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Un'azione di sfratto diventa il banco di prova della normativa a tutela del patrimonio artistico e culturale

Uno scenario del genere – che per i centri storici di moltissime città italiane non è ceto eccezionale – rischia di creare una disfunzionale rigidità nella gestione del territorio anche a discapito di diritti costituzionalmente garantiti, primo tra tutti il diritto di proprietà.

di Anna Lisa Marino*

Sono innumerevoli i tesori conservati nei luoghi più disparati del nostro paese, dalle valli del bellunese fino all'isola di Pantelleria. Nulla di strano, quindi, poter ammirare sculture di Gino Mazzini nell'attesa di gustare uno dei piatti di pasta più buoni della capitale. Gli ingredienti ci sono tutti: le opere d'arte, il locale con i suoi arredi storici, l'affaccio su una piazza del centro di Roma e, a sugello, la dichiarazione di interesse culturale.

Quest'ultima dichiarazione, in base alla disciplina del codice dei beni culturali, determina automaticamente l'assoggettamento del bene o - come nel caso preso ad esempio - di una complessità di beni, opere d'arte e arredi d'epoca unitariamente considerati, a speciali vincoli, quali la vigilanza da parte della Soprintendenza delle Belle Arti, alcune limitazioni del potere di disposizione finalizzate a evitarne la distruzione, il deterioramento o il danneggiamento, il divieto di impiego o uso non compatibili con il loro carattere storico – artistico, e ancora la necessità di autorizzazione per gli interventi di rimozione, demolizione o spostamento.

La situazione si complica non poco quando in un immobile storico, nel nostro caso di proprietà di una società immobiliare di lusso, siano custodite opere d'arte e arredi d'epoca, di proprietà del conduttore, il quale a sua volta svolge un'attività commerciale iscritta nell'Albo dei Negozi Storici di Eccellenza.

Uno scenario del genere – che per i centri storici di moltissime città italiane non è ceto eccezionale – rischia di creare una disfunzionale rigidità nella gestione del territorio anche a discapito di diritti costituzionalmente garantiti, primo tra tutti il diritto di proprietà.

In questo contesto coglie nel segno il TAR del Lazio di Roma con la recente sentenza n. 5864/2021. Il Collegio, chiamato a pronunciarsi circa l'ampiezza dell'incidenza della dichiarazione di interesse culturale sul diritto di proprietà, ha escluso che essa possa impedire l'esercizio del diritto di rilascio in caso di accertata morosità. Facendo tesoro della riflessione giurisprudenziale degli ultimi anni sugli "studi d'artista", il TAR ha evidenziato che il potere di imporre misure volte a tutelare l'uso del bene rispetto all'ordinario sistema vincolistico, costituisce un'eccezione alla regola ed è stato normato solo per casi specifici, "anche al fine di evitare i cd. "effetti perversi" derivanti dall'eccesso di attività vincolistica, che rischia di essere controproducente rispetto agli stessi obiettivi perseguiti" (TAR Lazio- Roma sent. cit.). Il rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, secondo il giudice amministrativo, segna il limite di incidenza dell'imposizione del vincolo e comporta, a valle, la verifica dell'adeguatezza delle misure limitative, che devono essere determinate in modo da bilanciare il sacrificio imposto al privato rispetto all'interesse generale perseguito mediante l'assoggettamento a tutela. La "regola aurea" dei principi di proporzionalità e ragionevolezza non è certo di facile applicazione e non può prescindere dall'uso corretto dei criteri che la PA è tenuta a rispettare, primo tra tutti l'impiego logico e razionale delle disposizioni normative vigenti. Nel caso esaminato, il TAR ha negato la sussistenza del vincolo di uso dell'immobile spiegando che: "quel che può essere vincolato è l'immobile, ove sussistano le condizioni, diverse e ulteriori, previste dall'art. 10 e 13 del Codice BBCC per dichiararlo "bene culturale", che appunto costituisce un vincolo a tutela della conservazione del bene, non dell'attività ivi svolta". Il Giudice, poi, ha rilevato come con l'art. 7 bis del codice dei beni culturali il legislatore abbia ribadito la necessità del requisito della materialità dell'oggetto della tutela anche con riferimento alle c.d. "espressioni di identità culturale collettiva", e per tale ragione non ha ritenuto di dover attribuire al particolare ambiente conviviale, luogo di ritrovo di personalità della prima metà del secolo scorso, descritto nella relazione storico tecnica del Comune di Roma, elemento idoneo a giustificare il vincolo di destinazione. In sintesi, una volta tratteggiato l'ambito di applicazione della normativa, è stato evidenziato come essa non possa essere applicata a ogni forma di espressione culturale, di qualunque genere o natura, ma debba rimanere contenuta nel suo "alveo naturale" ed essere conforme al chiaro significato attribuitole dal legislatore.

È altresì vero - come ha sottolineato lo stesso TAR – che continua a permanere un vuoto normativo, afferente a tutte quelle espressioni artistiche e culturali che non possono essere qualificate come "bene culturale", nell'accezione attribuita a tale termine dall'attuale codice. E tuttavia, questa lacuna non può essere colmata con l'applicazione estensiva del Codice Urbani.

Non si può tacere che il nostro ordinamento giuridico si è dotato di un codice dei beni culturali "solo" nel 2004, con attuazione parziale della legge di delega 137/2002, né si deve dimenticare che la delega di legge non è stata completata, e che esistono ambiti culturali e artistici che meriterebbero una specifica attenzione da parte del legislatore. Nondimeno – ha concluso il TAR – questo vuoto normativo non autorizza l'impiego improprio dell'attuale impianto normativo, tanto più in ragione dei gravosi vincoli che ne deriverebbero: "alla diversità ontologica del "bene giuridico" protetto deve corrispondere la diversità deli strumenti di tutela, non risultando adeguate a salvaguardare "attività" le misure previste dal legislatore per conservare le "cose", e di ciò occorre tener conto nell'individuare le ragioni e i limiti dell'applicazione degli istituti previsti dal Codice".

Da qui la censura del provvedimento amministrativo che avrebbe inteso cristallizzare la destinazione d'uso dell'immobile, ricomprendendola nello stesso alveo dei beni mobili in esso conservati.

Il caso giurisprudenziale nella sua peculiarità, ma non certo nella sua unicità vista la frequenza delle problematiche sollevate, evidenzia la difficoltà di "fare sintesi" delle amministrazioni che intervengono sul territorio di fronte alle opposte forze in campo, da un lato la tutela e la salvaguardia dell'identità territoriale, dall'altro l'inevitabile divenire delle esperienze di vita, delle quali le città sono carne viva.

* a cura dell'avv. Anna Lisa Marino, Centro Studi Borgogna

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