Casi pratici

Danno tanatologico: natura e risarcibilità

Danno tanatologico: distinzione tra "danno da morte immediata" e "danno da morte non immediata"

di Serena Gentile

la QUESTIONE
La vittima che subisce una lesione all'integrità fisica tale da causarne il decesso, che interviene immediatamente, o a distanza di breve tempo, rispetto alla lesione che ne è causa, può ritenersi aver acquisito un diritto risarcitorio proprio, derivante dalla lesione subita al bene vita, e, quindi, trasmissibile agli eredi?

La figura del danno tanatologico ha dato luogo a continue e accese discussioni, sia in dottrina che in giurisprudenza, in ordine al riconoscimento di una sua identità, riconducibili, tra l'altro, alla circostanza che di esso non esiste una definizione che ne dia l'esatta portata.
In linea generale si intende per danno tanatologico il danno che si verifica quando un soggetto decede istantaneamente, o quasi, rispetto al momento in cui subisce l'azione illecita altrui.
Per meglio comprendere occorre risalire alla distinzione introdotta dalla giurisprudenza tra "danno da morte immediata", al quale si riconduce il danno tanatologico, e il "danno da morte non immediata", ovvero danno terminale e danno catastrofico.
Più precisamente, la giurisprudenza della Suprema Corte, nell'ambito del danno da morte non immediata, è solita distinguere tra danno biologico terminale e danno morale terminale o anche detto catastrofico (Cass. civ., Sez. III, ord. 05 maggio 2021, n. 11719).
"Danno terminale" biologico è il danno alla salute patito dalla vittima di un illecito nel periodo intercorrente tra la lesione e la morte, ovvero il danno biologico patito da colui che, sopravvissuto per un considerevole lasso di tempo a un evento, poi rivelatosi mortale, abbia, in tale periodo, sofferto una lesione della propria integrità psico-fisica, autonomamente considerabile come danno biologico, quindi accertabile (e accertata) con valutazione medico-legale e liquidabile (in tal senso Cassazione, Sez. III, 13 dicembre 2012, n. 22896).
Il diritto al risarcimento del danno alla salute patito, acquistato dal defunto, è certamente trasmissibile agli eredi che potranno agire in giudizio iure hereditatis atteso che tale diritto è innegabilmente entrato a far parte del patrimonio dello stesso, con la conseguente possibilità di trasmissione in capo agli eredi a seguito della morte.
La risarcibilità di tale pregiudizio è ormai pacificamente ammessa, contrasti sussistono, però, circa il lasso temporale idoneo a determinarne l'insorgenza nonché al quantum del risarcimento (sul punto, v. Tribunaledi L'Aquila, 2 marzo 2022, n. 92, secondo il quale è risarcibile il danno terminale biologico – e non anche del danno tanatologico – ovvero il danno maturato in capo alla vittima, trasmissibile agli eredi, allorquando la morte della stessa non sia seguita immediatamente alle lesioni ma tra l'infortunio e la morte sia intercorso un apprezzabile lasso temporale, ancorché minimo).
Al riguardo esiste una vasta casistica giurisprudenziale che ritiene sufficiente a tale scopo il decorso a volte di "qualche giorno" (Cass. n. 3549/2004), a volte di pochi minuti, a volte di mezz'ora (Cass. n. 13585/2004).
Il fatto è che un lasso di tempo troppo breve non è spesso ritenuto idoneo a far sorgere in capo alla vittima il diritto al risarcimento.
In questi casi, infatti, viene messa in discussione, l'effettiva sussistenza del danno: pochi minuti, mezz'ora, tre ore non sembrerebbero sufficienti a causare nella vittima l'effettivo patimento di un pregiudizio, diversamente da quando questa trascorre qualche giorno in uno stato psico-fisico tanto compromesso da causarle poi la morte (sul punto, si veda la già citata (Cass. civ., Sez. III, ord. 05 maggio 2021, n. 11719, secondo la quale, ai fini della risarcibilità del danno biologico terminale, è necessario che intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni e l'evento morte, indipendentemente dalla percezione cosciente in capo alla vittima della gravissima lesione della propria integrità personale nella fase terminale).
