Civile

Tribunali civili: le principali sentenze di merito della settimana

La selezione delle pronunce della giustizia civile nel periodo compreso tra il 7 e l'11 novembre 2022

di Giuseppe Cassano

Nel corso di questa settima le Corti d'Appello si pronunciano in tema di garanzia per i vizi della cosa venduta, contratto preliminare, recesso nel contratto di opera professionale e, infine, contratto di assicurazione.
Da parte loro i Tribunali si occupano di: azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e dei sindaci di una società di capitali; risarcimento danni conseguente alla commissione di un reato; contratti di mutuo e di appalto; ricognizione di debito; capacità naturale del testatore.


VENDITA
Garanzia per i vizi della cosa venduta – Riconoscimento da parte del venditore - Effetti
(Cc, articoli 1495, 2936)
In materia di compravendita sono previste a favore dell'acquirente specifiche forme di tutela contro l'inattuazione, o l'inesatta attuazione, dell'attribuzione traslativa; tra queste rileva la disposizione di cui all'articolo 1490 c.c., ossia la garanzia per i vizi della cosa venduta.
Tale garanzia legittima il compratore all'esercizio di tre distinte azioni nei confronti del venditore:
1) l'azione di risoluzione (cosiddetta actio redhibitoria), che non differisce da quella ordinaria di risoluzione, salvo taluni aspetti;
2) l'azione estimatoria (actio aestimatoria o quanti minoris), volta a conservare il sinallagma contrattuale mediante la riduzione del prezzo di vendita in misura corrispondente alla diminuzione di valore del bene provocata dal vizio;
3) l'azione risarcitoria, basata sui generali principi in tema di inadempimento, che spetta al compratore "in ogni caso" (articolo 1494 c.c.), cioè indipendentemente dalla proposizione delle prime due azioni, pur essendo soggetta (al pari delle altre due, note anche come azioni edilizie) ai termini ex articolo 1495 c.c.
Orbene, la Corte d'Appello di Cagliari afferma, in punto di diritto, come, in tema di garanzia per vizi nella compravendita, il riconoscimento dei difetti da parte del venditore - che, ai sensi dell'articolo 1495, II, c.c., esonera il compratore dall'onere della tempestiva denuncia - può aver luogo anche tacitamente, per "facta concludentia", come nel caso in cui lo stesso venditore provveda alla sostituzione della cosa.
Non solo. Tale riconoscimento concerne la materiale esistenza del vizio, non essendo necessaria un'ammissione di responsabilità del venditore medesimo.
Qualora, dunque, il venditore si impegni ad eliminare i vizi, e l'impegno sia accettato dal compratore, sorge un'autonoma obbligazione di "facere" che, ove non estingua per novazione la garanzia originaria, a questa si affianca, rimanendo ad essa esterna e, quindi, non alterandone la disciplina.
Ne consegue che, in tale ipotesi, anche considerato il divieto dei patti modificativi della prescrizione, sancito dall'articolo 2936 c.c., l'originario diritto del compratore alla riduzione del prezzo e alla risoluzione del contratto resta soggetto alla prescrizione annuale, di cui all'articolo 1495 c.c., mentre l'ulteriore suo diritto all'eliminazione dei vizi ricade nella prescrizione ordinaria decennale.
Corte di Appello di Cagliari, sezione II, sentenza 8 novembre 2022 n. 481

