Penale

La mancata adozione del Modello organizzativo non determina la responsabilità dell'ente

Nota a sentenza Cassazione Penale, Sez. IV, n. 18413 del 14 febbraio 2022

di Fabrizio Sardella *

Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha fornito i necessari chiarimenti al fine di identificare correttamente la struttura dell'illecito amministrativo derivante da reato, come definito dal D.lgs. 231/01. In particolare, la Suprema Corte ha approfondito i presupposti necessari ai fini dell'incolpazione della persona giuridica, ponendo in rilievo l'indefettibilità del passaggio logico-giuridico primario: l'accertamento di un interesse o vantaggio dell'ente. La rigorosa analisi di questo elemento consente di scindere marcatamente l'illecito contestato all'ente dal reato commesso, invece, alla persona fisica. Da ciò discende che l'accertamento della mancata adozione di un Modello organizzativo e della omessa nomina di un Organismo di Vigilanza non possano essere reputati sufficienti ai fini dell'affermazione della responsabilità ex criminis in capo all'ente incolpato.

Il ricorso è avverso una sentenza che confermava la responsabilità a carico dell'ente, ai sensi dell'art. 25-septies del D.lgs. 231/01 , emanata dal Tribunale vicentino e confermata in grado d'appello a Venezia. Dal giudizio di merito traspare, in tutta evidenza, una erronea ricostruzione tecnico giuridica della struttura dell'illecito derivante da reato, che si è tradotta in un provvedimento di condanna irrimediabilmente lacunoso ed incoerente in punto di motivazione. Sicché, la Corte di Cassazione, interpellata tramite il ricorso in analisi, ha censurato l'ultima pronuncia, operando il rituale rinvio ad altra sezione della Corte circondariale.

Procedendo con ordine, ecco gli snodi della vicenda fondamentali ai fini della presente analisi. Anzitutto, è doveroso chiarire che il procedimento penale è insorto in conseguenza di una lesione personale aggravata da violazione della normativa in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro, occorsa ai danni di un dipendente della società incolpata. In conseguenza dell'evento lesivo si sono profilati due distinti capitoli di responsabilità: l'uno, quello "tradizionale" gravante sulla persona fisica-datore di lavoro, e l'altro attagliato, invece, alla persona giuridica (società intestataria del rapporto di lavoro dipendente). Sicché sono gemmati due separati filoni processuali, il primo dei quali ha condotto alla condanna di un amministratore della società, ai sensi dell'art. 590 c.p., comma terzo, c.p.; il secondo ha invece portato alla condanna dell'ente, reputandosi accertata la realizzazione dell'illecito amministrativo dipendente da reato, previsto e punito dall'art. 25-septies, comma terzo, del D.lgs. 231/01. Ad interessare particolarmente, nel caso di specie, sono le ragioni addotte nella motivazione della sentenza che ha disposto la condanna dell'ente, poste a sostegno del ragionamento che ha indotto la Corte locale a condannare l'ente, riscontrandone l'interesse in ragione della " assenza di un modello organizzativo avente ad oggetto la sicurezza sul lavoro" nonché della omessa nomina di un " organo di vigilanza che verificasse con sistematicità e organicità la rispondenza delle macchine operatrici […] ". Diversi sono gli aspetti critici che inficiano le argomentazioni addotte dalla Corte d'Appello, tutti accuratamente approfonditi dalla Corte di Cassazione nella sentenza di accoglimento in commento. In primo luogo, la Suprema Corte ha censurato l'approccio adottato in sede di descrizione del capo d'accusa, evidenziando come dallo stesso " non emerga con chiarezza il concreto profilo di responsabilità addebitato alla società" . Risulta, infatti, fallace la correlazione operata nel giudizio di merito, tra incolpazione della società e mancata adozione del modello organizzativo, e ciò in quanto, ancorché la concreta adozione di un modello organizzativo idoneo a prevenire gli illeciti e rispondente ai canoni posti dal Decreto possa consentire di escludere la responsabilità dell'ente per l'illecito, la mancanza dello stesso non si può reputare, ex se, sufficiente a giustificare un addebito di responsabilità in capo alla persona giuridica incolpata. Nemmeno, si aggiunge, è sufficiente che sia contestata la mancata nomina di un Organismo di Vigilanza.

