Penale

Gli screenshot fanno prova nel processo penale

La Cassazione conferma la condanna per violenza privata ne confronti di un uomo che ricattava una ragazza costringendola a spogliarsi in video, incastrato grazie agli screenshot

di Marina Crisafi

Reato di violenza privata per l’uomo che costringe la ragazza a spogliarsi in video sotto ricatto. E a inchiodarlo sono gli screenshot allegati alla denuncia della donna che consentono di stabilire che le intimidazioni provengono dall’account Facebook dell’imputato. È quanto emerge dalla sentenza n. 1358/2023 della quinta sezione penale della Cassazione.

La vicenda
Nella vicenda, la Corte d’appello di Bari riformava parzialmente, applicando il beneficio della sospensione condizionale della pena, la sentenza del tribunale di Foggia che aveva ritenuto l’imputato colpevole di violenza privata condannandolo alla pena di giustizia oltre che al risarcimento del danno in favore della donna, costituitasi parte civile.

All’uomo si contestava di avere costretto la giovane a mostrarsi in seno nudo in videochiamata su Facebook, dietro minaccia di pubblicare su internet le registrazioni di altre videochiamate in cui la stessa si era volontariamente mostrata nelle medesime condizioni.

Il ricorso
L’uomo adiva, quindi, la Cassazione contestando la sussistenza del reato e adducendo che tra lui e la persona offesa era intercorsa una relazione sentimentale “virtuale” basata sull’attrazione fisica e che dopo la proposizione della querela la vittima non lo aveva privato dell’”amicizia” su Facebook cercando anzi di contattarlo e manifestando dispiacere a seguito della sua affermazione di frequentare un’altra donna.

Per cui, secondo la difesa, la querela era stata sporta al solo scopo di accusare ingiustamente l’uomo onde punirlo dell’indifferenza mostrata nei confronti della ragazza, e le dichiarazioni accusatorie della stessa, prive di riscontro, erano inattendibili e poco credibili.

Non solo. A dire della difesa, il fatto che l’imputato non avesse poi pubblicato su Internet le foto a seno nude della persona offesa, come inizialmente minacciato, rendeva insussistente il reato di violenza privata o, quantomeno, poteva configurarsi soltanto un mero tentativo (posto che l’uomo di fatto in seguito aveva pubblicato le foto in modo che potessero essere visibili soltanto alla persona offesa).

Era da escludersi, infine, il dolo, atteso che l’uomo aveva rassicurato la vittima che le foto erano state cancellate e che non sarebbe più successo nulla.

 

La decisione
Per gli Ermellini, tuttavia, il ricorso è inammissibile.

Innanzitutto, quanto all’attendibilità della vittima, il giudice di merito ha fornito adeguata e corretta motivazione ritenendo le dichiarazioni della persona offesa dettagliate e convincenti. Inoltre, il suo racconto aveva trovato conferma «nelle stampe degli screenshot allegate alla denuncia e valutate dal perito come effettivamente provenienti dall’account intestato all’imputato».

Per cui, la credibilità della denunciante era stata valutata in modo rigoroso.

Quanto al delitto di violenza privata, non ha rilievo altresì, affermano dal Palazzaccio, «la circostanza che l’imputato non abbia attuato poi le minacce, essendo sufficiente che la vittima abbia tenuto la condotta alla quale l’uomo voleva costringerla, ossia partecipare a seno nudo a un’ulteriore videochiamata».

L’attuazione del male minacciato infatti rammenta la Suprema corte «non è un elemento costitutivo del delitto di violenza privata».

Quanto alla sussistenza del dolo, infine, ricorda la Corte, «il delitto di violenza privata si consuma nel momento in cui la vittima tiene la condotta alla quale è costretta dall’altrui minaccia e violenza» e le rassicurazioni dell’imputato, intervenute solo dopo che egli aveva raggiunto il suo obiettivo, non valgono certo ad escludere il dolo.

Da qui l’inammissibilità del ricorso e la condanna dell’uomo anche al pagamento delle spese processuali e a tremila euro in favore della Cassa delle Ammende.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©