CONTRATTI
Contratto preliminare – Termine – Contratto definitivo
(Cc, articolo 1457)
Osserva in sentenza la Corte d'Appello di Campobasso come, in tema di contratto preliminare di compravendita, il termine stabilito per la stipulazione del contratto definitivo non costituisca normalmente un termine essenziale, il cui mancato rispetto legittima la dichiarazione di scioglimento del contratto.
Tale termine può ritenersi essenziale, ai sensi dell'articolo 1457 c.c., solo quando, all'esito di indagine istituzionalmente riservata al Giudice di merito, da condursi alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti e, soprattutto, della natura e dell'oggetto del contratto risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di considerare ormai perduta l'utilità economica del contratto con l'inutile decorso del termine.
Con la precisazione che tale volontà non può desumersi solo dall'uso della semplice espressione "entro e non oltre" quando non risulti dall'oggetto del negozio, o da specifiche indicazioni delle parti, che queste hanno inteso considerare perduta l'utilità prefissasi nel caso di conclusione del negozio stesso oltre la data considerata.
In altre parole, il termine per la stipulazione del contratto definitivo non può considerarsi essenziale di per sé, ma può considerarsi tale solo se le parti abbiano esplicitato le ragioni che, a seguito del suo inutile decorso, facciano venire meno l'interesse a concluderlo, così da attivare un meccanismo risolutivo automatico.
Se ne deve dedurre che, laddove il termine dichiarato essenziale dalle parti sia decorso, il contratto preliminare sarà risolto di diritto, anche se il contraente adempiente non abbia intimato l'adempimento alla controparte.
Diversamente, nel caso in cui il termine indicato nel preliminare non possa ritenersi essenziale e questo sia inutilmente scaduto, la parte adempiente potrà addivenire alla risoluzione solo intimando l'adempimento alla controparte, avendo la diffida lo scopo di realizzare gli effetti risolutivi collegati al termine essenziale.
Infine, a fronte di un termine essenziale per l'adempimento, la risoluzione del contratto opera di diritto, essendo stata anticipatamente valutata dai contraenti, dovendo così il Giudice limitarsi ad accertare la sussistenza e l'imputabilità dell'inadempimento.
• Corte di Appello di Campobasso, sentenza 8 novembre 2022 n. 269

CONTRATTI
Contratto di opera professionale – Termine di durata – Recesso ad nutum
(Cc, articolo 2237)
Nel contratto di prestazione di opera professionale il recesso del cliente, giustificato o meno, non incide sulla determinazione della misura del compenso, se non nel senso che il compenso è dovuto non per tutta l'opera commessa, ma solo per l'opera svolta (articolo 2237, I, c.c.).
Pertanto, se vi è stata tra le parti una valida determinazione convenzionale del compenso, essa- salvo che le parti stesse abbiano manifestato una volontà contraria - rimane pur sempre applicabile anche nel caso di recesso del cliente, con la sola conseguenza che il compenso pattuito per l'intera opera dovrà essere proporzionalmente ridotto in relazione all'opera prestata.
Il compenso per l'opera svolta deve essere determinato secondo i criteri di cui all'articolo 2233 c.c. sicchè, in caso di pattuizione forfettaria del corrispettivo, correttamente la parte di esso spettante per le prestazioni rese alla data del recesso viene determinata in misura proporzionale rispetto all'intero compenso.
È affermazione in punto di diritto della Corte d'Appello di Milano quella secondo cui, in tema di contratto di opera professionale, la previsione di un termine di durata del rapporto non esclude di per sé la facoltà di recesso ad nutum previsto, a favore del cliente, dal primo comma dell'articolo 2237 c.c., dovendosi accertare in concreto, in base al contenuto del regolamento negoziale, se le parti abbiano inteso o meno vincolarsi in modo da escludere la possibilità di scioglimento del contratto prima della scadenza pattuita.
Con la precisazione che la predeterminazione di un termine di durata del contratto può integrare rinuncia da parte del cliente al recesso ove dal complessivo regolamento negoziale possa inequivocabilmente ricavarsi la volontà delle parti di vincolarsi per la durata del contratto, vietandosi reciprocamente il recesso prima della scadenza del termine finale.
Inoltre, il rapporto di prestazione d'opera professionale postula il conferimento del relativo incarico in qualsiasi forma idonea a manifestare il consenso delle parti, sicché, quando sia contestata l'instaurazione di un siffatto rapporto, grava sull'attore l'onere di dimostrarne l'avvenuto conferimento, anche ricorrendo alla prova per presunzioni, mentre compete al Giudice del merito valutare se gli elementi offerti, complessivamente considerati, siano in grado di fornire una valida prova presuntiva.
Corte di Appello di Milano, sezione II, sentenza 9 novembre 2022 n. 3511