La Suprema Corte si è, quindi, premurata di svolgere un breve approfondimento dogmatico, orientato a chiarire le dinamiche di attribuzione della responsabilità agli enti, e così illustrando i meccanismi che si pongono alla base del D.lgs. 231/01. Ha ricordato che, affinché si possa pervenire ad un provvedimento di condanna nei confronti di un ente collettivo, è necessario, preliminarmente, accertare la sussistenza di almeno uno dei due criteri di imputazione oggettiva del fatto illecito, disciplinati dall'art. 5 del D.lgs. 231/01 , ed alternativi tra loro. Deve quindi essere provato che il fatto illecito sia stato realizzato nell'interesse dell'ente, valutando ex ante, in chiave soggettiva, la proiezione finalistica dell'agire criminoso della persona fisica autrice della condotta; ovvero che dal reato-base sia derivato un vantaggio in capo alla persona giuridica, da valutarsi ex post e su base oggettiva. Tali concetti sono stati variamente approfonditi dalla dottrina specialistica e più volte vagliati in sede di giudizio di legittimità , tuttavia, ancora oggi, la ratio sottesa pare non essere stata universalmente recepita. Più specificamente, molteplici approfondimenti accademici e numerose sentenze hanno vagliato la problematica afferente al rapporto tra il requisito dell'interesse o vantaggio e gli illeciti colposi rilevanti ex D.lgs. 231/01, tra i quali rientrano naturalmente i reati di omicidio colposo e di lesioni colpose di cui all'art. 25-septies . In tali particolari casi, l'interesse in capo alla società si identifica nel risparmio di spesa conseguito in relazione al mancato approntamento delle necessarie cautele, ovvero nel risparmio di tempo volto a velocizzare le lavorazioni, a discapito della sicurezza dei lavoratori. Decisiva, ai fini del riconoscimento di una colpa organizzativa in capo all'ente incolpato, risulta essere sempre l'assunzione di una scelta d'impresa mirata a sacrificare la sicurezza del personale all'altare della produttività. Evidenziati tali aspetti, la Cassazione ha posto in evidenza, anche richiamando un'altra recente sentenza di legittimità, la corretta ricostruzione della struttura dell'illecito dipendente da reato. La Corte ha chiarito che nell'illecito debbono concorrere la " relazione funzionale tra reo ed ente " e la " relazione teleologica tra reato ed ente ", ciò ai fini della ricostruzione della presenza di una immedesimazione organica e della contestazione all'ente di un fatto proprio, anziché di un fatto altrui . Non solo, per evitare di incorrere in pericolosi automatismi, assimilabili alla attribuzione di una responsabilità oggettiva in capo alla persona giuridica, è, altresì, doveroso appurare la sussistenza di una colpa organizzativa a carico della stessa, che sia causalmente correlata all'illecito presupposto, nonché autonoma e distinta rispetto ai profili di responsabilità della persona fisica autrice della condotta illecita. Nella sentenza di merito censurata, il risparmio di spesa veniva identificato nel " risparmio di spesa quale tempo lavorativo da dedicare alla sua predisposizione ed attuazione ", con un richiamo limitato e solo generico di altre possibili voci di risparmio di spesa.

In definitiva, le argomentazioni proposte dalla Corte d'Appello a sostegno della pronuncia di condanna vengono definite carenti e contradditorie dalla Cassazione. Ed infatti, quest'ultima ha ritenuto evidente che la Corte di merito avesse sovrapposto e confuso i profili di responsabilità degli amministratori/datori di lavoro con quelle dell'ente. Di più, la Corte d'Appello avrebbe omesso di vagliare adeguatamente la prova della eventuale sussistenza di una colpa di organizzazione in capo all'ente, consistente in una carenza organizzativa tale da determinare una situazione di fatto propizia per la commissione dell'illecito presupposto . Evidenzia la Corte di Cassazione che tale valutazione rappresenta uno snodo irrinunciabile ai fini della configurabilità dell'illecito da imputarsi all'ente, si impone infatti che la " colpa di organizzazione sia rigorosamente provata e non confusa o sovrapposta con la colpevolezza del (dipendente o amministratore dell'ente) responsabile del reato ".

Infine, la Cassazione ha mosso una ulteriore contestazione all'iter argomentativo sviluppato dalla Corte veneta. Nella specie, come già si è accennato, la sentenza di condanna si fondava, oltre che sulla mancata adozione di un modello organizzativo, anche sul la mancata nomina di un Organismo di Vigilanza che fosse deputato a verificare pedissequamente l'efficienza e lo stato di manutenzione dei macchinari utilizzati all'interno dell'azienda. Ebbene, la Suprema Corte correttamente ha chiarito che attribuzioni di tale sorta risultano del tutto estranee ed ultronee rispetto a quelli che sono i compiti che devono gravare, in concreto, sull'Organismo di Vigilanza. Prevede, infatti, il D.lgs. 231/01 che l'Organismo di Vigilanza sia incaricato di vigilare sul funzionamento e l'osservanza del modello organizzativo, oltre che di curarne l'aggiornamento. È naturale che in un contesto aziendale che palesi evidenti rischi per la sicurezza, tra i compiti dell'OdV rientrino, fuor di dubbio, anche quelli di instaurare ed intrattenere costanti flussi informativi da e verso le funzioni deputate all'adozione delle misure tecniche preventive e ad esperire i necessari controlli di efficienza. E quindi l'OdV ben potrà intervistare (o sottoporre a questionari periodici) il Datore di lavoro, il RSPP o l'ASPP, come anche il RLS; così raccogliendo ogni informazione necessaria a far emergere un qualsivoglia deficit organizzativo e, conseguentemente, sollecitare i vertici organizzativi ad apportare i necessari interventi rimediali. Tuttavia, non possono certo essere addossati all'organismo di vigilanza oneri di verifica a carattere tecnico, della specie di quelli menzionati nella sentenza di merito .

