Civile

Gli oneri pluriennali e il rapporto fisco contribuente

Redditi ad efficacia pluriennale e contestazione dell'accertamento - Decadenza dal potere di accertamento - Commento alle S.U. sentenza n. 8500 del 25 marzo 2021

di Maurizio Conti*

E' stata già più volte commentata la sentenza 8500/21 della Corte di Cassazione a Sezioni Unite in materia di accertamento della quota degli oneri pluriennali, una volta scaduto il termine per accertare la prima annualità in cui l'onere è stato dedotto.

Partendo dalle motivazioni giuridiche di essa, ci si può chiedere che effetto avrà da un punto di vista più generale, cioè del rapporto fisco contribuente.

Gli oneri pluriennali vengono definiti dalla sentenza come tutti quei componenti reddituali che emergono e si consolidano in una determinata annualità e sono ammessi dalla legge fiscale a produrre effetti sulla determinazione della base imponibile della stessa annualità e delle successive. Così rientrano nella categoria le quote di ammortamento di beni immateriali e materiali, le sopravvenienze attive rateizzabili, le perdite riportabili in avanti ed anche i vari bonus deducibili o detraibili in più esercizi.

Il quesito era "se" una volta verificatasi la decadenza dal potere di accertare la prima annualità in cui l'onere è stato inserito in bilancio (e di riflesso se ne è tenuto conto in dichiarazione) l'Agenzia delle Entrate possa comunque accertare l'annualità in cui la successiva quota viene inserita, per disconoscerne la deducibilità e riprendere il reddito a tassazione.

L'inquadramento del problema è chiaro e consiste nello stabilire se l'inerzia dell'Agenzia per tutti gli anni sino al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la prima dichiarazione contenente la quota dell'onere, equivalga a conferma del corretto operato del contribuente e quindi precluda sul punto l'accertamento delle successive dichiarazioni.

E apprezzabile il tentativo da parte della Corte di dare una risposta unitaria, ma non è detto che una risposta unitaria vi debba necessariamente essere, considerate anche le varie ipotesi per cui si può procedere a recupero delle quote dell'onere pluriennale: errore numerico nella posta iniziale, errata qualificazione giuridica di essa, errata valutazione secondo i principi di redazione del bilancio. Non c'entra invece con il problema affrontato l'errore nella quantificazione materiale della quota riferita all'esercizio in corso di accertamento: qui non vi è dubbio che, anche se si è verificata la decadenza rispetto alla posta inziale, sia possibile la ripresa della quota riferita a quell'anno (si potrebbe dire "per vizi propri").

La soluzione data dalla Corte è stata lapidaria: la decadenza dalla potestà di accertamento va calcolata rispetto al termine per la rettifica della dichiarazione nella quale il singolo rateo è suddiviso e non a quella concernente il periodo di imposta nel quale quel componente è iscritto per la prima volta in bilancio, poiché non aver contestato il presupposto non impedisce di contestare i singoli ratei, quest'ultimi per converso possono essere contestati anche se rispetto all'annualità in cui sono stati inseriti per la prima volta si è verificata la decadenza.

La motivazione richiama il principio della novazione, tempo per tempo, dell'obbligazione tributaria, che trova fondamento normativo nell'art. 7 TUIR per l'IRPEF e nell'art. 76 del medesimo per l'IRES, disposizioni ai sensi delle quali l'imposta è dovuta per periodi di imposta, a ciascuno dei quali corrisponde un'obbligazione tributaria autonoma.

La Corte omette però di considerare che proprio la seconda delle disposizioni richiamate (l'art. 76) subito dopo precisa "salvo quanto stabilito negli artt. 80 e 84" e l'art. 84 riguarda il riporto delle perdite, che la stessa Corte considera un onere pluriennale al fine del ragionamento e delle conclusioni di cui alla sentenza n. 8500/21.

L'obbligazione tributaria, quindi, non è poi così autonoma ed indipendente esercizio per esercizio, visto che la perdita per previsione dello stesso legislatore fiscale si ripercuoterà anche negli esercizi successivi e comunque considerato che ogni bilancio di esercizio è la prosecuzione di quelli precedenti.

La Corte richiama altresì la natura della dichiarazione dei redditi, ricordando che ha natura di dichiarazione di scienza con possibili elementi di dichiarazione di volontà (la scelta di determinati regimi).

Ma omettendo quello che è un dato fondamentale in materia di reddito di impresa: la determinazione di quest'ultimo, soprattutto in virtù del principio di derivazione rafforzata, è il frutto di metodologie di bilancio che non necessariamente portano ad un risultato aritmetico univoco.

Esse sono anche e soprattutto frutto di qualificazioni giuridiche e valutazioni economiche, che possono essere sindacabili o meno da parte del fisco, ma proprio quelle sindacabili possono esserlo solo nei termini, quindi il non averlo fatto per cinque anni dalla prima postazione della voce in bilancio può essere privo di rilievo?

La Cassazione ha detto che lo è, sancendo un principio di diritto cui ricondurre ipotesi differenti, per lo meno per disvalore.

Queste alcune ipotesi con la soluzione che deriverebbe dal principio espresso dalla sentenza n. 8500/2021:

Perdita dell'anno x esposta in misura esorbitante, nessuna rettifica dell'anno x, nè dei cinque anni seguenti (in cui si poteva ancora contestare il presupposto). Il sesto anno l'Agenzia potrebbe comunque contestare l'ammontare del rateo della perdita in quanto percentuale di un presupposto errato.Giurisprudenza pacifica riguardo alla deducibilità di un onere pluriennale. Il sesto anno la giurisprudenza cambia, quindi l'Agenzia potrebbe recupera il rateo di quell'anno.

