione. Di contrario avviso il Gip che ha ordinato al Pm di svolgere tutte le indagini necessarie, eventualmente avvalendosi della Polizia Postale.
Il Gip ha innanzitutto chiarito come pacifico che soggetti passivi del delitto di diffamazione sono anche gli enti collettivi e le associazioni. È infatti concettualmente ammissibile l'esistenza di un onore sociale collettivo, quale bene morale di tutti i soci, associati, componenti, membri, come un tutto unico, capace di percepire l'offesa. Vanno riconosciuti tre diversi interessi che possono essere lesi dal reato di diffamazione: l'uno, in capo al singolo, per quanto riguarda le offese dirette alla sua persona; un altro facente capo all'ente collettivo, relativamente alle espressioni offensive contro di esso dirette; ed infine un terzo interesse, facente capo alla categoria professionale. E tale ultimo interesse di categoria non coincide, in concreto, né con la somma degli interessi dei singoli, né con l'interesse dell'ente; trattasi di un interesse collettivo, di cui è comunque portatore l'ente esponenziale.
Secondo il Gip in casi come quello in questione, l'offesa, oltre che ai singoli difensori, viene arrecata anche alla categoria cui appartengono. Analoghe invettive, infatti, avrebbero potuto essere rivolte a chiunque avesse svolto il medesimo incarico per garantire l'esercizio del diritto inviolabile e costituzionalmente garantito di difesa; che il nostro ordinamento riconosce, in primo luogo, proprio ai soggetti indagati-imputati, per i quali il difensore viene nominato anche d'ufficio. È configurabile, pertanto, un'offesa ad un bene morale percepibile da più soggetti, in quanto appartenenti ad una determinata categoria, ovvero, quella degli avvocati penalisti. Ecco perché in vicende come quella in parola può ritenersi che la querela possa essere legittimamente presentata dalla Camera Penale stessa; che evidentemente ha, tra i suoi scopi statutari, anche quello di tutelare la dignità, il prestigio ed il rispetto della funzione del difensore. E ciò anche al fine di garantire che la difesa sia assicurata come diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento e del processo; gli associati ben possono percepire i commenti denigratori come una offesa ad un bene morale comune della categoria cui appartengono.
Per altro verso – evidenzia il Gip – va affrontata la questione relativa all'esercizio (legittimo) del diritto di critica. Tale diritto, rappresentando l'esternazione di una opinione relativa a una condotta o ad una affermazione altrui, si inserisce nell'ambito della libertà di manifestazione del pensiero, garantita dalla Costituzione e dalla Convenzione EDU. E proprio in ragione della sua natura di diritto di libertà, il diritto di critica può essere evocato quale scriminante rispetto al reato di diffamazione. Tuttavia il limite della continenza formale postula una forma espositiva proporzionata, "corretta", vale a dire non sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere; non trasmodante nella gratuita e immotivata aggressione dell'altrui reputazione. Per il Gip valicano tale argine della correttezza commenti sul web come "questi avvocati vanno condannati, sono tutti venduti" o "meritate la stessa sorte" o "in galera anche voi". Espressioni che – per il Gip - sono in grado di ledere la nomea e per ciò stesso il credito sociale del soggetto passivo e di tutta la categoria di appartenenza.

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