ASSICURAZIONE
Contratto di assicurazione – assicurazione contro il furto – Indennizzo assicurativo
(Cc, articoli 1900, 2697)
Precisa la Corte d'Appello di Bari – adita in tema di responsabilità contrattuale – che nel giudizio promosso dall'assicurato nei confronti dell'assicuratore, avente ad oggetto il pagamento dell'indennizzo assicurativo, è onere dell'attore provare che si è verificato un rischio ricompreso nei "rischi inclusi" e, cioè, nella categoria generale dei rischi oggetto di copertura assicurativa, mentre è al debitore convenuto che incombe di dare la prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto adempimento ovvero dal fatto impeditivo o modificativo.
Invero, poiché nell'assicurazione contro i danni il fatto costitutivo del diritto dell'assicurato all'indennizzo consiste in un danno verificatosi in dipendenza di un rischio assicurato e nell'ambito spaziale e temporale in cui la garanzia opera, ai sensi dell'articolo 2697 c.c., spetta al danneggiato dimostrare che si è verificato un evento coperto dalla garanzia assicurativa e che esso ha causato il danno di cui reclama il ristoro e chiede la copertura ai fini della responsabilità civile, fermo restando il limite del dolo e della colpa grave disciplinato nell'articolo 1900 c.c. che esclude per l'assicurato il diritto al riconoscimento dell'indennizzo.
E dunque, ove si tratti di una assicurazione contro il furto (di autovettura), la prova del furto del bene assicurato, posto alla base della domanda indennitaria, deve essere fornita dall'attore non soltanto con la produzione della denuncia-querela di furto poiché quest'ultimo è atto di parte ed i fatti in essa indicati non possono assurgere a fatti certi, se non attraverso il filtro del Giudice nel corso dell'istruttoria; di modo che quei fatti sono e debbono essere essi stessi oggetto di accertamento, che non può dirsi realizzato sol perché sussista una denuncia penale.
L'attore che agisce in giudizio per ottenere la liquidazione deve pertanto non soltanto allegare la denuncia sporta alle Autorità, ma anche dimostrare la preesistenza dell'autovettura nel luogo e nelle condizioni dichiarate, la verificazione dell'evento ed il valore economico del veicolo come vettura circolante, oltre a dimostrare di essersi adoperato con la normale diligenza.
Corte di Appello Bari, sezione II, sentenza 10 novembre 2022 n. 1649

SOCIETÀ
Società di capitali - Amministratori e sindaci – Azione di responsabilità
(Cc, articoli 2394, 2407, 2941; Rd 16 marzo 1942, n. 267, articolo 146)
Rammenta, in punto di diritto, l'adito Tribunale di Ancona che l'azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e dei sindaci di una società di capitali, spettante, ex articoli 2394 e 2407 c.c., ai creditori sociali, ed altresì esercitabile dal curatore fallimentare ex articolo 146 Rd n. 267/1942, è soggetta a prescrizione quinquennale decorrente dal momento in cui l'insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti risulti da qualsiasi fatto che possa essere conosciuto, non richiedendosi, a tal fine, che essa emerga da un bilancio approvato dall'assemblea.
Precisamente, tale l'azione di responsabilità è soggetta al termine di prescrizione quinquennale, che inizia a decorrere dal momento in cui il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti e può anche essere anteriore alla data dell'apertura della procedura concorsuale; l'onere di provare che l'insufficienza del patrimonio sociale si è manifestata ed è divenuta conoscibile prima della dichiarazione di fallimento grava sull'amministratore, o sul sindaco, che eccepisce la prescrizione e non può essere assolto mediante la generica deduzione, non confortata da utili elementi di fatto, secondo cui l'insufficienza patrimoniale si sarebbe manifestata già al momento della messa in liquidazione della società, in quanto questo procedimento non è necessariamente determinato dalla eccedenza delle passività sulle attività patrimoniali, mentre la perdita integrale del capitale sociale neppure implica la consequenziale perdita di ogni valore attivo del patrimonio sociale.
Invero, l'insufficienza patrimoniale e lo stato di indebitamento non sono di per sé sintomi necessari ed essenziali per l'esercizio dell'azione di responsabilità verso amministratori e sindaci atteso che deve invece risultare ai terzi – da qualsiasi fatto che possa essere conosciuto – che dette circostanze siano imputabili al dolo o alla colpa degli amministratori e sindaci, atteso che in caso contrario si obbligherebbero i creditori ad azioni meramente esplorative in presenza del semplice prevalere delle passività sulle attività.
Nel caso di fallimento non vi è dubbio che detto termine decorra dalla declaratoria del fallimento, posto che a quel punto la curatela è in condizione di valutare il complesso della gestione altrui.
La prescrizione resta poi sospesa fino a quando l'amministratore sia in carica (articolo 2941 c.c. n. 7).
Tribunale di Ancona, sezione speciale impresa, sentenza 8 novembre 2022, n. 1280

