Civile

Tribunali civili: le principali sentenze di merito della settimana

La selezione delle pronunce della giustizia civile nel periodo compreso tra il 27 giugno e il primo luglio 2022

di Giuseppe Cassano


Nel corso di questa settimana le Corti d'Appello si pronunciano in materia di condominio (quanto alle spese per la manutenzione dei balconi e al regime di responsabilità dell'amministratore) e sulla tutela del terzo trasportato in ipotesi di sinistro stradale.
I Tribunali, da parte loro, trattano i temi della querela di falso, della società di fatto, della garanzia per evizione nella vendita immobiliare, delle limitazioni alla copertura assicurativa nel sistema RCA, della responsabilità civile dei Magistrati, dell'indebito oggettivo e infine della qualifica di consumatore.


CONDOMINIO
Edificio condominiale – Balconi - Spese
. (Cc, articolo 1117)
La Corte d'Appello di Roma esprime in sentenza il principio di diritto secondo cui, nell'edificio condominiale, i balconi, essendo elementi accidentali, privi di funzione portante rispetto alla struttura del fabbricato e non essendo destinati all'uso comune, ma soltanto all'uso e godimento di una parte dell'immobile oggetto di proprietà esclusiva, non costituiscono parti comuni dell'edificio, ma devono considerarsi appartenenti esclusivamente al proprietario dell'unità immobiliare corrispondente, della quale costituiscono naturale prolungamento e pertinenza.
Nei balconi possono - eventualmente - anche ricorrere elementi decorativi che costituiscano un ornamento della facciata, assimilabili, per tale loro funzione - ai sensi dell'art. 1117 c.c. - alle parti comuni dell'edificio; però non solo l'individuazione di tali elementi, ma anche la loro funzione architettonica e il conseguente regime di appartenenza (condominiale, se assolvano prevalentemente alla funzione di rendere esteticamente gradevole l'edificio, di pertinenza dell'appartamento di proprietà esclusiva quando servono solo al decoro di quest'ultimo) non possono definirsi in astratto, ma devono essere effettuati in concreto, caso per caso, in base al criterio della loro funzione prevalente.
In definitiva, in tema di condominio negli edifici, i balconi aggettanti, in quanto "prolungamento" della corrispondente unità immobiliare, appartengono in via esclusiva al proprietario di questa, dovendosi considerare beni comuni a tutti soltanto i rivestimenti e gli elementi decorativi della parte frontale e di quella inferiore, quando si inseriscono nel prospetto dell'edificio e contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole.
Ne consegue che le spese relative alla manutenzione dei balconi, comprensive non soltanto delle opere di pavimentazione, ma anche di quelle relative alla piattaforma o soletta, all'intonaco, alla tinta ed alla decorazione del soffitto, restano a carico del solo proprietario dell'appartamento che vi accede, e non possono essere ripartite tra tutti i condomini, in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno.
(Appello Roma, sezione VIII, 27 giugno 2022 n. 4447)