Per quanto riguarda poi l'entità del pregiudizio risarcibile è chiaro che esso non può identificarsi con la perdita totale della salute o della vita, ma solo con l'inabilità temporanea per il tempo di permanenza in vita, sebbene, ai fini della liquidazione, si terrà conto che il danno di cui trattasi, anche se temporaneo, è massimo nella sua entità e intensità, atteso che la lesione alla salute è elevata a tal punto da non consentire il recupero ma, addirittura, da condurre alla morte (Cass. n. 18163/2007).
"Danno catastrofico" (o "danno morale terminale" , ovvero ancora "danno da agonia") è invece il patimento sofferto dalla vittima che, a seguito di un illecito, sia deceduta dopo un lasso di tempo insufficiente a determinare la risarcibilità del danno biologico terminale.
Il danno catastrofico è lo stato di profonda e intensa afflizione vissuto, in caso di morte non istantanea, dalla vittima principale di un evento illecito letale, la quale abbia, per un apprezzabile lasso di tempo, atteso lucidamente e coscientemente l'estinzione della propria vita.
Trattasi di un danno morale che si concreta in una sofferenza psichica di massima intensità, anche se di breve durata, pregiudizio non patrimoniale, di indubbia matrice psichica, trattandosi di un vero e proprio danno psichico da sofferenza esistenziale, che subisce la vittima rimasta cosciente durante la consapevole attesa della fine della propria vita.
Quanto alla giurisprudenza, talune pronunce lo hanno collocato nel cd. "danno morale" (o meglio, di un danno morale particolarmente grave, in quanto connaturato a una situazione di sofferenza particolarmente acuta, patita dal soggetto cosciente dell'approssimarsi della fine), altre lo hanno invece descritto come pregiudizio di tipo esistenziale, e come tale risarcibile in favore degli eredi del de cuius in quanto rientrante nel limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell'evento di danno, mentre da ultimo, una ricostruzione minoritaria riconosce al danno in questione il carattere di danno biologico, argomentando che la notevole intensità della sofferenza subita è di per sé idonea a dar luogo a un pregiudizio per la salute psichica.
Le Sezioni Unite, nelle celebri sentenze di San Martino (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972, 26973, 26974 e 26975), hanno affermato che «il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine.
Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita (sent. n. 1704/1997 e successive conformi), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura (sent. n. 6404/1998 e successive conformi).
Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione».
Una più recente pronuncia, sopra menzionata, ha confermato: «il danno catastrofale è il danno non patrimoniale conseguente alla sofferenza patita dalla persona che, a causa delle lesioni sofferte nel lasso di tempo compreso tra l'evento che le ha provocate e la morte, assiste alla perdita della propria vita» (cfr. Cass. civ., Sez. III, 13 dicembre 2012 n. 22896).
Tale pregiudizio viene liquidato in giurisprudenza, iure ereditario, in via equitativa, mediante il riconoscimento di somme che tengano imprescindibilmente in considerazione l'innegabile ed evidente effetto privativo di un simile pregiudizio a carico della vittima del diritto di vivere spiegando tutte le proprie energie, nonché, più in generale, della tragica consapevolezza di una ingiusta condanna a morte, di una lenta e inutile agonia.
In tal senso, si è recentissimamente espressa anche la giurisprudenza di merito, la quale, muovendo dalla definizione di danno catastrofale quale sofferenza provata dalla vittima nell'avvertire coscientemente l'ineluttabile approssimarsi della propria fine, ha precisato che ciò che rileva, ai fini del diritto al risarcimento, è proprio l'effettiva esistenza di uno sconvolgimento psichico patito da chi si trovi a cogliere, anche per un periodo di breve durata, il proprio momento terminale, così ribadendo che, in tali casi, il diritto deve ritenersi trasmissibile iure ereditario (Tribunale Benevento, 20 gennaio 2022, n. 119).