RESPONSABILITA' E RISARCIMENTO
Illecito penale – Risarcimento danni – Danno conseguenza

Sottolinea in sentenza il Tribunale di Pisa come la sentenza penale che, accertando l'esistenza del reato, abbia altresì pronunciato condanna definitiva dell'imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, demandandone la liquidazione ad un successivo e separato giudizio, non possa essere rimessa in discussione, nel relativo giudizio civile, quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e della sua commissione da parte del condannato: dette circostanze entrano infatti nel processo civile come elementi acclarati coperti da giudicato e, in quanto tali, non suscettibili di nuova disamina.
Deve, al contrario, essere oggetto di riscontro nel contenzioso civile il cosiddetto danno conseguenza, ossia l'insieme degli effetti pregiudizievoli che la vittima dell'illecito ha sofferto a causa della condotta antigiuridica posta in essere dall'agente; in relazione a tale profilo al Giudice civile è demandata l'indagine sull'esistenza ed entità delle conseguenze pregiudizievoli derivate dal fatto individuato come "potenzialmente" dannoso e del nesso di derivazione causale tra questo e i pregiudizi lamentati dal danneggiato.
Alla luce di tale premessa osserva ancora l'adito Tribunale come, benché l'occupazione senza titolo di un immobile costituisca indiscutibilmente fonte potenziale di un danno ingiusto, il proprietario che agisca per il risarcimento del danno nei confronti dell'occupante abusivo ha l'onere di fornire la prova dell'esistenza certa e dell'entità del danno subito a causa della predetta situazione, in termini di mancato godimento diretto o in termini di eventuale mancato guadagno per impossibilità di trarne un profitto, in modo da consentire al Giudice di quantificare tale posta risarcitoria anche facendo ricorso alle presunzioni semplici.
E, così, anche laddove si debba fare ricorso ad una valutazione di tipo presuntivo, è onere della parte fornire al giudicante un quadro indiziario da cui sussumere elementi idonei a supportare una stima equitativa, o almeno il cosiddetto "danno figurativo" quale il valore locativo del bene usurpato, non potendo le presunzioni, quali mere tecniche di accertamento, supplire alla carenza di allegazione della parte.
Tribunale di Pisa, sentenza 8 novembre 2022 n. 1348