CONDOMINIO
Amministratore del condominio - Condomini morosi - Cooperazione verso i creditori
. (Cc disp. att., articolo 63)
La Corte d'Appello di Napoli sottolinea in sentenza come l'art. 63 disp. att. c.c. disciplini l'operato dell'amministratore del condominio in relazione alla riscossione dei contributi nei confronti dei condomini morosi ponendo in stretta correlazione il potere di agire in giudizio – senza autorizzazione dell'assemblea - nei confronti di costoro e il dovere di comunicare ai creditori che lo richiedano i dati dei condomini morosi: dovere sancito non soltanto nell'interesse dei creditori, per consentire loro di agire a tutela delle loro ragioni, ma anche degli stessi condomini virtuosi (e, quindi, in definitiva, del condominio), perché possano invocare il beneficio di escussione di cui al secondo comma della norma de qua.
E, se l'azione contro il condomino moroso è certamente esercitata dall'amministratore non in nome proprio ma del condominio, il primo comma dell'art. 63, nel menzionare l'amministratore medesimo come soggetto di due coordinate proposizioni normative, lo identifica, evidentemente, in entrambi i casi come rappresentante del condominio.
A tal proposito, la circostanza che l'adempimento del dovere di cooperazione verso i creditori sia rispondente all'interesse dello stesso condominio conferma, anziché smentire, l'ipotesi che egli agisca nella sua veste di mandatario di questo e, di conseguenza, debba essere convenuto in tale qualità, da parte dei terzi.
Dell'eventuale comportamento illecito, consistente nel rifiuto di ottemperare alla richiesta del creditore di avere i dati dei condomini morosi, l'amministratore risponde in proprio nell'ambito del suo rapporto di mandato con il condominio, così come nel caso in cui si renda inadempiente rispetto agli ulteriori obblighi imposti dalla legge o dal contratto, anche eventualmente in rivalsa rispetto alle pretese dei terzi contro il condominio.
All'esterno, invece, l'amministratore, nell'esercizio dei suoi doveri, si pone come rappresentante del condominio e, pertanto è in tale qualità che deve essere convenuto in giudizio da parte dei terzi.
Tale opzione interpretativa, peraltro, consente di ritenere irrilevante l'ipotesi che, medio tempore, il destinatario dell'azione giudiziale sia sostituito da un nuovo amministratore.
In definitiva, deve ritenersi che legittimato passivo nel procedimento instaurato ai sensi dell'art. 63 disp. att. c.c. sia il condominio, in persona dell'amministratore pro tempore.
(Appello Napoli, sezione VI, 28 giugno 2022 n. 3015)

CIRCOLAZIONE STRADALE
Sinistri stradali – Terzo trasportato – Tutela giurisdizionale
. (Cc, articoli 2054 e 2055; Dlgs 7 settembre 2005 n. 209, articoli 141, 143 e 144)
La Corte d'Appello di Bari si sofferma sulla corretta esegesi della norma di cui all'art. 141 D.Lgs. n. 209/2005, che consente – in ipotesi di sinistro stradale - al terzo trasportato di agire nei confronti dell'assicuratore del proprio vettore sulla base della mera allegazione e prova del danno e del nesso causale, "a prescindere dall'accertamento della responsabilità dei conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro", introducendo così una tutela rafforzata del danneggiato trasportato al quale può essere opposto il solo "caso fortuito".
Il rimedio in esame non esclude, in quanto tale, la possibilità, per il trasportato danneggiato, di promuovere la generale azione diretta di cui all'art. 144 D.Lgs. n. 209/2005 (esperibile da qualsiasi danneggiato) nei confronti dell'impresa di assicurazione del responsabile del danno, per cui vi è piena cumulabilità fra l'azione di cui all'art. 141 e quella di cui all'art. 144.
Se il trasportato agisce nei confronti del proprio vettore e dell'altro conducente in base al combinato disposto dell'art. 2054, II, c.c., dell'art. 2055 c.c. e dell'art. 144 cit., il giudizio avrà ad oggetto l'accertamento della responsabilità dei conducenti ed il trasportato potrà ottenere il risarcimento nei confronti dell'assicuratore del proprio vettore entro i limiti del massimale contrattuale anche nel caso di concorso di colpa del vettore.
Dal punto di vista letterale, l'art. 141, III, prevede che trovano applicazione, in quanto compatibili, le disposizioni di cui agli artt. 143 ss. e dunque anche l'art. 144, III, che prevede il litisconsorzio necessario del responsabile del danno, non sussistendo alcuna causa di incompatibilità fra le previsioni di cui all'art. 141 ed il detto litisconsorzio.
In tutte le ipotesi di azioni dirette disciplinate dal vigente D.Lgs. n. 209/2005, il proprietario del veicolo assicurato deve essere, quale responsabile del danno, chiamato in causa quale litisconsorte necessario nel giudizio promosso dal danneggiato contro l'assicuratore, al fine di rendere opponibile all'assicurato l'accertamento della sua condotta colposa, in vista dell'azione di regresso dell'amministratore.
(Appello Bari, sezione III, 29 giugno 2022 n. 1106)

