Civile

Tribunali civili: le principali sentenze di merito della settimana

La selezione delle pronunce della giustizia civile nel periodo compreso tra il 13 e il 17 giugno 2022

di Giuseppe Cassano

Nel corso di questa settimana le Corti d’Appello intervengono in tema di interposizione fittizia di persona, di contratto autonomo di garanzia e, in fine, di pari uso delle cose comuni nel condominio. Da parte loro i Tribunali trattano le questioni relative ai presupposti per la costituzione di una servitù di scarico coattivo, alla responsabilità del mediatore professionale, ai requisiti di forma degli atti di liberalità, all’intervento del Fgvs in ipotesi di sinistri stradali, alla responsabilità dell’avvocato, alla rilevanza economica dello svolgimento di mansioni superiori nel pubblico impiego, al danno cagionato da cose in custodia.

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CONTRATTI

Interposizione fittizia di persona - Prova – Limiti. (Cc, articoli 1417 e 2724)
La Corte d’Appello di Milano, in sentenza, afferma il principio di diritto secondo cui l'interposizione fittizia di persona comporta che il contratto (di compravendita) realmente voluto dalle parti produca effetto non verso uno dei contraenti formali, che risulta mera parte interposta, ma tra l'interponente ed il terzo (quale acquirente effettivo), distinguendosi dall'interposizione reale per il fatto che, in questo caso, l'interposto è l'effettivo destinatario degli effetti negoziali ed è tenuto a riversarli alla parte che, in base agli accordi, è destinata a beneficiarne. Mentre nell’interposizione reale il terzo contraente può anche essere del tutto ignaro dell’esistenza del pactum fiduciae bilaterale interno esistente fra agli altri due, nella simulazione soggettiva la struttura è necessariamente trilaterale, richiedendo per il suo perfezionamento la partecipazione all'accordo simulatorio dell'interposto, dell'interponente e del terzo contraente, che in forma scritta ad substantiam, deve dare la propria consapevole adesione all'intesa raggiunta dalle altre parti., potendo peraltro l'accordo simulatorio realizzarsi per formazione progressiva (nel senso che l'altro contraente si inserisce successivamente nell'accordo accettando, da un canto, la funzione meramente figurativa del contraente interposto e, dall'altro, l'assunzione di obblighi e l'acquisto di diritti nei confronti diretti dell'interponente). Il documento contenente la controdichiarazione deve fornire in sostanza idonea dimostrazione della partecipazione all’accordo simulatorio non solo dell’interponente e dell’interposto ma anche del terzo contraente. La prova dell'interposizione fittizia di persona è soggetta ai limiti di cui all'art. 1417 c.c., rientrando pur sempre fra i casi di simulazione relativa, sicché l'accordo simulatorio deve necessariamente risultare da atto scritto (salvo la perdita incolpevole del documento ai sensi dell'art. 2724, n. 3, c.c.) se fatto valere nei rapporti tra le parti, mentre può essere provato mediante testimoni o presunzioni, se fatto valere da terzi o da creditori, oppure se viene dedotta l'illiceità del negozio dissimulato.
Corte di Appello di Milano, sezione IV, 14 giugno 2022 n. 2082

