Penale

No Tav: il blocco fu violenza privata - Nessun valore morale nella protesta

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16149 depositata oggi, affermando che non può essere applicata l'attenuante per motivi di particolare valore morale e sociale

di Francesco Machina Grifeo

Inammissibili i ricorsi di una quindicina di "No Tav" condannati per violenza privata a due e tre mesi di reclusione (alcuni con pena sospesa) per avere, "in concorso tra loro e con altri soggetti non identificati", bloccato il 21 novembre 2014 nell'ambito di una manifestazione di protesta l'accesso al campo base che ospitava i lavoratori impegnati nella realizzazione del Terzo Valico. Non solo, chiudendo il cancello d'entrata con una catena, gli imputati avevano impedito il transito in entrata e in uscita "con violenza e minaccia (rappresentata dalla forza intimidatrice del gruppo)", costringendo i lavoratori "a tollerare la manifestazione di protesta e a ritardare le proprie occupazioni". Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 16149 depositata oggi.

«Ai fini del delitto di violenza privata – ha chiarito la V Sezione penale -, non è richiesta una minaccia verbale o esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento, sia verso il soggetto passivo, sia verso altri, idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, finalizzato ad ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa»

Correttamente, dunque, la Corte di appello di Genova ha ritenuto la sussistenza del delitto osservando che il "folto gruppo" ha impedito a persone e mezzi di rientrare al termine della giornata di lavoro e a chi si trovava all'interno di uscire, "tanto che nessuno ha potuto varcare il cancello proprio a cagione della costante sorveglianza dei manifestanti e dell'intimidazione determinata dal numero di costoro (che ha indotto pure la Polizia di Stato a temporeggiare fino al termine della protesta)". Né si poteva ricadere nell'ipotesi di non punibilità per particolare tenuità del fatto considerato per un verso "l'elevato numero di persone", e per l'altro, le "grandi proporzioni" della condotta illecita che si è protratta "per almeno un'ora".

Infine, la Suprema corte ha ritenuto di non poter applicare, come richiesto dai ricorrenti, l'attenuante per motivi di particolare valore morale e sociale, ritenendola prevalente sulle contestate aggravanti. Gli imputati, secondo la difesa, "intendevano porre l'attenzione dell'opinione pubblica sull'inutilità dell'infrastruttura e di come con la sua realizzazione si stesse deturpando il patrimonio paesaggistico ed ambientale", così interpretando una battaglia sostenuta da un "generale e diffuso consenso".

Invero, scrive la Corte, «ai fini dell'integrazione della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale, non è sufficiente l'intima convinzione dell'agente di perseguire un fine moralmente apprezzabile, essendo necessaria l'obiettiva rispondenza del motivo perseguito a valori etici o sociali effettivamente apprezzabili e, come tali, riconosciuti preminenti dalla collettività». Infatti, «i motivi di particolare valore morale o sociale cui l'art. 62, co. primo, n. 1, cod. pen. riconosce efficacia attenuante sono soltanto quelli avvertiti come tali dalla prevalente coscienza collettiva, ed intorno ai quali vi sia un generale consenso».

Ebbene, così ricostruita la fattispecie, per la Suprema corte "non può considerarsi esaustiva la convinzione, richiamata dalla difesa, che avrebbe animato gli agenti". Del resto, argomenta la decisione, il ricorso ha apoditticamente assunto che il «senso di protesta» degli imputati sia sostenuto da un generale e diffuso consenso da una parte rilevante della collettività, senza neppure considerare quanto esposto sul punto dalla Corte di appello, che ha affermato che la protesta in discorso, attuata contro la realizzazione di un'opera pubblica, costituisse piuttosto «una ostinata presa di posizione contro una iniziativa decisa a vantaggio della collettività», negando pertanto in maniera congrua e per nulla illogica, che essa fosse dettata da ragioni di particolare valore morale e sociale, vale a dire che fosse ricollegabile a valori intorno ai quali vi è generale consenso.

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