QUERELA DI FALSO
Querelante – Mezzi di prova
. (Cpc, articolo 221)
Il Tribunale di Latina, chiamato a pronunciarsi in tema di querela di falso, precisa che, nel caso di sottoscrizione di documento in bianco, colui che contesta il contenuto della scrittura è tenuto a proporre la querela di falso soltanto se assume che il riempimento sia avvenuto ‘absque pactis', in quanto in tale ipotesi il documento esce dalla sfera di controllo del sottoscrittore completo e definitivo, sicché l'interpolazione del testo investe il modo di essere oggettivo dell'atto, tanto da realizzare una vera e propria falsità materiale, che esclude la provenienza del documento dal sottoscrittore.
Il soggetto che proponga querela di falso può valersi di ogni mezzo ordinario di prova e quindi anche delle presunzioni, utilizzabili in particolare quando il disconoscimento dell'autenticità non si estenda alla sottoscrizione e sia lamentato il riempimento di documento ‘absque pactis', con conseguente contestazione del nesso fra il testo ed il suo autore.
A norma dell'art. 221, II, c.p.c. la querela di falso deve contenere, a pena di nullità, l'indicazione degli elementi di prova e delle prove della falsità e deve essere proposta personalmente dalla parte oppure a mezzo di procuratore speciale con atto di citazione, oppure con dichiarazione da unirsi al verbale di udienza.
La querela di falso persegue lo scopo di privare una scrittura privata riconosciuta o un atto pubblico della sua intrinseca idoneità a far fede, vale a dire a servire come prova di atti o di rapporti; la stessa è così proponibile contro chi possa avvalersi del documento, per fondare su di esso una pretesa giuridica, sia o meno l'autore della falsificazione.
Ciò rende evidente che il giudizio civile di falso ed il procedimento penale di falso, pur conducendo entrambi ad un'eliminazione dell'efficacia rappresentativa del documento risultato falso, sono sostanzialmente differenti tra loro: il primo tende soltanto a dimostrare la totale o parziale non rispondenza al vero di un determinato documento nel suo contenuto obiettivo o nella sua sottoscrizione; il secondo, mira anche ad identificare l'autore, al fine di assoggettarlo alle pene stabilite dalla legge.
(Tribunale Latina, sezione I, 28 giugno 2022 n. 1375)

SOCIETÀ
Società di fatto – Prova
. (Cc, articoli 2267, 2297 e 2729)
È affermazione in punto di diritto del Tribunale di Lecce quella secondo cui, in tema di società, la mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al Giudice di merito l'accertamento aliunde, mediante ogni mezzo di prova previsto dall'ordinamento, ivi comprese le presunzioni semplici, dell'esistenza di una struttura societaria, all'esito di una rigorosa valutazione del complesso delle circostanze idonee a rivelare l'esercizio in comune di una attività imprenditoriale, quali il fondo comune costituito dai conferimenti finalizzati all'esercizio congiunto di un'attività economica, l'alea comune dei guadagni e delle perdite e la "affectio societatis", cioè il vincolo di collaborazione in vista di detta attività nei confronti dei terzi.
Sotto il profilo più strettamente processuale, poi, chiarisce ancora l'adito Tribunale come, nell'ambito del giudizio di merito l'esistenza di una società di fatto debba essere provata, in difetto di un contratto scritto, attraverso il ricorso a qualunque mezzo probatorio contemplato dall'ordinamento giuridico, ivi comprese le presunzioni semplici di cui all'art. 2729 c.c., purché l'accertamento dei tre requisiti sostanziali su cui si fonda la società di fatto avvenga in maniera rigorosa.
In proposito, si tiene distinta, da un lato, la prova del rapporto intercorrente internamente tra i soci e, dall'altro lato, la prova dei rapporti esterni esistenti tra questi ultimi e i terzi: mentre la prima non può che passare attraverso tutti gli elementi essenziali sopra menzionati sui quali si fonda la struttura della società di fatto, per la seconda è al contrario sufficiente che il vincolo sociale venga esteriorizzato per il tramite di comportamenti idonei a far sorgere in capo ai terzi un legittimo affidamento circa l'esistenza di una struttura societaria, con conseguente responsabilità solidale ex artt. 2267 e 2297 c.c. dei soci di fatto.
(Tribunale Lecce, sezione II, 29 giugno 2022 n. 1997)