CONTRATTI
Contratto di mutuo – Fatti costitutivi – Onere della prova
(Cc, articolo 26 97)
Osserva l'adito Tribunale di Potenza come l'attore che chiede la restituzione di somme date a mutuo è tenuto, ex articolo 2697, I, c.c., a provare gli elementi costitutivi della domanda e, quindi, non solo la consegna, ma anche il titolo da cui derivi l'obbligo della vantata restituzione,
L'esistenza di un contratto di mutuo, invero, non può desumersi dalla mera consegna di assegni bancari o somme di denaro (che, ben potendo avvenire per svariate ragioni, non vale, di per sé, a fondare una richiesta di restituzione allorquando l'accipiens - ammessa la ricezione - non confermi, altresì, il titolo posto dalla controparte a fondamento della propria pretesa, ma ne contesti, anzi, la legittimità), essendo l'attore tenuto a dimostrare per intero il fatto costitutivo della sua pretesa.
Di conseguenza, la contestazione circa la causale del versamento, da parte del preteso mutuatario, non si tramuta in eccezione in senso sostanziale, sì da invertire l'onere della prova, giacché negare l'esistenza di un contratto di mutuo non significa eccepirne l'inefficacia o la modificazione o l'estinzione, ma significa negare il titolo posto a base della domanda, ancorché il convenuto riconosca di aver ricevuto una somma di denaro ed indichi la ragione per la quale tale somma sarebbe stata versata; anche in tale caso, quindi, rimane fermo l'onere probatorio a carico dell'attore, con le relative conseguenze nel caso di mancata dimostrazione dei fatti costitutivi del contratto mutuo.
Con la precisazione secondo cui, allorché una parte, provata la consegna di una somma di denaro all'altra, ne domandi la restituzione omettendo di dimostrare la pattuizione del relativo obbligo, e la controparte non deduca alcuna causa idonea a giustificare il suo diritto a trattenere la somma ricevuta, il rigetto per mancanza di prova della domanda restitutoria deve essere argomentato con cautela e tenendo conto di tutte le circostanze del caso, onde accertare se la natura del rapporto e le circostanze del caso concreto giustifichino che l'accipiens trattenga senza causa il denaro ricevuto dal solvens.
Tribunale di Potenza, sentenza 8 novembre 2022 n. 1203

APPALTO
Contratto di appalto – Inadempimento contrattuale – Normativa di riferimento
(Cc, articoli 1453, 1455, 1667, 1668, 1669)
Il Tribunale di Rima precisa che le norme speciali in tema di inadempimento del contratto di appalto (articoli 1667, 1668, 1669 c.c.) integrano, ma non escludono, l'applicazione dei principi generali in materia di inadempimento contrattuale, che sono applicabili quando non ricorrono i presupposti delle norme speciali.
E cioè a dire, la comune responsabilità dell'appaltatore ex articoli 1453 e 1455 c.c. sorge allorquando egli non esegua interamente l'opera o, se l'abbia eseguita, si rifiuti di consegnarla o vi proceda con ritardo rispetto al termine di esecuzione pattuito, mentre la differente responsabilità dell'appaltatore, inerente alla garanzia per i vizi o difformità dell'opera, prevista dagli articoli 1667 e 1668 c.c., o la rovina e i difetti di beni immobili ex articolo 1669 c.c., ricorre quando l'opera sia stata portata a termine, ma presenti vizi, difformità e difetti.
La garanzia di cui agli articoli 1667-1668-1669 c.c. costituisce dunque un sistema rimediale sostantivo in sè conchiuso che, nell'operare il bilanciamento tra i contrapposti interessi delle parti, presuppone di necessità logica un'opera compiuta e consegnata.
Prima della consegna, a ben vedere, l'opera può essere ancora modificata dall'appaltatore, sicchè non può darsi giudizio né sulla sua idoneità alla destinazione concordata, né sull'esistenza in essa di vizi o difformità eliminabili a spese dell'appaltatore o tali da imporre la riduzione proporzionale del prezzo.
La conseguente riconduzione dell'inadempimento dell'appaltatore, prima della consegna, al sistema della risoluzione comune ai sensi degli articoli 1453 e segg. c.c., determina l'esplicazione del cumulo ordinario tra domanda di inadempimento e domanda di risarcimento del danno.
Si consideri anche che in ipotesi di immobili che presentino gravi difetti non sussiste incompatibilità tra le norme di cui agli articoli 1667 c.c. e 1669 c.c., nel senso che il committente di un immobile che presenti gravi difetti ben può invocare, oltre al rimedio risarcitorio del danno (contemplato soltanto dall'articolo 1669 c.c.), anche quelli previsti dall'articolo 1668 c.c. (eliminazione dei vizi, riduzione del prezzo, risoluzione del contratto) con riguardo ai vizi di cui all'articolo 1667 c.c., purché non sia incorso nella decadenza stabilita dal secondo comma dello stesso articolo 1667 c.c..
• Tribunale di Roma, sezione VIII, sentenza 9 novembre 2022 n, 16531