CONTRATTI

Contratto autonomo di garanzia - Fideiussione - Differenze. (Cc, articolo 1462)
Osserva la Corte d’Appello di Cagliari Sassari (sez. dist. di Sassari) che costituisce contratto autonomo di garanzia quello in base al quale una parte si obbliga a titolo di garanzia, a eseguire a prima richiesta la prestazione del debitore, indipendentemente dall’esistenza, dalla validità ed efficacia del rapporto di base con l’impossibilità per il garante di sollevare eccezioni. Tale contratto si distingue dalla fideiussione per la sua indipendenza dall’obbligazione principale, poiché, mentre il fideiussore è debitore allo stesso modo del debitore principale e si obbliga direttamente ad adempiere, il garante nel contratto autonomo si obbliga non tanto a garantire l’adempimento, quanto piuttosto a tenere indenne il beneficiario dal nocumento per la mancata prestazione del debitore, spesso con una prestazione solo equivalente e non necessariamente corrispondente a quella dovuta.  Al fine di distinguere le suddette figure contrattuali non si profila decisivo l’impiego o meno di espressioni quali “a prima richiesta” o “a semplice richiesta”, ma la relazione in cui le parti hanno inteso porre l’obbligazione principale e quella di garanzia: le differenze infatti devono essere ricercate sul piano dell’autonomia e non su quello della causa, potendo la clausola di pagamento riferirsi sia ad una garanzia con caratteristiche di accessorietà, assumendo così valenza meramente processuale (risolvendosi in una clausola di solve et repete ai sensi dell’art. 1462 c.c.), sia ad una garanzia svincolata dal rapporto principale garantito, configurando un contratto autonomo di garanzia. Una volta qualificato (dal Giudice avuto riguardo al caso concreto) il negozio come contratto autonomo di garanzia, sulla base dell’interpretazione congiunta delle clausole contrattuali, il regime "autonomo" del contratto trova un limite quando: le eccezioni attengano alla validità dello stesso contratto di garanzia, ovvero al rapporto garante/beneficiario; il garante faccia valere l'inesistenza del rapporto garantito; la nullità del contratto-base dipenda da contrarietà a norme imperative o illiceità della causa ed attraverso il contratto di garanzia si tenda ad assicurare il risultato che l'ordinamento vieta; sia proponibile la cd. exceptio doli generalis seu presentis, perché risulta evidente, certo ed incontestabile il venir meno del debito garantito per pregressa estinzione dell'obbligazione principale per adempimento o per altra causa (nel senso che il garante non è autorizzato ad effettuare pagamenti arbitrariamente intimatigli, a pena di perdita del regresso nei confronti del debitore principale).

Corte di Appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, 16 giugno 2022 n. 191

CONDOMINIO

Cosa comune - Pari uso. (Cc, articoli 1102 e 1117)
La Corte d’Appello di Napoli sul presupposto per cui l’azione ex art. 1102 c.c. deve essere proposta nei confronti del condomino non rispettoso dei limiti della norma (la legittimazione del proprietario permanendo anche in caso di locazione in quanto egli "possiede" a mezzo del conduttore) precisa come la nozione di pari uso della cosa comune, cui fa riferimento la citata disposizione codicistica, seppur non vada intesa nel senso di uso identico e contemporaneo, implica, tuttavia, la condizione che questa sia compatibile con i diritti degli altri, essendo i rapporti condominiali informati al principio di solidarietà, il quale richiede un costante equilibrio fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione.  Ed invero, proprio perché ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, il condomino che si serve di un bene condominiale nel rispetto della sua destinazione, per ricavarne maggiore vantaggio nel godimento di un'unità immobiliare già strutturalmente e funzionalmente collegata al bene comune, come presuppone l'art. 1117 c.c., lo fa nell'esercizio del diritto di condominio e non avvalendosi di una servitù.  Viceversa, dall'uso della cosa comune a favore del fondo di proprietà esclusiva oltre i limiti segnati dall'art. 1102 c.c., può discendere, nel concorso degli altri requisiti di legge, l'usucapione di una servitù a carico della proprietà condominiale. Peraltro, con l'avvenuta costituzione del condominio si trasferiscono ai singoli acquirenti dei piani o porzioni di piano anche le corrispondenti quote delle parti comuni, di cui non è più consentita la disponibilità separata a causa dei concorrenti diritti degli altri condomini, a meno che non emerga dal titolo, in modo chiaro ed inequivocabile, la volontà delle parti di riservare al costruttore originario o a uno o più dei condòmini la proprietà esclusiva di specifici beni che, per loro struttura e ubicazione, dovrebbero considerarsi comuni (privandone, nel contempo, tutti gli altri) e, in difetto di tale eccezionale, esplicita, riserva (unico possibile titolo contrario), la normale presunzione di condominialità non può essere superata per via induttiva o per fatti concludenti.
Corte di Appello di Napoli, sezione VI, 16 giugno 2022 n. 2742

