Casi pratici

I confini della presunzione legale di esterovestizione

Criteri di collegamento e presunzione di esterovestizione.

di Giancarlo Marzo e Corrado Gallo

la QUESTIONE
Cosa si intende per esterovestizione? In quali ipotesi l'Amministrazione finanziaria può contestare l'esterovestizione societaria?

L'art. 73, comma 3 del TUIR considera residenti in Italia le società che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale nel territorio dello Stato. Il parametro di riferimento per l'individuazione della residenza, quindi, e` previsto dal Legislatore sulla base di diversi criteri di collegamento effettivo con il territorio dello Stato, individuati facendo riferimento al dato formale della sede, ovvero, agli ulteriori criteri sostanziali che tengono conto o della peculiare attività economica prevalentemente esercitata per conseguire lo scopo sociale, o del luogo da cui promanano gli impulsi volitivi inerenti l'attività` di gestione dell'ente. Tali criteri sono fra loro alternativi, per cui è sufficiente il realizzarsi di uno solo di essi affinché la società o l'ente siano considerati residenti in Italia.
Per cui, al fine di concretizzare la valutazione della soggettività passiva dell'ente nel territorio dello Stato, il profilo di riferimento e` costituito dall'esistenza di un rapporto tra il soggetto giuridico ed il territorio di riferimento.
Accade sovente che le società realizzino manovre evasive finalizzate alla fittizia localizzazione della propria residenza fiscale all'estero, in particolare, in quelle giurisdizioni che offrono un trattamento fiscale più vantaggioso rispetto a quello previsto a livello nazionale, ove il soggetto effettivamente risiede ed opera. Eludendo, dunque, il criterio della "worldwide taxation", in virtù del quale i redditi ovunque prodotti nel mondo sono soggetti a tassazione nel Paese di residenza, tali soggetti creano realtà fittizie all'estero allo scopo precipuo di sottrarsi a tassazione nel Paese di effettiva appartenenza. In tal modo, le "nuove" entità estero-domiciliate sono tali solo apparentemente, essendo in realtà gestite ed amministrate dall'Italia. Per cui, è in Italia che sussiste la sede reale e quivi vengono assunte le decisioni strategiche dell'ente.
Tale fictio preclude la nascita del presupposto d'imposta nel territorio nazionale, consentendo alla società di sottrarsi fraudolentemente al pagamento delle imposte, conseguentemente provocando una perdita di entrate per l'erario.
La condotta si sostanzia, nei fatti, in un comportamento contrario ai principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell'imposizione.
Proprio al fine di arginare questa pratica, il Legislatore del 2006 ha inserito il comma 5-bis all'art. 73 del TUIR, introducendo una c.d. "presunzione legale di esterovestizione".
In particolare, è stata prevista una presunzione legale relativa di localizzazione in Italia della sede dell'amministrazione per quelle persone giuridiche che presentano i seguenti elementi di collegamento con il territorio dello Stato italiano: i) controllo di società o enti residenti in Italia; ii) presenza di soci di controllo o amministratori in prevalenza residenti in Italia.
La casistica, tuttavia, non si limita ai casi di controllo c.d. diretto (es., controllante italiana A controlla la holding estera B, che, a sua volta, controlla la società italiana C), ma si estende alle ipotesi in cui tra i soggetti residenti controllanti si interpongano più sub-holding estere. Al riguardo, la Circolare 28/E/2006 dell'Agenzia delle Entrate ha specificato che la presunzione opera sia nei confronti del soggetto estero che controlla la società residente, sia al suo livello societario immediatamente superiore (es., tra le società B e C si interpone la società estera D).
Obiettivo della presunzione non è quello di colpire indistintamente i contribuenti italiani che scelgono di stabilire effettivamente la propria sede societaria all'estero, piuttosto quello di ostacolare la collocazione meramente apparente della residenza in un altro Stato, mantenendo la "sostanza" in Italia.
È chiaro che, a differenza del comma 3 dell'art. 73, la previsione di cui al comma 5-bis ha riguardo al rapporto esistente tra due distinti soggetti giuridici e, in particolare, alla specifica interrelazione tra essi configurabile. D'altronde, la ratio sottesa al comma 3 è semplicemente quella di indicare i criteri di collegamento tra soggetti passivi e il territorio dello Stato italiano.
Per cui, una contestazione di esterovestizione basata su tale disposto prescinde dalla presenza di vantaggi fiscali che la presunta esterovestita potrebbe ottenere dalla localizzazione in uno Stato estero, nonché dalla natura fittizia o abusiva di tale insediamento.
Va da sé, dunque, che sussistendo presupposti differenti per l'applicazione dell'una o dell'altra previsione normativa, assume rilievo fondamentale la verifica delle ragioni della pretesa impositiva.