Valutazioni degli amministratori: sono tutte quelle che portano alla redazione del bilancio, alcune si risolvono direttamente nella determinazione dell'onere pluriennale (capitalizzazione spese ed ammortamenti), ma anche tutte le altre, posto che finiranno nella determinazione del reddito o perdita, quest'ultima riportabile col limite quantitativo dell'80% del reddito annuale, ma senza limite temporale, quindi anche oltre il termine per accertare l'esercizio in cui è sorta. Sarebbe sempre possibile la rettifica delle singole annualità in cui la quota parte viene riportata.

Comportamenti aventi rilievo penale: la Corte sente di dover richiamare anche questa ipotesi per dire che l'aver utilizzato fatture false in un frazionamento di dichiarazioni succedutesi nel tempo integra una pluralità di reati, tanti quanti sono le singole dichiarazioni. Questo, vero dal punto di vista penalistico, avrebbe, sempre secondo la sentenza n. 8500, base tributaristica nell'autonomia di ciascun periodo di imposta.

Ribadisce la Corte "autonomia ed annualità dei periodi di imposta sono dunque i fattori interpretativi chiave per la soluzione del problema".

O forse, sono il problema.

I comportamenti abnormi non devono essere considerati per tentare di ricondurre il sistema ad unità. Esistono correttivi generali (e sicuramente autonoma deve essere la valutazione di tipo penalistico).

Appare in maniera sin troppo evidente che la "paura" della Corte è che il contribuente "butti" in bilancio delle voci infondate per poi giovarsi degli effetti della decadenza dal potere dell'Agenzia di accertare l'annualità in cui tali voci sono emerse per la prima volta.

Ma veramente l'Agenzia ha bisogno di questo soccorso da parte della Cassazione?

Riconoscere ciò porta ad una delle due evidenti conseguenze: o riconoscere che l'Agenzia, ancorché dotata di sistemi informatici di controllo, non sia in grado di verificare nei termini le dichiarazioni, oppure riconoscere che quel funzionario o quel team di funzionari potevano verificare anche le annualità precedenti, ma per negligenza non lo hanno fatto, col che causando un evidente danno erariale.Il diritto vive anche di finzioni.

Un rapporto giuridico definito con sentenza passata in giudicato è un rapporto cristallizzato che nessuno può mettere in contestazione. Poco importa se è stato definito secondo una soluzione giusta, l'importante è che sia stato definito secondo il procedimento corretto. Ed ugualmente dovrebbe dirsi per un rapporto per cui si è verificata la decadenza amministrativa.

Ma la Corte supera anche questo punto, affermando che vi è differenza tra il "giudicato" prodotto da una sentenza e la "mera inerzia" dell'Agenzia.

Il primo, ove riferito all'esistenza della posta iniziale, potrebbe avere efficacia espansiva cioè ripercussione sugli esercizi successivi, la seconda invece non avrebbe alcun significato se non quello di precludere l'accertamento dell'annualità iniziale (ed eventualmente di quelle per cui si è già verificata la decadenza), ma lascerebbe, come visto, la possibilità di accertare le dichiarazioni che portano ancora i ratei di quella posta.

E' proprio in tale ottica, più ampia dell'istituto dell'obbligazione di imposta, che il problema andrebbe affrontato e risolto.

Il cittadino, prima ancora che il contribuente, ha tutto il diritto di fidarsi delle istituzioni, di presupporre che l'Agenzia delle Entrate sia organizzata in modo da assicurare il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione, come vuole l'art. 97 comma 2 della Cost. e che l'inerzia abbia proprio il significato di consapevole e volontario mancato esercizio del potere di accertamento, così da creare, una volta verificatasi la decadenza, quella situazione di incontestabilità che parte della dottrina chiamava "accertato", con espressione che richiama "giudicato".

E che peraltro è pari a quella in cui si trova il contribuente destinatario di un avviso di accertamento ove non lo impugni nei termini.

Che il precetto costituzionale riguardi anche le amministrazioni fiscali, lo si può ricavare dalla considerazione che la disposizione di cui all'art. 97 della Costituzione secondo cui "I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione" originariamente era il primo comma dell'articolo, oggi è il secondo in quanto il primo è divenuto: "Le pubbliche amministrazioni .... assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico".

Se ne potrebbe dedurre che la nostra Costituzione considera il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione non solo un valore costituzionale in quanto elimina le differenze tra i cittadini nei rapporti con la p.a., ma anche in quanto è funzionale ai valori di cui al primo comma, cioè l'equilibrio dei bilanci pubblici e la sostenibilità del debito: la Costituzione considera il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione anche uno strumento di crescita economica (senza cui non c'è sostenibilità del debito pubblico).

In conclusione, tornando alla sentenza n. 8500/21, non solo c'è da chiedersi quanto sia ancora attuale il richiamo all'obbligazione tributaria per tutti quei tributi che richiedono un procedimento di determinazione del reddito alquanto complesso e caratterizzato da valutazioni, ma soprattutto c'è da chiedersi quali saranno gli effetti di essa sui rapporti contribuente fisco.

Singoli comportamenti volti ad approfittare dei mancati controlli possono sempre esserci, ma sembrerebbe più consono allo stesso dettato costituzionale trovarvi rimedio con istituti di carattere generale (mala fede, eccezione di dolo generale, induzione in errore) piuttosto che teorizzare l'irrilevanza dell'inerzia dell'ufficio finanziario.

Questo potrebbe diventare un tassello di un sistema caratterizzato da un elevato livello di diffidenza reciproca tra contribuente e fisco.

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*A cura dell'Avv. Maurizio Conti, Partner 24 ORE Avvocati

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