In conclusione, quindi, il diritto al risarcimento del danno biologico terminale è configurabile e, conseguentemente, trasmissibile "iure hereditatis" ove intercorre un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse, non essendo rilevante la circostanza che, durante il periodo di permanenza in vita, la vittima abbia mantenuto uno stato di lucidità, il quale costituisce, invece, presupposto essenziale del diverso danno catastrofico o morale terminale, risarcibile – ed anch'esso trasmissibile iure ereditario – anche allorquando il periodo di tempo intercorrente tra le lesioni e l'evento morte sia di breve durata (Cass. civ., Sez. III, 19 ottobre 2016, n. 21060).

Il danno tanatologico: diversità di opinioni sulla sua sussistenza
Chiara la differenza delle due precedenti voci di danno "da morte non immediata" rispetto al danno tanatologico ("danno da morte immediata"), pregiudizio anche indicato come "danno da perdita della vita", come a voler evidenziare la circostanza che in conseguenza dell'evento dannoso viene meno il più prezioso bene giuridico che è l'esistenza, e a prescindere dall'effettiva durata della infermità dalla insorgenza dell'illecito all'effettivo decesso, che può essere anche contestuale (assenza del cd. spatium vivendi).
Ebbene, quando il decesso avviene in modo così repentino sembrerebbe non potersi configurare in capo alla vittima un danno, patrimoniale o non patrimoniale, nel senso di danno differenziale e normativo.
Invero per il nostro ordinamento il danno risarcibile ex art. 2043 c.c. è il danno ingiusto che abbia comportato un peggioramento quantitativo e qualitativo nella sfera giuridica della vittima rispetto a quelle condizioni rilevabili in capo alla stessa in assenza della condotta illecita altrui, cioè è risarcibile quindi solo il danno-conseguenza e non il solo danno-evento.
È normativo il danno nel senso che è risarcibile solo il danno ingiusto differenziale che soddisfi i requisiti ex artt. 1223 e 2046 c.c.: conseguenza diretta e immediata della condotta illecita sulla base del noto criterio di regolarità dell'id quod plerumque accidit.
Perché possa parlarsi di danno differenziale occorre, dunque, inevitabilmente; effettuare un giudizio di comparazione tra la situazione giuridica della vittima prima e dopo la condotta illecita.
È chiaro che in caso di morte immediata per la vittima la differenza tra il prima e il dopo è massima dato che con il decesso si estingue la persona fisica e, di conseguenza, viene meno lo stesso soggetto giuridico.
Dunque la morte determina la perdita della capacità giuridica, che ex art. 1 c.c. si acquisisce con la nascita.
Venuta meno l'idoneità di un soggetto a essere titolare di posizioni giuridiche soggettive attive e passive, è inevitabile chiedersi se può esistere un diritto al risarcimento del danno iure proprio in capo alla vittima deceduta derivante proprio dalla morte.
In pratica la vittima acquisterebbe tale diritto nel momento stesso del decesso, e proprio a causa di esso, pertanto ci si chiede se la vittima, che morendo cessa di essere soggetto dell'ordinamento giuridico, potrebbe vantare un diritto quando è già morto e a causa dello stesso decesso.
Orbene, nel caso in cui la vittima dell'illecito altrui decede immediatamente (o dopo poco tempo) il diritto al risarcimento del danno non avrebbe il tempo di maturare nella sua sfera giuridica: la vittima decede senza averlo maturato, pertanto, gli eredi non potrebbero agire iure successionis affermando che il diritto al risarcimento del danno sia entrato nella sfera giuridica del de cuius, per poi trasferirsi agli stessi, secondo lo schema logico-giuridico della successione legittima.