SERVITÙ

Servitù coattiva di scarico - Operatività - Natura giuridica. (Cc, articoli 1037 e 1043)

Il Tribunale di Latina afferma in punto di diritto il principio a tenore del quale la servitù coattiva di scarico può essere domandata per liberare il proprio immobile sia da acque sovrabbondanti potabili o non potabili, provenienti da acquedotto o da sorgente esistente nel fondo o dallo scarico di acque piovane, sia dalle acque impure, risultanti dal funzionamento degli impianti agricoli od industriali o degli impianti e servizi igienico-sanitari degli edifici.  Il quadro normativo di riferimento ex art. 1043 c.c., invero, non autorizza alcuna distinzione tra acque impure ed acque luride o nere, intese quest’ultime come acque di scarico delle latrine, dovendosi, piuttosto, intendere il riferimento alle acque impure, contenuto nel secondo comma, come volto unicamente a stabilire che, in questo caso, la servitù coattiva è subordinata all’adozione di opportune precauzioni per evitare inconvenienti al fondo servente. I presupposti per la costituzione di una servitù di scarico coattivo ex art. 1043 c.c. non differiscono, compatibilmente con il diverso contenuto della servitù, da quelli contemplati dall’art. 1037 c.c. per la costituzione della servitù di acquedotto coattivo, applicabili in virtù del richiamo operato dalla prima di dette norme alle disposizioni degli articoli precedenti per il passaggio delle acque, occorrendo, pertanto, che il passaggio richiesto sia il più conveniente ed il meno pregiudizievole per il fondo servente, avuto riguardo alle condizioni dei fondi vicini, al pendio e alle altre condizioni per la condotta, per il corso e lo sbocco delle acque e riferendosi il criterio del minor pregiudizio esclusivamente al fondo servente e quello della maggior convenienza anche al fondo dominante il quale non deve essere assoggettato ed eccessivo disagio o dispendio.
Tribunale di Latina, sezione I, 13 giugno 2022 n. 1237

MEDIAZIONE

Mediatore professionale - Diligenza - Responsabilità. (Cc, articoli 561, 563, 1176, 1337 e 1759)
Il Tribunale di Torino tratta in sentenza la materia della responsabilità del mediatore (art. 1759 c.c.)  precisando come, detto soggetto professionale, sia obbligato ad informare le parti sulle circostanze a lui note o, comunque, da lui conoscibili, relative alla valutazione e alla sicurezza dell’affare, che possano influire sulla conclusione dello stesso.  L’assolvimento di tale obbligo informativo è valutato secondo il criterio della media diligenza professionale ex art. 1176 c.c. oltre che secondo i principi della buona fede e della correttezza ex art. 1337 c.c.. Il mediatore, dunque, tanto nell'ipotesi tipica in cui abbia agito in modo autonomo, quanto nell'ipotesi in cui si sia attivato su incarico di una delle parti (mediazione atipica), ha l'obbligo di comportarsi con correttezza e buona fede. Il dovere di imparzialità che su di lui incombe è violato - e da ciò deriva la sua responsabilità - tanto nel caso di omessa comunicazione di circostanze che avrebbero indotto la parte a non concludere l'affare, quanto nel caso in cui la conoscenza di determinate circostanze avrebbero indotto la parte a concludere l'affare a condizioni diverse. In riferimento alle diverse ipotesi di responsabilità si osserva in sentenza che il mediatore professionale immobiliare non è tenuto ad esaminare le conservatorie dei registri immobiliari per verificare in quale categoria catastale rientri l'immobile, e, di conseguenza, se l'acquisto di esso consentirà all'acquirente il godimento dei benefici fiscali previsti per l'acquisto della prima casa. Al contrario, la provenienza da “donazione” dell’immobile oggetto della proposta d’acquisto costituisce circostanza relativa alla valutazione e alla sicurezza dell’affare, rientrante nel novero delle circostanze influenti sulla conclusione di esso, che il mediatore deve riferire ex art. 1759 c.c.. Con la precisazione che, a seguito della modifica degli artt. 563 e 561 c.c., il donatario, trascorso il termine ventennale di cui al nuovo testo di tali norme, può disporre del proprio diritto senza che i suoi aventi causa abbiano a temere di subire le conseguenze di un eventuale vittorioso esercizio dell'azione di riduzione da parte dei legittimari del donante (salvo quanto previsto dall'art. 563, IV, c.c.).
Tribunale di Torino, sezione III, 15 giugno 2022 n. 2638