Esterovestizione e legittimo stabilimento
Perché il meccanismo di esterovestizione assuma una connotazione abusiva (aggettivo inteso nella sua accezione più ampia, distante dal concetto di abuso del diritto), occorre, per un verso, che esso abbia come risultato l'ottenimento di un vantaggio fiscale la cui concessione sarebbe contraria all'obiettivo perseguito dalle norme e, per altro verso, che da un insieme di elementi oggettivi risulti che lo scopo essenziale dell'operazione si limiti all'ottenimento di tale vantaggio.
Resta chiaro che, è rimessa al contribuente la scelta della forma di conduzione degli affari più consona e che gli consenta di ridurre al massimo l'imposizione fiscale.
Proprio per tale ragione, le valutazioni operate dall'Amministrazione finanziaria circa la probabile condotta fraudolenta della società esterovestita, non possono non tener conto del principio di "libertà di stabilimento", cristallizzato nell'ordinamento unionale (art. 54 TFUE).
In particolare, dal momento che tale principio consente al cittadino membro di uno Stato di stabilirsi in altro Stato membro per ivi esercitare le proprie attività, la circostanza che una società o un ente siano stati costituiti all'estero allo scopo di fruire di una legislazione più vantaggiosa, non rappresenta di per sé un abuso di tale libertà.
A tal riguardo, mutuando i principi espressi dalla Corte di Giustizia nella sentenza Cadbury Schweppes (C-196/04), la giurisprudenza di legittimità in più occasioni ha avuto modo di chiarire che la scelta del contribuente di localizzare l'impresa in un determinato Paese debba essere considerata legittima anche ove dettata da interessi di vantaggio fiscale, a condizione che l'insediamento sia effettivo e l'attività economica svolta in quel Paese reale.
La nozione di stabilimento di matrice comunitaria presuppone l'esercizio effettivo di un'attività economica reale, per una durata di tempo indeterminata, attraverso un insediamento concreto della compagine all'interno dello Stato membro. Da ciò consegue che l'Amministrazione finanziaria è legittimata a contestare l'esterovestizione e attuare restrizioni alla libertà di stabilimento soltanto nelle ipotesi in cui emergano comportamenti consistenti nel creare realtà puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale.
Diversamente, non ricorre la localizzazione artificiosa all'estero laddove il contribuente eserciti la propria attività mediante una realtà economica effettiva e attraverso elementi oggettivi quali, presenza fisica di locali, personale e attrezzature oggettivamente verificabili da terzi.