Questo secondo la tesi maggiormente affermatisi in giurisprudenza, per la quale la irrisarcibilità di tale tipo di danno discenderebbe da fondate considerazioni di ordine sia logico che giuridico: «il soggetto che perde la vita non è in grado di acquistare un diritto risarcitorio, perché finché è in vita non vi è perdita e quando è morto da una parte non è titolare di alcun diritto e dall'altra non è in grado di acquistarne» (cfr. Cassazione, Sez. III, 23 febbraio 2004, n. 3549).
In effetti tale convincimento ha radici assai risalenti nella giurisprudenza di legittimità, addirittura vi è una vecchissima pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite nel 1925 (Cass. civ., Sez. Un., n. 3475/1925) nella quale il diritto al risarcimento del danno veniva negato in caso di morte immediata: «se è alla lesione che si rapportano i danni, questi entrano e possono logicamente entrare nel patrimonio del lesionato solo in quanto e fin quando il medesimo sia in vita. Questo spentosi, cessa anche la capacità di acquistare, che presuppone appunto e necessariamente l'esistenza di un subbietto di diritto».
Quest'orientamento si è mantenuto pressoché costante nel corso del tempo nella giurisprudenza della Suprema Corte (v., ex multis, Cassazione civ., Sez. III, 13 febbraio 2019,n. 4146, secondo la quale, il danno da perdita della vita, per rappresentare danno risarcibile, è necessario che sia rapportato ad un soggetto idoneo a far valere il relativo credito risarcitorio, che non sorge nell'ipotesi in cui la morte si verifichi dopo pochissimo tempo dalle lesioni personali, stante l'assenza stessa di un soggetto a cui sia collegabile la perdita e nel cui patrimonio possa essere acquisito il diritto al risarcimento), trovando autorevole conferma anche nella Corte Costituzionale.
E infatti la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 372 del 1994 negava sussistere contrarietà a Costituzione per quell'interpretazione degli artt. 2043 e 2059 c.c. per la quale non sono risarcibili iure hereditatis i danni derivanti dalla violazione del diritto alla vita: un tale assunto, per la Corte, ben può giustificarsi sulla base dello stesso sistema della responsabilità civile.
Secondo la Corte, in particolare, l'impedimento a riconoscere agli eredi di persona deceduta a seguito di comportamento colposo altrui, un risarcimento iure successionis della lesione del diritto alla vita e alla salute non proviene dal carattere patrimoniale dei danni risarcibili ai sensi dell'art. 2043 c.c., bensì da un limite strutturale della responsabilità civile che attiene sia all'oggetto del risarcimento, che non può consistere se non in una perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva, sia alla liquidazione del danno, che si riferisce a "perdite", di conseguenza la tutela risarcitoria del diritto alla salute, ex art. 2043 c.c. a cui va esteso tale limite, non è in contrasto con gli artt. 2 e 32 Cost.
Sulla scorta di tale orientamento, si consolida in giurisprudenza il convincimento della irrisarcibilità del danno tanatologico, che trova ulteriore fondamento nel rigido principio per il quale l'art. 2043 del codice civile ha una funzione meramente riparatoria per il quale il danno non patrimoniale è danno-conseguenza e non danno-evento.
Il risarcimento del danno avrebbe come unica funzione quella di tenere indenne il soggetto danneggiato dalle conseguenze pregiudizievoli dell'illecito (o dall'inadempimento, in caso di responsabilità contrattuale) mediante la restituzione o il ristoro del patrimonio del creditore.
Fondandosi su tale ferreo principio l'orientamento maggioritario in giurisprudenza ha sempre escluso la risarcibilità del danno tanatologico come specie particolare del danno biologico nella sua più profonda gravità, inteso quale totale e massima lesione del bene giuridico salute.