DONAZIONI

Atti di liberalità - Requisiti di forma - Violazione - Conseguenze. (Cc, articolo 782; legge 16 febbraio 1913, n. 89, articolo 48)
Soffermandosi in tema di atti di liberalità il Tribunale di Lucca sottolinea in  sentenza come il trasferimento, attraverso un ordine di bancogiro del disponente, di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli del beneficiante a quello del beneficiario, configura una donazione tipica ad esecuzione indiretta, soggetta alla forma dell'atto pubblico, salvo che sia di modico valore, poiché realizzata non tramite un'operazione triangolare di intermediazione giuridica, ma mediante un'intermediazione gestoria dell'ente creditizio. Da ciò deriva che, qualora tale donazione sia stata effettuata senza che sia stata formalizzata in un atto pubblico, la stessa è nulla, con la conseguenza che le somme oggetto di bonifico si considerano come mai uscite dalla sfera giuridica del donante, con il diritto di pretenderne la restituzione. Quando un bonifico venga effettuato per mero spirito di liberalità (senza che, cioè, “a monte” sia giustificato da una diversa causa traslativa) l’operazione si configura come donazione diretta. La forma richiesta dalla legge, a mente dell'art. 782 c.c., per la validità della donazione è quella dell'atto pubblico che è redatto da un Notaio secondo precise formalità. In particolare, l’art. 48  L. n. 89/1913 s.m.i. (Legge Notarile) impone la presenza di due testimoni  di cui il Notaio deve fare espressa menzione in principio dell'atto. Ancora, sottolinea il Tribunale adito, le polizze di assicurazione sulla vita, aventi contenuto finanziario, sono da considerarsi come donazioni indirette (salvo prova contraria) del contraente a favore dei beneficiari delle polizze stesse, con conseguente applicazione della disciplina degli istituti successori della riduzione, della collazione e della revocazione.
Tribunale di Lucca, 16 giugno 2022 n. 602

CIRCOLAZIONE STRADALE

Sinistri stradali - Veicolo non identificato - Risarcimento danni - Onere della prova. (Dlgs 7 settembre 2005, n. 209, articolo 283, lettera a; Cc, articolo 2043, 2054, 2697, 2729; Cpc, articolo 116)
Osserva in sentenza l’adito Tribunale di Lecce come, in tema di sinistri stradali (in ipotesi di coinvolgimento di un veicolo non identificato), l’art. 283 D.Lgs. n. 209/2005 abbia inteso rafforzare la tutela derivante dalla responsabilità civile senza, tuttavia, esonerare il danneggiato dal provare i fatti costitutivi della domanda e la ricorrenza della fattispecie normativa invocata. Ne consegue che anche il risarcimento del danno da sinistro stradale a carico del Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada impone al danneggiato di provare, in ossequio al principio generale di cui all’art. 2697 c.c., la ricorrenza dei requisiti ex art. 283 lett. a) D.Lgs. n. 209/2005, il nesso causale tra la circolazione del veicolo non identificato e il danno, e la responsabilità dolosa o colposa del veicolo pirata (ex art. 2043 c.c. o, in via presuntiva, ex art. 2054 c.c.). Nell’ipotesi in cui l’attore non provi la ricorrenza dell’ipotesi normativa suddetta, cui il Legislatore riconnette la responsabilità risarcitoria del Fondo di Garanzia, la domanda deve essere rigettata. L’onere probatorio del danneggiato può essere assolto nei modi ordinari, mediante prova orale, prova documentale o prova per presunzioni, qualora abbiano le caratteristiche imposte dall’art. 2729 c.c., ed alla valutazione delle prove assunte il giudice deve addivenire nel rispetto dei canoni di cui all’art. 116 c.p.c.. Il sistema risarcitorio posto a carico del detto Fondo non vale dunque a rimpiazzare, ma solo a completare, gli strumenti di tutela esperibili dai danneggiati da sinistro stradale per il ristoro del pregiudizio subito, non consentendo una surrogazione incondizionata del Fondo nella posizione del responsabile né, per l’effetto, uno scaricamento sulla compagnia designata dal Fondo di oneri riparatori che avrebbero potuto essere facilmente pretesi nei confronti di chi sarebbe stato individuabile mediante ordinaria accortezza. Perciò potrà essere qualificato come “veicolo non identificato” solo quello rimasto ignoto nonostante che la vittima abbia tenuto una condotta di usuale ed esigibile diligenza nel corso dell’intera vicenda.

