Amministrativo

Giudice di pace in pensione, il ministero Giustizia condannato alla ricostruzione dell'intera carriera

Il Tar Emilia Romagna ha accolto il ricorso relativamente al trattamento previdenziale, retributivo, alla ferie ed all'indennizzo per abusiva reiterazione dei contratti. La Consulta della MO plaude

di Francesco Machina Grifeo

La Consulta della magistratura onoraria "esulta" per la condanna del Ministero della Giustizia, da parte del Tar Emilia Romagna (sentenza n. 304 del 17 maggio 2023), alla ricostruzione della posizione giuridica, assistenziale ed economica, prendendo a riferimento il magistrato professionale, con il conseguente pagamento delle differenze retributive e il versamento dei contributi previdenziali, oltre al risarcimento per abusiva reiterazione dei contratti di una giudice di pace in servizio ininterrottamente dal 3 luglio 2002 al 31 maggio 2016, cessata dal servizio il 31 luglio 2019 per raggiunto limite di età (68 anni).

Ai fini del calcolo del trattamento retributivo, si legge nella decisione, "stante la comparabilità delle posizioni lavorative, va tenuto conto della retribuzione propria del magistrato professionale, ritenendosi giustificate le differenze di trattamento solo nella misura degli aumenti di stipendio correlati al conseguimento delle valutazioni di professionalità superiori a quella di primo accesso alle funzioni giurisdizionali e dell'impegno lavorativo richiesto che, a differenza del magistrato professionale, per il Giudice di Pace è limitato alle sole due/tre giornate coincidenti con le udienze tabellari".

Al termine di un lungo excursus normativo e giurisdizionale, soprattutto con riferimento alle pronunce della Corte Ue (la sentenza è lunga 41 pagine), il Collegio afferma che "la natura subordinata del rapporto di lavoro del Giudice di Pace, quale magistrato alle dipendenze del Ministero della Giustizia, comporta l'accertamento dell'avvenuta instaurazione di un rapporto di pubblico impiego di fatto ex art. 2126 c.c. non ostandovi la carenza del concorso pubblico quale modalità di accesso con consequenziale diritto del lavoratore al trattamento retributivo per il tempo in cui il rapporto ha avuto materiale esecuzione e alla contribuzione previdenziale propria di un rapporto di pubblico impiego regolare.

Ciò non vuol dire, prosegue, che si debbano trascurare le "radicali differenze sulla modalità di accesso" rispetto alla magistratura ordinaria "per la quale è inderogabilmente previsto uno specifico e selettivo concorso pubblico per esami", né lo "svolgimento di attività giurisdizionale differente anche dal punto di vista qualitativo oltre che un regime di esclusività come visto attenuato". "È evidente poi – aggiunge - che la competenza dei Giudici di Pace sia diversa e ben più limitata rispetto a quella riservata ai magistrati ordinari". Del resto, egli "può continuare a svolgere la professione forense nel circondario limitrofo", mentre il magistrato, anche di prima nomina, tanto non può fare.

Se dunque "l'equiparazione non può dirsi totale" e si "possano giustificare talune differenze di trattamento", argomenta il Tar, "non si ritiene che la scelta di escludere del tutto i Giudici di Pace dalla fruizione del trattamento riservato alla magistratura professionale sia adeguata e necessaria rispetto all'obiettivo del legislatore, secondo un doveroso criterio di proporzionalità e non discriminazione". Gli ‘onorari' infatti "sono sottoposti agli stessi vincoli in termini di organizzazione del lavoro, controllo e direzione dei capi degli uffici e degli organi di autogoverno, nonché di responsabilità civile ed erariale".

"Va pertanto accertato – scrive il Tar - il diritto dei ricorrenti ad un trattamento economico e normativo equivalente a quello assicurato ai lavoratori comparabili che svolgono funzioni analoghe alle dipendenze del Ministero della Giustizia, con obbligo di ricostruzione della posizione giuridica ed economica per tutto il periodo in cui la ricorrente ha svolto le funzioni di giudice di pace e conseguente condanna al pagamento delle conseguenti differenze retributive, oltre interessi". Incluso il trattamento economico per le ferie "pari alla retribuzione del predetto magistrato professionale". Va altresì accolta la pretesa relativa al riconoscimento discendente dallo status di lavoratore a tempo determinato delle tutele assistenziali e previdenziali, e va condannato il Ministero al pagamento in favore dell'Inps dei contributi previdenziali non versati.

Il Tribunale ha altresì affermato il diritto della ricorrente al risarcimento di tutti i danni subiti per effetto dell'abusiva reiterazione di rapporti a termine da quantificare "nella misura di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto spettante, oltre interessi, avuto riguardo alla lunga durata del servizio prestato quale giudice di pace ed al comportamento recidivo del datore di lavoro".

In ultimo, nessuna prescrizione può essere dichiarata considerato che "l'esercizio dei diritti retributivi e contributivi propri di un rapporto di lavoro subordinato sia stato impedito in diritto nel nostro ordinamento quantomeno fino alla pronuncia della Corte di Giustizia del 16 luglio 2020 (in causa C-658/18) stante l'esaminato granitico orientamento della giurisprudenza domestica volto a negare a proposito dei giudici di pace l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e le correlate tutele".

Per Mariaflora Di Giovanni, Presidente Unagipa, "la sentenza ha chiarito come il giudice onorario ricorrente, di pace, sia un magistrato alle dipendenze del Ministero della Giustizia, titolare di tutti i diritti propri di un lavoratore subordinato, concetto ancora oggi non solo volutamente lasciato nebuloso dal legislatore, in spregio della normativa euro-unitaria e dei diktat di cui alla procedura d'infrazione in corso, ma anche negato da recenti e pervicaci arresti della Corte di Cassazione che, arroccata su posizioni ormai censurate da Corte di Giustizia e Commissione europea, insiste nel non voler riconoscere il dovuto ai ricorrenti come imposto dall'Unione, condannandoli con intento punitivo, finanche, al pagamento delle spese di giudizio".

"Si plaude – prosegue Di Giovanni - ad una pronuncia che, dopo aver ripercorso puntualmente l'iter europeo, giunge all'unica soluzione giuridicamente ineccepibile, condannando lo Stato anche al pagamento degli interessi per le violazioni accertate".

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