In conclusione, dalla pronuncia della Corte di Cassazione si possono ricavare diversi principi di ordine generale: la mera assenza di un modello organizzativo, così come la omessa nomina di un OdV, non sono sufficienti ad integrare il requisito dell'interesse o vantaggio ex art. 5 del D.lgs. 231/01 e né, tantomeno, a fondare una sentenza di condanna a carico dell'ente; ai fini della configurabilità dell'illecito dipendente da reato a carico della persona giuridica, non si può mai prescindere dal fornire la rigorosa prova circa la presenza di una colpa di organizzazione a carico dello stesso, che abbia favorito l'esecuzione della condotta illecita della persona fisica (apicale o subordinata) operante all'interno dell'ente.

Non si può che giudicare positivamente l'intervento ermeneutico della Corte di Cassazione, che ha voluto sgombrare il campo da storture interpretative che, purtroppo, sovente prendono piede presso le corti locali, talvolta ancora poco avvedute in sede di applicazione della responsabilità degli enti da reato ex D.lgs. 231/01. Ed infatti, nella valutazione della responsabilità 231 degli enti, il vaglio di idoneità del modello pertiene ad una fase cronologicamente secondaria del percorso argomentativo che il giudice è chiamato a svolgere. E, infatti, la valutazione circa l'avvenuta adozione di un Modello organizzativo "idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi", si rende necessaria solo ed esclusivamente qualora sia già stata appurata l'esistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi sottesi alla affermazione della possibile responsabilità dell'ente. L'assenza del modello, quindi, deve essere valutata solo dopo che:

•sia stato accertato il reato-base presupposto alla responsabilità;

•sia provato che tale reato sia stato commesso da un soggetto – apicale o sottoposto all'altrui direzione – interno all'ente e

•il reato-base sia stato commesso nell'interesse o a vantaggio dell'ente.

Invertire l'ordine di verifica conduce inevitabilmente al vizio motivazionale cassato dagli Ermellini.

Una volta accertata la sussistenza degli ineludibili presupposti, deve altresì essere accuratamente vagliata la presenza di una carenza organizzativa interna all'ente, che abbia consentito all'autore del reato di agire liberamente; un "modo di essere colposo" dell'ente, imputabile ad un deficit strutturale interno allo stesso, che non ha permesso di prevenire ed impedire la condotta illecita. Solo a questo punto viene in rilievo il possesso o meno del Modello organizzativo menzionato dagli artt. 6 e 7 del Decreto. Il Modello, qualora si riveli idoneo a prevenire gli illeciti della natura di quelli verificatisi, consente di escludere la colpa di organizzazione. Opera quindi quale strumento di prova liberatoria appannaggio dell'ente incolpato, ed il suo mancato possesso non può mai giustificare l'ingenerarsi di schemi presuntivi di colpevolezza organizzativa né, tantomeno di automatismi sanzionatori. Ciò anche in considerazione del fatto che, si rammenta, l'adozione del Modello organizzativo non è prevista come obbligatoria dalla legge. Dalla sentenza esaminata si può quindi trarre un ulteriore insegnamento. Quello secondo cui il Modello organizzativo non è importante in quanto mero adempimento formale, destinato a permanere sulla carta. Esso diviene, invece, un fondamentale strumento di prevenzione e controllo se e quanto riesce a penetrare nella prassi operativa dell'ente, coadiuvando e coordinando le funzioni aziendali, al fine di approntare un sistema di compliance integrata concretamente idoneo e funzionale alla diffusione della cultura della legalità all'interno della società, che costituisca un invalicabile argine per chiunque intenda intraprendere azioni criminose, ancorché orientate a perseguire un vantaggio, di qualsivoglia natura, per la società.

Il Modello 231 è utile ed efficace solo e quando è in grado di produrre effetti sostanziali, eliminando o riducendo ai minimi termini le negligenze organizzative.

*a cura dell'avv. Fabrizio Sardella, Partner 24 Ore

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