T ribunale di Lecce, sezione I, 16 giugno 2022 n. 1804

AVVOCATO

Responsabilità professionale - Limiti. (Cc, articoli 1218 e 2697)

Secondo il Tribunale di Milano la responsabilità dell’avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale, dovendosi accertare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente e se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni. In tale contesto è configurabile l’imperizia dell’avvocato allorché questi ignori (o violi) precise disposizioni di legge, ovvero erri nel risolvere questioni giuridiche prive di margine di opinabilità, mentre la scelta di una determinata strategia processuale può essere foriera di responsabilità purché la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata (e motivata) dal giudice di merito "ex ante" e non "ex post", sulla base dell'esito del giudizio, restando comunque esclusa in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e/o giurisprudenziali presentino margini di opinabilità - in astratto o con riferimento al caso concreto - tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute dal legale ancorché il giudizio si sia concluso con la soccombenza del cliente. In ogni caso giudicare responsabile il patrocinante sulla base dell’esito vittorioso, o meno, della lite equivarrebbe a trasformare la sua obbligazione di mezzi in un’obbligazione di risultato. Ai fini della prova dell’inadempimento non è sufficiente neppure dimostrare che la prestazione non è stata eseguita, ma occorre accertare la negligenza sulla base del modello di condotta desumibile dalla natura dell’attività esercitata e dal particolare contenuto della prestazione, cioè la sua non diligente esecuzione ai sensi della regola generale, valida per ogni tipo di obbligazione, prescritta dagli artt. 1218 e 2697 c.c.. Pertanto, qualora il legale incorra in condotte palesemente negligenti dovute a ricorsi per cassazione o appelli interposti oltre i termini, all’omessa proposizione di istanze, alla mancata produzione documentale ovvero all’omessa informazione nei confronti del cliente, l’affermazione della responsabilità implica la valutazione positiva che, al diligente compimento di tali determinate attività, sarebbero conseguiti effetti più vantaggiosi per l’assistito, non potendo viceversa presumersi dalla negligenza del professionista che tale sua condotta abbia in ogni caso arrecato un danno.

