Comunitario e Internazionale

Parità di retribuzione tra sessi per lavori uguali o dello stesso valore

La normativa europea è del tutto in linea con la legislazione italiana che anzi, per certi versi, ha anticipato i principi comunitari. Nel nostro ordinamento, infatti, il principio della parità di trattamento tra i generi è sancito dall’articolo 37 della Costituzione

di Aldo Bottini

Con la decisione resa nella causa C-624/19, la Corte di giustizia dell’Unione europea chiarisce che il principio di parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici, sancito dall’articolo 157 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, è direttamente applicabile (e quindi direttamente invocabile dal cittadino nei procedimenti tra privati) non solo di fronte a uno «stesso lavoro», ma anche nell’ipotesi di «lavoro di pari valore».

Tesco, società britannica di rivendita di generi alimentari e non solo, era stata citata in giudizio per violazione della predetta normativa, da parte, tra l’altro, di alcune sue dipendenti che sostenevano che il loro lavoro e quello dei colleghi di sesso maschile avesse pari valore e che esse avessero il diritto di confrontare il loro lavoro con quello dei lavoratori, pur se svolto presso stabilimenti diversi. Nel difendersi la società aveva sostenuto che l’articolo 157 del Tfue (secondo cui «ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore») avesse un effetto diretto solo nell’ambito di azioni fondate su uno «stesso lavoro», ma che di fronte a un «lavoro di pari valore» la norma necessitasse di essere precisata da disposizioni di diritto nazionale o del diritto dell’Unione.

Nel respingere la tesi della società, la Corte ha ricordato che è la stessa formulazione dell’articolo 157 del Tfue a non poter suffragare una tale interpretazione. Secondo la Corte, infatti, l’articolo impone «in modo chiaro e preciso, un obbligo di risultato e ha carattere imperativo tanto per quanto riguarda uno “stesso lavoro” quanto con riferimento a un “lavoro di pari valore”»; lo stesso produce, quindi, effetti diretti «creando, in capo ai singoli, diritti che i giudici nazionali hanno il compito di tutelare».

Sul punto, la normativa europea è del tutto in linea con la legislazione italiana che anzi, per certi versi, ha anticipato i principi comunitari. Nel nostro ordinamento, infatti, il principio della parità di trattamento tra i generi è sancito dall’articolo 37 della Costituzione, per cui «la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore». Il codice delle pari opportunità (Dlgs 198/2006), poi, che ha attuato le specifiche direttive europee in materia, all’articolo 28 vieta, con riferimento al genere, «qualsiasi discriminazione, diretta e indiretta, concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni, per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale».

Naturalmente, come ricorda la Corte europea, spetta al giudice nazionale investito della questione valutare, sulla base di un accertamento di fatto della natura concreta delle attività svolte, se i lavori che vengono portati in comparazione per denunciare la discriminazione abbiano o meno “pari valore”. Va da sé che si tratta di un compito tutt’altro che semplice, che può presentare anche margini di discrezionalità non indifferenti.

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