VENDITA
Compravendita immobiliare – Garanzia per evizione – Operatività
. (Cc, articoli 1476 e 1483)
Secondo il Tribunale di Napoli, nell'ipotesi di compravendita di un immobile costruito senza licenza edilizia (titolo edilizio) si verifica, nei rapporti fra venditore e compratore, una fattispecie riconducibile alla disciplina dell'art. 1483 c.c. che ha gli effetti sostanziali dell'evizione totale, in quanto l'eventuale ordinanza di demolizione della costruzione abusiva comporta la perdita assoluta, e definitiva, della cosa per effetto dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione.
La garanzia per evizione rappresenta una delle obbligazioni principali del venditore ex art. 1476, n. 3, c.c. oltre che un effetto naturale del contratto di compravendita, operando senza che sia necessaria una specifica pattuizione in tal senso.
Ciò non esclude che il compratore possa rinunziarvi o contentarsi di una garanzia minore, a condizione che ciò risulti da una pattuizione espressa e inequivoca del contratto. Invero, può essere modificata od esclusa convenzionalmente la responsabilità per evizione - elemento naturale del contratto di compravendita - mediante clausola specifica da cui risulti l'intento di aumentare, diminuire od escludere gli effetti dalla garanzia.
Gli effetti della garanzia per evizione conseguono al mero fatto obiettivo della perdita del diritto acquistato, in quanto fatto comportante l'alterazione dell'equilibrio del sinallagma funzionale, con la conseguente necessità di porvi rimedio col ripristino della situazione economica del compratore quale era prima dell'acquisto.
(Tribunale Napoli, sezione XII, 30 giugno 2022 n. 6567)

ASSICURAZIONE
Contratto di assicurazione – Copertura assicurativa - Limitazioni
. (Cc, articoli 1341 e 1342; Dlgs 7 settembre 2005 n. 209, articolo 144; Dlgs 30 aprile 1992 n. 285)
Il Tribunale di Catania si sofferma sulla corretta esegesi della clausola di un contratto di assicurazione RCA che preveda la sua non operatività nel caso di veicolo guidato da conducente in stato di ebbrezza e, ancora, nel caso di veicolo guidato da persona sotto l'influenza di sostanze stupefacenti.
Con la precisazione che, in tali casi, l'Assicuratore eserciterà il diritto di rivalsa per le somme che abbia dovuto pagare per l'inopponibilità al danneggiato di eccezioni contrattuali.
Tale clausola, secondo il Tribunale, ha lo scopo di limitare l'oggetto della copertura assicurativa, nel senso di consentire alla Compagnia, che abbia risarcito il terzo danneggiato, di rivalersi nei confronti del proprio assicurato in alcune specifiche ipotesi configuranti violazioni di norme di legge.
Ne discende che al ricorrere delle richiamate ipotesi di guida in stato di ebbrezza e di guida sotto effetto di sostanze stupefacenti l'assicuratore ha diritto di rivalersi sul proprio assicurato di tutte le somme pagate a titolo di risarcimento danni al terzo danneggiato.
Tali principi risultano confermati dall'art. 144, II, D.Lgs. n. 209/2005 che esprime un principio generale in virtù del quale incombe in capo alla Compagnia assicurativa, a seguito di un sinistro causato dall'autovettura dalla stessa assicurata, l'obbligo di risarcire il danneggiato, al quale non potrà essere opposta alcuna eccezione di natura contrattuale.
Le eccezioni, fondate su condotte contrarie al principio di prudenza e alle regole del Codice della Strada (D.Lgs. n. 285/1992), potranno essere fatte valere in via di regresso nei confronti del soggetto assicurato.
Peraltro, nel giudizio di rivalsa, di natura contrattuale, promosso dall'assicuratore, il convenuto, ove invochi la nullità della clausola di rivalsa, ha l'onere di allegare e provare il fatto costitutivo dell'eccezione, e cioè l'illegittimità della pretesa dell'assicuratore, qualora la predetta clausola non sia stata resa conoscibile (in violazione dell'art. 1341, I, c.c.), ovvero non sia stata doppiamente sottoscritta (in violazione dell'art. 1342, II, c.c.), mentre l'assicuratore è tenuto a dimostrare solo l'esistenza del contratto e della clausola legittimante la rivalsa stessa.
(Tribunale Catania, sezione V, 1 luglio 2022 n. 3022)