Vita e salute sono considerati due beni giuridici distinti pertanto, nel caso in cui l'illecito abbia inciso sul bene vita, la perdita di quest'ultima, per il definitivo venir meno del soggetto, non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento, come tale trasferibile agli eredi, atteso che si tratta della lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare e da questi fruibile solo in natura, onde deve escludersi che il risarcimento del danno, per la sua funzione schiettamente riparatoria, possa operare quando la persona abbia cessato di esistere (in tal senso Cassazione n. 3549/2004, 2134/2000, 1704/1997, 491/1999, 8970/1998; Corte Cost. n. 372/1994).
A ragionare diversamente si finirebbe con l'assegnare alla tutela dell'articolo 2043 del codice civile una funzione solo sanzionatoria.
Una delle poche pronunce della giurisprudenza di legittimità che, invece, ha aderito all'orientamento minoritario, valorizzava l'articolo 2 della Costituzione e l'articolo II-62 della Costituzione europea, sottolineando che «la dottrina italiana ed europea che riconoscono la tutela civile del diritto fondamentale della vita, premono per il riconoscimento della lesione come momento costitutivo di un diritto di credito che entra istantaneamente come corrispettivo del danno ingiusto al momento della lesione mortale, senza che rilevi la distinzione tra evento di morte mediata o immediata.
La certezza della morte, secondo le leggi, nazionali ed europee è a prova scientifica, e attiene alla distruzione delle cellule cerebrali e viene verificata attraverso tecniche raffinate che verificano la cessazione della attività elettrica di tali cellule.
La morte cerebrale non è mai immediata, con due eccezioni: la decapitazione o lo spappolamento del cervello. In questo quadro anche il danno da morte, come danno ingiusto da illecito è trasferibile mortis causa, facendo parte del credito del defunto verso il danneggiante e i suoi solidali». (Cass. civ., Sez. III, 12 luglio 2006, n. 15760).
Più di recente la Cassazione a Sezioni Unite (Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26792, 26793, 26794, 26795) ha affermato che nel caso di danno da morte immediata (o danno tanatologico), il giudice avrebbe potuto riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, quando sia rimasta lucida durante l'agonia in consapevole attesa della fine.
Per la Corte, premesso che il risarcimento del danno non patrimoniale postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l'illecito civile extracontrattuale definito dall'art. 2043 c.c., l'art. 2059 c.c. non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell'illecito civile, che si ricavano dall'art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest'ultimo dall'ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata: Corte Cost. n. 372/1994; Sez. Un. n. 576, 581, 582, 584/2008).
Sostanzialmente il danno tanatologico viene riconosciuto solo come una forma particolare di "danno morale terminale" o "psichico terminale" (sofferenza "psichica provata dalla vittima"); solo in questo modo se ne riconosceva la risarcibilità iure hereditatis.
Secondo la pronuncia: «Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall'evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura. Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione».
Da segnalare che in dottrina, invece, onde giungere al riconoscimento di tale tipologia di danno, si è anche arrivato a definire il danno da perdita della vita quale danno da perdita di chances di sopravvivenza, pertanto, considerando la chance quale entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente valutabile, si è affermato che l'illecito che cagiona la morte di un soggetto colpisce un bene che è già parte del patrimonio di costui e che altro non è se non l'aspettativa di vita media: la lesione di tale bene, in quanto posta attuale del patrimonio del defunto, deve essere risarcita da colui che l'ha cagionata.

Un passo verso il riconoscimento della risarcibilità del danno tanatologico: la sentenza del 23 gennaio 2014, n. 1361
Un'importante apertura verso il riconoscimento della risarcibilità del danno tanatologica si è avuta con la sentenza n. 1361 del 23 gennaio 2014.