L'Ordinanza n. 26538 dell'8 settembre 2022
Gli approdi giurisprudenziali europei hanno costituito un terreno fertile per la proliferazione di orientamenti interni, spesso, favorevoli alle scelte imprenditoriali. In tale solco si innesta l'ordinanza della Corte di Cassazione n. 26538 dell'8 settembre scorso, giunta a dirimere una controversia riguardante l'esatta individuazione dei parametri normativi di riferimento ai fini della individuazione della soggettività passiva nello Stato italiano di una società avente sede in altro Paese.
Nel caso al vaglio di legittimità, l'Amministrazione finanziaria aveva notificato ad una società lussemburghese quattro avvisi di accertamento con i quali, relativamente agli anni dal 2003 al 2006, sul presupposto che la suddetta società avesse fittiziamente localizzato in Lussemburgo la propria sede, aveva recuperato l'IVA non applicata alle fatture emesse nei confronti della propria controllata italiana, oltre alla maggiore IRES non dichiarata relativamente alla quota parte di utili percepiti e distribuiti dalla controllata.
Il giudice di secondo grado aveva ritenuto sussistenti, nella fattispecie i presupposti di cui all'art. 73, comma 5-bis del TUIR, in particolare, che la prova dell'esterovestizione potesse trovare fondamento su di una serie di e-mail, rinvenute a seguito di attività ispettiva, da cui poteva evincersi che il ruolo effettivo e sostanziale di direzione della società controllante era svolto, in realtà, dall'amministratore della società controllata. Sicché doveva ritenersi che la controllante fosse residente ai fini fiscali nel territorio italiano ed ivi soggetta al pagamento dell'Ires accertata.
Fatta una breve disamina del quadro normativo di riferimento, la Suprema Corte ha preliminarmente precisato che, ai fini della corretta applicazione della previsione normativa di cui all'art. 73 del TUIR, e` necessario che l'Amministrazione finanziaria accerti la situazione di apparente costituzione del soggetto localizzato all'estero e che lo scopo essenziale dell'operazione di localizzazione si limiti all'ottenimento di un vantaggio fiscale: ciò perché essendo rimessa al contribuente la scelta tra due operazioni, nessuna disposizione impone che questi debba preferire quella che implica il pagamento di maggiori imposte, avendo al contrario libero arbitrio in ordine alla forma di conduzione degli affari che gli consenta di ridurre la sua contribuzione fiscale. Principi, questi, in linea con la giurisprudenza unionale in materia (si veda, Corte giust., C419/14, C-255/02, C-425/06, nonché C-277/09, C-398/16 e 399/16).
Poste tali premesse, la Corte ha sottolineato che l'esterovestizione societaria deve essere rilevata laddove essa risulti "funzionale ad una condotta abusiva del suo utilizzo", non potendo l'Amministrazione addentrarsi nelle scelte di localizzazione societarie finalizzate ad un legittimo risparmio di imposta.
Per tali ragioni, nel caso di specie, è stata esclusa una condotta fraudolenta di esterovestizione da parte della controllante estera.
Stando al decisum, infatti, poiché ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, non è dirimente accertare la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma piuttosto se si sia stata artificiosamente creata una forma giuridica che non riproduca una corrispondente e genuina realtà economica, non risultano decisive le e-mail inviate dall'amministratore unico della società controllata alla propria controllante estera.
In altri termini, l'ammonimento all'Amministrazione finanziaria è quello di dover indagare le vere ragioni della scelta imprenditoriale intrapresa dalla controllante.
Nella fattispecie, al contrario, l'ufficio delle Entrate aveva dapprima contestato il comma 3 dell'art. 73 del TUIR, per poi, in corso di causa, aggiustare illegittimamente il tiro contestando la violazione del comma 5-bis della medesima norma.
Tale ultima disposizione, come precisato dalla Cassazione, afferisce ai rapporti tra le diverse realtà produttive, diversamente dal comma 3, quest'ultimo quale norma generale che regola l'esistenza di un rapporto tra il soggetto giuridico ed il territorio di riferimento.
Proprio la sussistenza di presupposti differenti per l'applicazione dell'una o dell'altra previsione normativa, induce a ritenere che, ai fini di una corretta valutazione in termini di esterovestizione "assume rilievo fondamentale la verifica delle ragioni della pretesa impositiva".
Come sottolineato dagli ermellini, nel caso di specie, il giudice del gravame ha errato nella qualificazione giuridica della pretesa erariale, incorrendo in un errore di giudizio e in una falsa applicazione della normativa in materia di esterovestizione. Quel che deve essere accertato, ai fini della corretta applicazione della previsione normativa in esame, è di fatto la situazione di apparente costituzione di un soggetto localizzato all'estero.
Chiosa la Corte, al riguardo: "In linea con la giurisprudenza unionale, (…) il contribuente (…) non è obbligato a preferire quella che implica il pagamento di maggiori imposte, ma, al contrario, ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli consenta di ridurre la sua contribuzione fiscale" evitando "costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale".
L'art. 73, comma 5-bis del TUIR, evidenzia la pronuncia, serve a limitare i presupposti di applicazione della previsione in esame alla circostanza che la società avente sede all'estero, oltre che detenere la partecipazione di controllo di altra società, sia a sua volta controllata, anche indirettamente, ai sensi dell'art. 2359, primo comma, c.c., da soggetti residenti nel territorio dello Stato, ovvero, sia amministrata da un consiglio di amministrazione composto prevalentemente da consiglieri residenti nel territorio dello Stato.
Ebbene, proprio riguardo al primo presupposto (erroneamente vagliato dal giudice di merito), il Legislatore ha precisato che il controllo, che a sua volta la società controllata deve esercitare, deve trovare riferimento nella previsione di cui all'art. 2359, primo comma, c.c., secondo cui "Sono considerare società controllate: 1) le società in cui un'altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell'assemblea ordinaria; 2) le società in cui un'altra società dispone di voti sufficienti per esercitare un'influenza dominante nell'assemblea ordinaria; 3) le società che sono sotto influenza dominante di un'altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa".
Sono questi, conclude la Corte, i parametri normativi cui deve necessariamente farsi riferimento al fine di potere ritenere sussistente uno specifico rapporto tra soggetti distinti che può, in determinati casi, attivare l'applicazione della presunzione legale di esterovestizione di cui all'art. 73, comma 5-bis.

Considereazioni conclusive
Va salutata con favore l'ordinanza in commento in quanto si pone in linea con gli insegnamenti impartiti dalla giurisprudenza comunitaria che tende ad attribuire maggior rilievo agli aspetti sostanziali della disciplina dell'esterovestizione societaria. In antitesi con certe interpretazioni restrittive, spesso finalizzate esclusivamente all'esaltazione di aspetti meramente formali e che avviliscono la ratio sottesa alla disciplina in parola, rivolta, da un lato, a contrastare la fittizia creazione di forme giuridiche non rispondenti ad una genuina realtà economica, dall'altro, ad evitare che venga precluso il naturale sorgere del presupposto impositivo a livello interno.
la SELEZIONE GIURISPRUDENZIALE

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