MAGISTRATI
Responsabilità civile – Colpa grave
. (Cc, articolo 2236; legge 13 aprile 1988 n. 117, articoli 2 e 5; legge 27 febbraio 2015 n. 18)
Osserva il Tribunale di Milano come la responsabilità civile dei magistrati sia incentrata sulla colpa grave, tipizzata secondo ipotesi delineate dall'art. 2 L. n. 117/1988 (nella formulazione antecedente alla riforma introdotta dalla L. n. 18/2015), tutte accomunate da una negligenza inescusabile, tale da determinare una violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma applicata, ovvero una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico, o l'adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o infine lo sconfinamento dell'interpretazione nel diritto libero, occorrendo dunque un "quid pluris" rispetto alla colpa grave delineata dall'art. 2236 c.c. nel senso che si esige che la colpa stessa si presenti come "non spiegabile" e, cioè, senza agganci con le particolarità della vicenda idonee a rendere comprensibile anche se non giustificato l'errore del magistrato.
Rientra poi nella delibazione sull'ammissibilità della relativa domanda ex art. 5 L. n. 117/1988, innanzitutto, l'indagine sul carattere interpretativo o meno della lamentata violazione di legge da parte del Magistrato del quale si richiede l'affermazione di responsabilità, rientrante tra i presupposti di cui all'art. 2 della medesima legge.
L'obiettivo di individuare un punto di equilibrio che salvaguardi il ruolo propulsivo delle decisioni giudiziarie senza sacrificare il diritto del cittadino a non essere danneggiato dallo Stato giudice trae il suo fondamento dalla consapevolezza che una interpretazione volta ad ampliare le ipotesi in cui è configurabile una responsabilità civile del giudice rischia di depauperare del suo significato più proprio l'esercizio dell' attività giurisdizionale, che si estrinseca nella interpretazione delle norme, e a paralizzare o comunque a limitare la funzione dinamico-evolutiva della giurisprudenza, la sua idoneità a cogliere i mutamenti in corso nella società, a riempire di contenuto le norme adeguandole e allargandole alla tutela dei nuovi diritti, in altre parole di isterilire l'interpretazione stessa e con essa il proprium dell'attività giurisdizionale.
Né va sottaciuto il timore che l'affermazione della responsabilità civile del magistrato, in relazione ad un giudizio ormai definito con il giudicato, in cui non sia più possibile esperire mezzi di impugnazione, apra quell'irriducibile contraddizione logica individuata dalla dottrina tra il permanere della definitività di una decisione e l'accertamento della ingiustizia di essa, in altro giudizio.
Deve in ogni caso evitarsi che l'affermazione della responsabilità civile del magistrato possa essere intesa come idonea a minare, indirettamente ma fin dalle radici, l'intangibilità del giudicato.
(Tribunale Milano, sezione V, 1 luglio 2022 n. 5794)

