Lavoro

Avvocato del comune, legittimo il trasferimento ad un altro ufficio

Lo ha affermato la Corte di cassazione, con l'ordinanza n. 23219 depositata oggi, accogliendo il ricorso dell'ente nei confronti di un legale trasferito alla Direzione urbanistica

di Francesco Machina Grifeo

Sì al passaggio dell'avvocato, assunto come dipendente del comune, dall'ufficio legale ad altra direzione, se non si realizza uno svuotamento "pressochè integrale" di competenze. Lo ha affermato la Corte di cassazione, con l'ordinanza n. 23219 depositata oggi, confermando, anche per il professionista assunto dalla Pa, la prevalenza dello "ius variandi" del datore di lavoro ed allargando un principio sino ad oggi affermato unicamente per le Spa di gestione di rapporti pubblici e gli enti pubblici economici.

La controversia nasce a seguito del trasferimento di un dipendente del Comune di Taranto dalle funzioni di avvocato dell'ente a quelle di funzionario di altri servizi: dapprima la Direzione Urbanistica, poi la Direzione Patrimonio e infine la Direzione Economico Finanziaria-Tributi, all'interno della medesima area D di inquadramento. La Corte d'Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, aveva ritenuto che il profilo professionale dell'avvocato interno avesse "preminenza su quello del generico dipendente pubblico e che dunque, stante l'evidente differenza esistente tra attività forense ed attività legale, oltre che per la diversità del ruolo di avvocato rispetto a quello di tutti gli altri funzionari, un siffatto trasferimento non potesse essere ritenuto comunque legittimo". E gli aveva così riconosciuto il diritto al risarcimento del danno per perdita di professionalità nella misura del 50% delle retribuzioni per tutto il periodo.

Per la Sezione lavoro, invece, l'articolo 52 del Testo unico sul pubblico impiego e la relativa regola di equivalenza formale, segna "un allontanamento da un assetto incline al mantenimento della professionalità nella sua manifestazione concreta, valorizzando, a tutela della massima flessibilità dell'impiego pubblico ed a favore dell'efficienza della P.A., la sola equiparazione formale", con una più tangibile liberalizzazione dello ius variandi, tra l'altro in un ambito in cui la contrattazione collettiva afferma che «tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili» (articolo 3 Ccnl 31.3.1999).

Mentre il fatto che l'articolo 23 dell'Ordinamento Professionale Forense affermi che «è garantita l'autonomia e l'indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica dell'avvocato», per la Cassazione, delinea il regime di svolgimento della prestazione forense "fino a quando l'esercizio di essa perduri, ma non può avere rilievo, a meno di spostamenti ritorsivi …, rispetto all'esercizio della facoltà datoriale di mutare le mansioni da assegnare".

Ne può darsi peso all'assunto difensivo secondo cui nella Direzione Urbanistica le esigenze di natura legale "erano infrequenti e di qualità non particolarmente significativa", perché ciò attinge al merito della scelta datoriale - la cui inopportunità non crea certo diritti risarcitori in capo al dipendente - e non alla sua legittimità. Semmai, aggiunge la Corte, il ragionamento da fare è un altro, e cioè se i compiti attribuiti "abbiano costituito, per quantità e qualità concreta, uno svuotamento totale di mansioni" che non è "mai legittimo" ma che deve essere apprezzato "in concreto", senza dunque che valga la "distinzione operata dalla Corte di merito tra attività forense ed attività legale".

Da qui l'enunciazione del seguente principio di diritto: «Qualora un avvocato o procuratore venga inserito nell'ufficio legale di un ente pubblico non economico, con costituzione di rapporto di lavoro subordinato, come consentito dall'art. 3 quarto comma lett. b del R.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, in deroga alla regola generale dell'incompatibilità della professione forense con impieghi retribuiti, la disciplina di tale rapporto trova prevalente applicazione, anche per quanto riguarda le disposizioni dell'art. 52 Dlgs. 165/2001, sicché si deve ritenere consentito al datore di lavoro, nel rispetto delle classificazioni e delle altre eventuali regole di cui alla contrattazione collettiva, un ampio esercizio dello ius variandi e quindi di assegnazione ad altri compiti, nei limiti in cui, in concreto, così operando non si realizzi una sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell'ambito del pubblico impiego o un intenzionale comportamento vessatorio, causativo di danni».

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