In essa, dopo un lunghissimo excursus sulle varie tesi che si sono avvicendate nel corso del tempo nella giurisprudenza sia per escludere la risarcibilità del danno in esame, sia, al contrario, per riconoscerne la risarcibilità (sebbene sovente attraverso funamboliche ricostruzioni) sembrava che la Corte desse, finalmente, una vera e propria svolta nel dibattito sulla possibilità di riconoscere o meno la risarcibilità del danno tanatologico affermando che «il risultato ermeneutico raggiunto dal prevalente orientamento giurisprudenziale appare non del tutto rispondente all'effettivo sentire sociale nell'attuale momento storico» e che le elaborazioni dottrinali in materia nonché gli escamotages giurisprudenziali architettati al fine di corrispondere un adeguato risarcimento ai superstiti testimoniano "la necessità di ammettersi senz'altro la diretta ristorabilità del bene vita in favore di chi l'ha perduta in conseguenza del fatto illecito altrui"».
Nella pronuncia la Corte evidenzia che sia la dottrina che la giurisprudenza hanno individuato una inaccettabile incongruenza tra il riconoscere della risarcibilità quando la lesione, seppur lieve, riguardi l'integrità psico-fisica, e il negarla, invece, quando la lesione raggiunge la sua massima espressione.
Ebbene, pur riconoscendosi la necessità di restare ancorati al principio fondamentale di cui alle sentenze gemelle delle Sezioni Unite del 2008, secondo cui nel nostro ordinamento sono risarcibili soltanto i danni-conseguenza, l'adesione a esso non si può considerare di per sé sola sufficiente a escludere la risarcibilità del danno tanatologico: tutti i principi hanno delle eccezioni, che, di certo, non ne comportano una negazione.
Le argomentazioni addotte dalla Corte prendono le mosse dal principio per il quale «La morte ha infatti per conseguenza ... la perdita non già solo di qualcosa bensì di tutto. Non solo di uno dei molteplici beni, ma del bene supremo, la vita, che tutto il resto racchiude. Non già di qualche effetto o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e conseguenze. Non si tratta quindi di verificare quali conseguenze conseguano al danno evento, al fine di stabilire quali siano risarcibili e quali no. Nel più sta il meno. La morte determina la perdita di tutto ciò di cui consta(va) la vita della (di quella determinata) vittima, che avrebbe continuato a dispiegarsi in tutti i molteplici effetti suoi propri se l'illecito dell'autore non ne avesse determinato la soppressione. Come correttamente osservato in dottrina, la perdita della vita va in realtà propriamente valutata ex ante e non già ex post rispetto all'evento che la determina. È allora proprio l'eccezione che vale a confermare la regola, evitando che la stessa risulti fallace in quanto insuscettibile di generare applicazione, sì da legittimarne la revoca in dubbio».
Conclude la Corte affermando che il danno da perdita della vita consiste nella perdita di un bene supremo, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile, diverso rispetto al danno alla salute, al danno biologico terminale e al danno morale terminale (o catastrofale), rilevando ex se, nella sua oggettività.
Tale danno va risarcito a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, anche in caso di morte immediata o istantanea: non rileva la circostanza della persistenza in vita per un apprezzabile lasso di tempo successivo al danno evento né l'intensità della sofferenza subita dalla vittima per la cosciente e lucida percezione dell'ineluttabile sopraggiungere della propria fine.
Tale diritto è acquisito dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale, dunque anteriormente all'exitus, venendo così a costituire eccezione al principio dell'irrisarcibilità del danno-evento, e infatti la morte ha per conseguenza la perdita non solo di qualcosa, ma di tutto, non di uno dei molteplici beni, ma del bene supremo della vita, di tutti gli effetti e conseguenze, di tutto ciò di cui consta(va) la vita della vittima e che avrebbe continuato a dispiegarsi in tutti i molteplici effetti suoi propri se l'illecito non l'avesse soppressa.
Tale risarcimento ha funzione compensativa, e il relativo diritto è trasmissibile iure hereditatis.