RICOGNIZIONE DI DEBITO
Ricognizione di debito – Effetti – Onere della prova
(Cc, articolo 1988)
La ricognizione di debito, disciplinata dall'articolo 1988 c.c., consiste nella dichiarazione del debitore, nell'ambito di un rapporto obbligatorio (il cosiddetto "rapporto fondamentale"), con cui egli riconosce l'esistenza del proprio debito, con ciò dispensando il creditore a favore del quale è fatta dall'onere di provare il rapporto fondamentale, la cui esistenza si presume fino a prova contraria.
Il rapporto fondamentale, inoltre, può essere indicato o meno nell'atto ricognitivo. Nel primo caso si parla di riconoscimento "titolato", nell'altro di riconoscimento "puro".
Tra gli atti di natura dichiarativa sono ricompresi tutti quelli che non producono effetti traslativi, ma che sono diretti, in buona sostanza, ad accertare i diritti esistenti in capo alle parti.
La ricognizione di debito titolata, che comporta la presunzione fino a prova contraria del rapporto fondamentale, si differenzia dalla confessione, che ha per oggetto l'ammissione di fatti sfavorevoli al dichiarante e favorevoli all'altra parte.
Orbene in sentenza l'adito Giudice del Lavoro di Salerno ribadisce il principio di diritto secondo cui la ricognizione del debito, che non richiede forme particolari al fine di dispiegare i suoi effetti, esonera colui in favore del quale è fatta dall'onere di provare il rapporto giuridico fondamentale, che si presume esistente sino a prova contraria. E al contempo sottolinea come ciò determina un'inversione dell'onere della prova a carico della controparte che dovrà dimostrare l'inesistenza, l'invalidità o l'estinzione del diritto vantato dall'altra e di aver, quindi, correttamente adempiuto all'obbligazione.
Ogni effetto vincolante della ricognizione è dunque destinato a venir meno ove sia giudizialmente allegato e provato che il rapporto fondamentale non è mai sorto o è invalido o si è estinto, ovvero che esista una condizione ovvero un altro elemento attinente al rapporto fondamentale che possa comunque incidere sull'obbligazione derivante dal riconoscimento.
La disciplina dettata dalla disposizione codicistica in esame è applicabile anche agli atti della Pa nel concorso dei requisiti formali e procedimentali che ne condizionano la validità e l'efficacia.
Tribunale di Salerno, sezione lavoro, sentenza 9 novembre 2022 n. 1714

SUCCESSIONI E DONAZIONI
Testamento – Testatore - Stato di capacità
(Cc, articolo 591)
Il Tribunale di Messina, chiamato a verificare la validità di un testamento, tratta della capacità/incapacità naturale del testatore.
Ai sensi dell'articolo 591, II, n. 3, c.c. sono incapaci di testare coloro i quali, sebbene non interdetti, si provi essere stati, per qualsiasi causa, anche transitoria, incapaci di intendere e di volere nel momento in cui fecero testamento.
Conseguenza di tale forma di incapacità a testare è l'annullabilità assoluta e il testamento può essere impugnato da chiunque vi abbia interesse.
Invero, la citata disposizione normativa è chiara nello stabilire che, «nei casi d'incapacità preveduti dal presente articolo il testamento può essere impugnato da chiunque vi ha interesse. L'azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni testamentarie» (comma 3).
E così il testamento può essere invalidato se si dimostra che al momento della sua redazione il de cuius era affetto da una infermità psichica di natura permanente tale da escludere la sua incapacità di intendere e di volere.
Orbene, l'adito Tribunale siciliano, precisa in sentenza come, sempre in tema di annullamento del testamento, l'incapacità naturale del testatore postula l'esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell'atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi.
Peraltro, poiché lo stato di capacità costituisce la regola, e quello di incapacità l'eccezione, spetta a chi impugni il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene, provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo.
In ogni caso, ai fini dell'accertamento sulla sussistenza o meno della capacità di intendere e di volere del de cuius al momento della redazione del testamento, il Giudice del merito non può ignorare il contenuto del testamento medesimo e gli elementi di valutazione da esso desumibili, in relazione alla serietà, normalità e coerenza delle relative disposizioni, nonché ai sentimenti ed ai fini che risultano averle ispirate.
Tribunale di Messina, sezione I, sentenza 10 novembre 2022 n. 1878

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