Penale

Permessi premio, legittima la distinzione tra chi non può collaborare con la giustizia e chi non vuole

La Consulta, con la sentenza n. 20 depositata oggi, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale

Per presentare una richiesta ammissibile di permesso-premio (una richiesta che possa, cioè, essere esaminata nel merito), il condannato per "reati ostativi" deve sottostare a regole dimostrative più o meno rigorose, a seconda delle ragioni per cui non ha collaborato con la giustizia. Queste regole sono più rigorose per chi sceglie di non collaborare, pur potendolo fare; meno rigide, invece, quando la collaborazione è impossibile (in quanto i fatti criminosi sono già stati integramente accertati) o inesigibile (a causa della limitata partecipazione a tali fatti), e sarebbe quindi priva di utilità per la giustizia.
La sentenza n. 20 del 2022 depositata oggi (redattore Nicolò Zanon) esclude che questa differenziazione di trattamento determini una lesione del principio di uguaglianza e perciò dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Magistrato di sorveglianza di Padova. È corretto, insomma, distinguere «la posizione di chi "oggettivamente può, ma soggettivamente non vuole" (silente per sua scelta), da quella di chi "soggettivamente vuole, ma oggettivamente non può" (silente suo malgrado)».
La Corte ha richiamato anzitutto la propria sentenza n. 253 del 2019, che ha dichiarato costituzionalmente illegittima – limitatamente alla concessione proprio dei permessi premio – la presunzione assoluta di pericolosità a carico dei detenuti che scelgono di non collaborare (pur essendo nelle condizioni di farlo). Con quella pronuncia si è stabilito che, affinché la loro richiesta di accesso al permesso-premio sia ammissibile, è necessario acquisire elementi tali da escludere sia l'attualità dei collegamenti dei detenuti in questione con la criminalità organizzata sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.
Il magistrato di sorveglianza di Padova, proprio a seguito della sentenza n. 253 del 2019, riteneva privo di giustificazione e lesivo del principio di uguaglianza il diverso regime probatorio vigente per i detenuti la cui collaborazione con la giustizia è oggettivamente impossibile o inesigibile, in cui, come si è detto, deve essere valutata la sola insussistenza di rapporti attuali con il contesto malavitoso.
Di qui la censura di illegittimità costituzionale dell'articolo 4 bis, comma 1 bis, dell'ordinamento penitenziario, con l'intenzione di parificare la posizione delle due categorie di condannati. A sostegno di questa richiesta, il giudice sottolineava che l'atteggiamento soggettivo dei due gruppi di detenuti potrebbe essere identico, poiché anche chi si vede accertata la collaborazione impossibile non solo potrebbe non voler collaborare (se lo potesse fare), ma potrebbe rivelare, addirittura, una maggiore pericolosità rispetto a colui che abbia volontariamente scelto di serbare il silenzio, mosso ad esempio da timori per la propria e l'altrui incolumità.
La Corte costituzionale, nel dichiarare non fondate le censure, ha tuttavia osservato che il carattere volontario della scelta di non collaborare costituisce – secondo dati di esperienza – un oggettivo sintomo di allarme, tale da esigere un regime rafforzato di verifica, esteso all'acquisizione anche di elementi idonei ad escludere il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, senza i quali la decisione sull'istanza di concessione del permesso premio si arresta già sulla soglia dell'ammissibilità.
Pre, invece, la collaborazione non potrebbe comunque essere prestata, ai fini del superamento del regime ostativo può essere verificata la sola mancanza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata.
La Corte conclude che questa differenziazione non appare irragionevole. Tanto è stato sufficiente per rigettare la questione, «senza dimenticare – aggiunge la sentenza – che la previsione delle ipotesi di collaborazione impossibile o inesigibile scaturisce da ripetute pronunce di questa Corte (sentenze n. 68 del 1995, n. 357 del 1994 e n. 306 del 1993), tese appunto – nella vigenza di un regime basato, senza eccezioni, sulla presunzione assoluta di pericolosità del non collaborante – a distinguere, con disposizioni di minor rigore, la posizione del detenuto cui la mancata collaborazione non fosse oggettivamente imputabile».

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©