Un passo indietro: la sentenza delle Sezioni Unite del 22 luglio 2015, n. 15350
Malgrado le suggestive, e per alcuni aspetti condivisibili, argomentazioni addotte dalla Corte di Cassazione con la sentenza appena menzionata, lungo e tortuoso appare il percorso verso il definitivo riconoscimento della risarcibilità del danno cd. tanatologico.
E infatti le Sezioni Unite, chiamate a dirimere la questione nell'altalenanza delle pronunce, ne hanno nuovamente negato il riconoscimento.
La Sezione III della Corte di Cassazione, investita del ricorso proposto avverso la pronuncia d'appello con la quale era stata rigettata la richiesta di risarcimento del danno tanatologico che una coppia di genitori assumeva a loro spettante iure hereditario per la morte del proprio figlio in un incidente stradale, con l'ordinanza n. 5056 del 2014, rimetteva gli atti al Primo Presidente affinché valutasse l'opportunità di assegnare il ricorso alle Sezioni Unite onde dirimere il contrasto creatosi sull'argomento in giurisprudenza, acuitosi con la sentenza n. 1361 del 2014.
Osservava, infatti, il Collegio, che «con la sentenza n. 1361 del 23 gennaio 2014, questa stessa sezione ha affermato il principio secondo il quale deve ritenersi risarcibile iure hereditario il danno da perdita della vita immediatamente conseguente alle lesioni riportate a seguito di un incidente stradale. Tale sentenza si pone in consapevole contrasto con la propria, precedente giurisprudenza, che più volte ha avuto modo di pronunciarsi in senso opposto in subiecta materia».
E infatti: «con ampia e articolata motivazione, la pronuncia n. 1361/2014, dopo un lungo excursus sul panorama dottrinario e sui dicta di parte della giurisprudenza di merito, è pervenuta, dunque, a una diversa conclusione, sulla premessa secondo la quale "la perdita della vita non può lasciarsi, invero, priva di tutela (anche) civilistica", poiché "il diritto alla vita è altro e diverso dal diritto alla salute", così che la sua risarcibilità "costituisce realtà ontologica e imprescindibile eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni conseguenza". Tale decisione, facendo proprie talune indicazioni provenienti da quella parte della dottrina che, a vario titolo e con disparate argomentazioni, ritiene risarcibile il danno cd. tanatologico, ha così inteso superare il criterio della individuazione di un adeguato periodo di lucidità e di coscienza nella vittima del sinistro ai fini dell'acquisizione al suo patrimonio di un diritto trasmissibile iure successionis».
Della questione venivano, dunque, investite le Sezioni Unite.
Orbene, a dispetto di quello che ci si poteva attendere in un'ottica di "ammodernamento" del sistema, invece le Sezioni hanno ancora una volta negato la risarcibilità agli eredi del danno tanatologico subito dalla vittima.
E infatti, secondo tale pronuncia la sentenza n. 1361 del 2014 non conterrebbe argomentazioni decisive per superare l'orientamento tradizionale: nel caso di morte cagionata da atto illecito il danno è rappresentato dalla perdita del bene giuridico "vita", bene autonomo, fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente.
Peraltro, atteso che una perdita, per rappresentare un danno risarcibile, deve essere rapportata a un soggetto che sia legittimato a far valere il credito risarcitorio, nel caso di morte verificatasi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, l'irrisarcibilità deriverebbe dalla assenza di un soggetto al quale, nel momento in cui si verifica, sia collegabile la perdita stessa e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito.
Secondo il Collegio sarebbe facilmente superabile anche quell'argomento definito in dottrina "è più conveniente uccidere che ferire" – per il quale sarebbe contraddittorio concedere onerosi risarcimenti dei danni derivanti da lesioni gravissime e negarli nel caso d'illecita privazione della vita, con ciò contraddicendosi non solo il principio della necessaria integralità del risarcimento, ma anche la funzione deterrente che dovrebbe essere riconosciuta al sistema della responsabilità civile – ritenendosi tale argomentazione solo suggestiva: non corrispondente al vero che dall'applicazione della disciplina vigente le conseguenze economiche della privazione della vita siano per l'autore dell'illecito, in concreto, meno onerose di quelle che derivano dalle lesioni personali.