PAGAMENTI
Indebito oggettivo – Onere della prova
. (Cc, articolo 2033)
Il Tribunale di Milano si sofferma sulla corretta esegesi dell'art. 2033 c.c. che detta la disciplina dell'indebito oggettivo e attribuisce al soggetto che ha eseguito un pagamento in assenza di causa il diritto di ripetere quanto pagato nei confronti del soggetto che l'ha ricevuto.
Il pagamento – precisa il Tribunale - è indebito quando effettuato in esecuzione di un titolo invalido oppure in assenza di un titolo.
Tale distinzione si riflette sulla disciplina dell'onere probatorio. Infatti, posto il principio generale per il quale l'attore che agisce per la ripetizione dell'indebito ha l'onere di dimostrare di avere pagato e di allegare la mancanza di causa nel contesto dei rapporti intercorsi tra le parti, mentre grava sul convenuto l'onere di dimostrare la causa del pagamento, tuttavia, l'onere della prova gravante sull'attore nel giudizio di indebito va assolta in relazione al thema decidendum, cioè al tipo di vizio che rende indebito il pagamento.
Precisamente, se l'attore assume che il pagamento di cui chiede la restituzione è stato eseguito in base ad un titolo nullo oppure diverso dagli accordi contrattuali, deve provare, nel primo caso, la nullità del titolo, e nel secondo, il contenuto dei patti intercorsi tra le parti.
Quando invece l'attore assume che il pagamento di cui chiede la restituzione è stato eseguito sine titulo suo onere è semplicemente quello di allegare l'inesistenza del titolo e sarà onere del convenuto quello di dimostrare l'esistenza di una giusta causa di pagamento.
Così, nei rapporti bancari, in ossequio alle regole generali in tema di onere della prova come desumibili dall'art. 2697 c.c., il correntista che intenda far valere il carattere indebito di talune poste passive – assumendo essere le stesse il portato dell'applicazione di interessi usurari o di clausole contrattuali nulle o, comunque, dell'addebito di spese, commissioni o altre "voci" non dovute – ha lo specifico onere di produrre, oltre alla sequenza completa degli estratti conto analitici, anche il contratto costituente titolo del rapporto di conto corrente dedotto in lite e gli eventuali ulteriori contratti sul medesimo regolati o comunque intervenuti inter partes (ad es. apertura di credito, affidamenti, anticipi s.b.f., ecc.), le cui pattuizioni sono oggetto di contestazione.
È invero mediante tale produzione che costui documenta, nella loro precisa entità, gli addebiti illegittimamente attuati in suo danno e le somme percepite dalla Banca in dipendenza di essi, al fine di ricostruire il rapporto di dare/avere.
Detto onere della prova così configurato grava sul correntista attore non solo allorquando lo stesso agisca per ottenere la ripetizione di somme indebitamente pretese dalla Banca, ma anche nel caso in cui il medesimo correntista promuova mera azione di accertamento negativo.
(Tribunale Milano, sezione V, 1 luglio 2022 n. 5797)

CONSUMATORE
Qualifica - Spettanza.
(Dlgs 6 settembre 2005 n. 206, articoli 33 e 36)
Secondo il Tribunale di Roma, ai fini della identificazione del soggetto legittimato ad avvalersi della "tutela forte" di cui alla disciplina del Codice del consumo, approvato con il D.Lgs. n. 206/2005, la qualifica di "consumatore" spetta solo alle persone fisiche, e la stessa persona fisica che svolga attività imprenditoriale o professionale potrà essere considerata alla stregua del semplice "consumatore" soltanto allorché concluda un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all'esercizio di dette attività.
Correlativamente deve essere considerato "professionista" tanto la persona fisica, quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che utilizzi il contratto non necessariamente nell'esercizio dell'attività propria dell'impresa o della professione, ma per uno scopo connesso all'esercizio dell'attività imprenditoriale o professionale.
Ispirato dalla prospettiva di colmare il divario tra professionista e consumatore, nell'ottica di fornire tutela a tale ultimo soggetto, considerato debole, il Legislatore ha varato una disciplina specifica (il citato D.Lgs. n. 206/2005) che, superando la logica formale, consente di rilevare la natura sostanzialmente vessatoria di alcune clausole contrattuali.
Le norme di riferimento sono gli artt. da 33 a 36 di detto Codice del Consumo.
In sintesi, dal combinato disposto dei commi 1 e 2 dell'art. 33 emerge che il Giudice può riconoscere in via generale la vessatorietà di qualsiasi clausola del contratto purché la stessa determini il significativo squilibrio di cui al primo comma.
Il successivo art. 34 individua i parametri cui il Giudice deve far riferimento per l'accertamento sulla vessatorietà della clausola, escludendo la natura vessatoria di quelle clausole che siano riproduttive di norme di legge (comma III), ovvero che siano state oggetto di trattativa individuale (comma IV).
Lo spazio lasciato dal Legislatore alla libertà negoziale con riferimento alle clausole presuntivamente vessatorie viene meno rispetto ad ulteriori clausole considerate sempre vessatorie ai sensi dell'art. 36, II, D.Lgs. n. 206/2005.
Infine si consideri che il condominio può essere annoverato tra i consumatori con la conseguenza che, se un amministratore di condominio conclude un contratto con un professionista, è applicabile la tutela prevista dal Codice del consumo in favore del condominio.
(Tribunale Roma, sezione XVII, 1 luglio 2022 n. 10590)

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