Civile

Violazioni tributarie, più limiti alla responsabilità diretta dell'amministratore di fatto

La Corte di cassazione, sentenza n. 1946 depositata oggi, afferma che si devono acquisire riscontri probatori, anche presuntivi, idonei ad escludere la vitalità della società medesima

di Francesco Machina Grifeo

L'amministratore di fatto di una società destinataria di fatture soggettivamente inesistenti non risponde in modo diretto delle violazioni tributarie se non viene dimostrata la fittizietà della società stessa. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 1946 depositata oggi, accogliendo il ricorso dell'amministratore raggiunto da un avviso di accertamento per oltre 14 milioni di euro per violazioni fiscali imputabili alla società.

A seguito di verifica e processo verbale di constatazione redatto da militari della GdF, era emerso un sistema di frodi carosello. A quel punto l'Agenzia delle entrate ha rideterminato l'imponibile della società e ritenendo che il ricorrente (unitamente ad altri due soggetti) ne fosse l'amministratore di fatto, ha richiesto il pagamento delle sanzioni. Proposto ricorso, la Ctr Milano lo ha respinto ritenendo che la previsione contenuta nell'art. 7 del Dl 30 settembre 2003, n. 269, secondo cui le sanzioni amministrative relative a rapporti fiscali di società o enti dotati di personalità giuridica si applicano alla compagine sociale, va esclusa nelle ipotesi in cui questa sia gestita da un amministratore di fatto, laddove la costituzione della medesima società risulti artificiosa e strumentale alle finalità illecite perseguite dal suo amministratore.

La Suprema corte ha però precisato che: «in tema di sanzioni amministrative relative al rapporto tributario, perché venga meno la ratio che giustifica l'applicazione dell'art. 7, del Dl n. 269 del 2003, convertito con modificazioni in l. n. 326 del 2003, diretto a sanzionare la sola società dotata di personalità giuridica, e sia ripristinata la regola generale secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell'illecito, è necessario - quando non si tratti di società cartiera ma di quella che "a valle" riceve fatture soggettivamente inesistenti - acquisire riscontri probatori, anche presuntivi, idonei ad escludere la vitalità della società medesima, quand'anche gestita da un amministratore di fatto».

Così, tornando al caso specifico, per la Cassazione dalla sentenza si evince che il ricorrente era stato ritenuto l'amministratore di fatto non già della "cartiera" ma della società che aveva ricevuto le fatture, soggettivamente false, dalle interposte cartiere. Ora per i giudici «costituisce un dato fin troppo ovvio che le operazioni soggettivamente inesistenti siano finalizzate al conseguimento di risparmi d'imposta». «E ciò - prosegue -, quanto al coinvolgimento di una società a valle, sia pur nella forma della colposa ignoranza della natura di cartiera della società interposta, non comporta una assiomatica fittizietà della società a valle. Cioè non basta essere coinvolti in operazioni soggettivamente inesistenti per affermare che la società sia stata costituita solo quale schermo delle attività illegali dell'effettivo dominus, dovendo altrimenti concludersi per la fictio di ogni società coinvolta in operazioni inesistenti».

In definitiva, conclude la Corte, «la finta esistenza della compagine sociale non può essere il risultato di affermazioni assiomatiche, ma di un convincimento fondato su riscontri probatori, certamente più ampi ed incisivi rispetto al rapporto società cartiera - società inesistente».

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