Tribunale di Milano, sezione I, 16 giugno 2022 n. 5384

PUBBLICO IMPIEGO

Mansioni superiori - Effetti economici. (Costituzione, articolo 36; Cc, articoli 2103 e 2126; Dlgs 30 marzo 2001 n. 165, articolo 52)
Il Tribunale di Napoli si sofferma in sentenza sulla corretta esegesi della norma ex art. 52 D.Lgs. n. 165/2001 osservando così come, nel pubblico impiego, lo svolgimento di fatto di mansioni proprie di una qualifica - anche non immediatamente - superiore a quella di inquadramento formale comporta in ogni caso il diritto alla retribuzione propria di detta qualifica superiore. Né tale disposizione è da intendere come limitata e circoscritta al solo caso in cui le mansioni superiori vengano svolte in esecuzione di un provvedimento di assegnazione, ancorché nullo, dovendosi affermare l'applicabilità anche al pubblico impiego dell'art. 36 Cost. nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, non ostando a tale riconoscimento, a norma dell'art. 2126 c.c., l'eventuale illegittimità del provvedimento di assegnazione del dipendente a mansioni superiori rispetto a quelle della qualifica di appartenenza. In altre parole, si afferma in sentenza il principio per cui sussiste il diritto a percepire una retribuzione commisurata alle mansioni effettivamente svolte in ragione dei principi di rilievo costituzionale e di diritto comune che non è condizionato all'esistenza, né alla legittimità, di un provvedimento del superiore gerarchico, salva l'eventuale responsabilità del dirigente che abbia disposto l'assegnazione con dolo o colpa grave. Tale diritto trova un limite solo nei casi in cui l'espletamento di mansioni superiori sia avvenuto all'insaputa o contro la volontà dell'ente (invito o proibente domino) oppure allorquando sia il frutto della fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente o comunque in tutti i casi in cui si riscontri una situazione di illiceità per contrasto con norme fondamentali e generali o con principi basilari pubblicistici dell'ordinamento. Al contempo, è da escludere che l’esercizio di mansioni superiori determini l’effetto di stabilizzazione di cui all’art. 2103 c.c., in virtù di quel principio generale, insuperabile, di cui al comma primo, dell’insensibilità dell’inquadramento formale rispetto alla realtà fattuale. L’assegnazione fuori dei limiti consentiti è nulla, cioè è improduttiva di effetti, giuridici e contrattuali, generando il solo diritto del lavoratore alla differenza di trattamento economico.
Tribunale di Napoli, sezione lavoro, 16 giugno 2022 n. 3495

RESPONSABILITA’ E RISARCIMENTO

Danni da cose in custodia – Responsabilità civile – Natura giuridica. (Cc, articolo 2051)
La domanda risarcitoria formulata innanzi al Tribunale di Bari ha ad oggetto la responsabilità oggettiva per danni da cose in custodia, secondo il criterio di imputazione stabilito dall’art. 2051 c.c.. Tale disposizione codicistica – sottolinea il Giudice - prevede una responsabilità presunta in capo al custode per i danni provocati dalla cosa che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito. Il fondamento di detta responsabilità dev’essere così individuato nel dovere di custodia che grava sul soggetto (proprietario, usufruttuario, enfiteuta, conduttore) che, a qualsiasi titolo, abbia un effettivo e non occasionale potere fisico sulla cosa in relazione all’obbligo di vigilare affinché la stessa non arrechi danni a terzi. Ai fini del riconoscimento della responsabilità del custode non è necessario che la res sia intrinsecamente pericolosa, ma è sufficiente, perché possa essere riscontrato il rapporto di causalità fra la cosa ed il danno, che la cosa abbia una concreta potenzialità dannosa per sua connaturale forza dinamica o anche statica o per effetto di concause umane o naturali. Ne consegue che, nel giudizio avente ad oggetto la richiesta di risarcimento del danno provocato da una cosa in custodia, il danneggiato deve dimostrare la relazione (di proprietà o di uso) intercorrente fra il convenuto e la res, il danno subito ed il rapporto di causalità fra la cosa e l’evento dannoso, mentre grava sul custode l’onere di fornire la prova liberatoria del caso fortuito, idonea a superare la presunzione iuris tantum prevista a suo carico, dimostrando che l’evento dannoso si è verificato per l’intervento di un fattore esterno (fatto del terzo o dello stesso danneggiato), imprevedibile, inevitabile ed eccezionale che abbia inciso, interrompendolo, sul nesso causale. Si individua invero nella fattispecie prevista dall’art. 2051 c.c. un’ipotesi di responsabilità oggettiva in virtù della quale è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia ed il danno arrecato, non assumendo rilievo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, giacché funzione della norma è quella di imputare oggettivamente la responsabilità al soggetto che, rivestendo la qualità di custode, è in grado di controllare le modalità d’uso e di conservazione della cosa e di prevenire i rischi ad essa inerenti. Da ciò consegue che sul danneggiato incombe la prova del nesso eziologico tra la res e l’evento lesivo, mentre sul custode grava la prova liberatoria costituita dall’allegazione e dimostrazione dell’esistenza di un fattore esterno (caso fortuito, fatto del terzo, forza maggiore), idoneo a interrompere il nesso causale.
Tribunale di Bari, sezione III, 17 giugno 2022 n. 2427

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