Infine le Sezioni Unite osservano che, sebbene la sentenza n. 1361 non contesti il principio pacifico della giurisprudenza di legittimità, per il quale risarcibili sono solo i danni che consistono nelle perdite conseguenza della lesione della situazione giuridica soggettiva, e non quelli consistenti nell'evento lesivo ex se considerato, affermando essa che il credito risarcitorio del danno da perdita della vita si acquisirebbe al momento stesso dell'evento lesivo, si porrebbe come eccezione a tale principio, ma come eccezione di una portata tale da vulnerare la stessa attendibilità del principio, diventando, peraltro incompatibile con lo stesso sistema della responsabilità civile, fondato sulla necessità ai fini risarcitori del verificarsi di una perdita rapportabile a un soggetto.
Il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 15350 del 2015 è stato affermato anche di recente dalla giurisprudenza della Suprema Corte, la quale, evidenziando come la questione relativa alla risarcibilità agli eredi del danno – sia esso biologico, morale-catastrofale, tanatologico – patito dalla vittima deceduta, che aveva dato luogo a contrasto tra le sezioni semplici, sia stata ormai definitivamente risolta proprio dalle citate Sezioni Unite, ribadisce che i danni non patrimoniali risarcibili alla vittima, trasmissibili agli eredi, possono consistere unicamente nel danno biologico o c.d. terminale e nel danno catastrofale, rimanendo invece «…esclusa la risarcibilità del danno consistente nella "perdita del bene-vita" (c.d. "danno tanatologico"), autonomo e diverso rispetto al bene-salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché ove il decesso di verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità, "iure hereditatis", di tale pregiudizio…» (Cass. civ., Sez. III, 27 settembre 2017, n. 22451; sul (sul punto, v. anche (Cass. civ., Sez. III, ord. 05 maggio 2021, n. 11719).

Considerazioni conclusive
Appare evidente che a oggi nulla vi è di nuovo in merito al possibile ingresso del cd. "danno tanatologico" (o danno da morte immediata) nel novero dei danni risarcibili e, dunque, trasmissibili ereditariamente.
La svolta che verso il riconoscimento della risarcibilità di tale danno, pareva aver dato la sentenza n. 1361 del 2014, il cui avallo definitivo sembrava potersi attendere a seguito dell'ordinanza della III Sezione della Cassazione – che evidenziava l'opportunità di un intervento delle Sezioni Unite per far chiarezza sull'argomento – non si è avuto proprio perché quest'ultime, nuovamente, hanno confermato quello che sembra ancora essere l'orientamento prevalente, sia in dottrina che in giurisprudenza, che esclude tale risarcibilità
Invero, sebbene non possa che condividersi quell'orientamento, saldamente affermatosi dopo l'intervento delle sentenze gemelle del 2008, che, per vari e condivisibili motivazioni, tra cui, indubbiamente, anche la stessa certezza del diritto, tende a ridurre il più possibile le molteplici voci di danno che nel trascorrere del tempo vanno avvicendandosi, è anche vero che, nell'ottica di un diritto dinamico, e nel rispetto di quell'altro principio, anch'esso meritevole di osservanza, che richiede pur sempre un adeguato ristoro del danno, è auspicabile un nuovo intervento che dia voce alle tesi che, sebbene minoritarie, riconoscono la risarcibilità del danno "tanatologico", probabilmente dando così risposta anche a esigenze di natura sociale.
Sarebbe, dunque, forse più opportuno riconoscere al danno tanatologico la dignità di danno risarcibile e trasmissibile agli eredi, pur sempre definendone strettamente i confini.

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Gabriele Chiarini

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